Vittorie perdute
Mentre i generali degli eserciti imperiali e nazionali possono sprecare, senza preoccuparsene, vite e occasioni poiché ciò che importa nelle guerre moderne è soprattutto consumare, distruggere e ricostruire (sia che si tratti di armi, edifici, infrastrutture o vite umane), il movimento di classe, rivoluzionario ed antagonista, è stato costretto, da sempre, a valutare attentamente le condizioni dello scontro politico e, talvolta, militare con la classe avversa.
La violenza e la battaglia di strada non possono essere un fine in sé perché, a differenza della logica capitalistica ed imperialistica, ciò che conta per il movimento reale sono sempre e solo i passi in avanti che lo stesso movimento riesce a fare, o meno, con le sue scelte.
Che proprio per questo motivo devono essere sempre oculate ed attente. Come già suggeriva, solo per citare un teorico piuttosto importante del movimento operaio, Federico Engels alla fine dell’Ottocento a proposito della reazione operaia alle leggi anti-socialiste di Bismarck.
Quel secolo era stato ricco di barricate in gran parte delle città europee e aveva visto sorgere e tramontare il primo esempio glorioso di conquista del potere da parte dei diseredati con la Comune di Parigi del 1871. Ma ciò non toglieva che Engels, esperto di tattica militare e di guerriglia urbana ante-litteram, invitasse i membri della classe operaia e della socialdemocrazia tedesca a valutare sempre con estrema attenzione le condizioni dello scontro politico e li esortasse ad evitare sempre il campo o le condizioni di battaglia imposti dalla borghesia e dai suoi rappresentanti e tutori.
Ciò non toglie che in alcuni casi ci siano stati episodi di lotta destinati alla sconfitta sin dal primo momento che, nonostante tutto, abbiano portato a vittorie successive, quasi sempre impreviste, di ordine politico. Ottenendo che chi aveva ritenuto di aver vinto sul campo si ritrovasse, poi, a gestire una vittoria di Pirro o, come recitava il titolo italiano di uno dei primi film critici della guerra americana in Vietnam, a ritrovarsi tra le mani delle autentiche “Vittorie perdute”1.
L’offensiva del Tet (gennaio – marzo 1968)
Uno di questi casi, che furono spesso legati alle lotte di liberazione nazionale più che ad uno scontro diretto tra proletariato e borghesia, fu quello dell’offensiva vietnamita del Capodanno del Tet.
Legata al nome del generale Vo Nguyen Giap, che già aveva duramente sconfitto l’esercito coloniale francese nella battaglia di Dien Bien Phu (1954) costringendolo successivamente a ritirarsi dall’Indocina, l’offensiva avrebbe segnato l’inizio della fine della dominazione imperialistica statunitense sul Vietnam del Sud.
Scatenata sul territorio del Vietnam del Sud durante gli ultimi giorni di febbraio del 1968 e a Saigon nella notte tra il 30 e il 31 gennaio, all’apice dei festeggiamenti per il capodanno vietnamita, l’operazione militare era stata elaborata fin dall’estate del 1967, quando i leader politici e militari del Vietnam del Nord e del FLN del Sud si erano ritrovati ad Hanoi per capire come fronteggiare le operazioni militari portate avanti dal generale Westmoreland fin dalla primavera dello stesso anno.
Fino ad allora la tattica vietnamita si era limitata a rintuzzare le azioni dell’esercito americano e del Vietnam del Sud con attacchi chirurgici ad obiettivi ben delimitati. Si trattava ora di lanciare, secondo l’opinione di Giap, un’offensiva più allargata, mirante a colpire le basi americane più avanzate, i centri urbani e la stessa area urbana della capitale sud-vietnamita Saigon.
Nella speranza che ciò portasse ad una insurrezione generale della popolazione dell’intero Vietnam del Sud.
La data non era stata scelta a caso perchè nel 1789 i patrioti vietnamiti avevano attaccato le forze cinesi che occupavano Hanoi proprio durante la festa del Tet. Usando in maniera retorica questo richiamo, il Partito Comunista si diede a svolgere una campagna straordinaria a favore di un’offensiva destinata a porre fine alla guerra . Una “Grande offensiva che poteva essere attuata solo una volta ogni mille anni”, si disse allora nell’impeto propagandistico.
Non tutti i dirigenti comunisti si dimostrarono ugualmente entusiasti dell’idea, soprattutto quelli del Sud e di Saigon in particolare. Consci della scarsa organizzazione ed efficacia dei nuclei operativi urbani del Sud. Ma per quasi tutti i comandanti e dirigenti il colpo, soprattutto a Saigon, avrebbe dovuto rappresentare, durante la campagna elettorale statunitense del 1968, l’impossibilità per gli americani di vincere quella guerra.
I vietcong, che costituivano di fatto l’armata “irregolare”, portarono armi oltre il confine con la Cambogia attraverso i tunnel sotterranei di Cu Chi e il cosiddetto Triangolo di Ferro.
I combattenti si riunivano anch’essi nei tunnel sotterranei e lì ricevevano ordini dettagliati e alla vigilia dell’azione si riunirono in abitazioni appositamente preparate allo scopo. Mentre i loro agenti, per lo più donne e bambini, trasportavano armi oltre i punti di controllo della città mediante una varietà eccezionale di sotterfugi.
La strategia di Giap si basava anche sulla speranza di riuscire a distribuire armi pesanti agli insorti dopo averle strappate alle basi di artiglieria e di mezzi corazzati dell’esercito sud-vietnamita presenti nell’area di Saigon. Fu così che, poco prima delle tre del mattino del 31 gennaio, 35 battaglioni si mossero contro i sei obiettivi principali dell’area di Saigon: il Quartier generale dello Stato maggiore sud-vietnamita, il Palazzo dell’indipendenza (che ospitava gli uffici dell’ambasciata americana), la base aerea di Tan Son Nhut, il Quartier generale della marina Sud-vietnamita e la stazione televisiva nazionale (da cui avrebbe dovuto essere trasmesso via radio un discorso preregistrtao di Ho Chi Minh).
Otto battaglioni e 4.000 uomini e donne locali si concentrarono nell’assalto al centro urbano, che conoscevano ottimamente poiché molti di loro erano cyclopousse o tassisti. Furono 250 uomini e donne del battaglione C-10 genieri di Saigon ad aprire la strada agli attacchi, con il compito di mantenere il controllo degli obiettivi fino all’arrivo dei rinforzi locali. Che spesso finirono con il non arrivare.
I sei obiettivi furono tutti raggiunti ed occupati, ma quasi sempre tenuti soltanto per poche ore.
Il messaggio di Ho Chi Minh non fu mai trasmesso perché un tenente colonnello dell’esercito del Sud Vietnam aveva previsto una simile eventualità e la corrente elettrica fu tolta alla stazione dopo i primi spari. Ma nonostante tutto ciò, all’alba i vietcong erano riusciti a penetrare in molti punti ad ovest e a sud di Saigon e a controllare intere zone alla periferia di Cholon.
In molti casi comunque, dentro e fuori Saigon, gli attaccanti ben coordinati e coraggiosi, che pur erano riusciti a cogliere di sorpresa i militari americani e l’esercito sud-vietnamita, dovettero soccombere di fronte alla mobilità e alla potenza di fuoco statunitensi.
Così, nonostante l’effetto sorpresa e il sostanziale successo della prima ondata di attacchi, le cose per gli insorti non andarono come previsto.
L’insurrezione generale non ebbe luogo e il sostegno da parte dei civili di Saigon fu scarso.
Respinti e cacciati dagli obiettivi principali, i vietcong si frammentarono in piccole unità e cercarono riparo nelle case di Saigon, in particolare nella zona circostante l’ippodromo di Phu Tho che si trovava in posizione centrale rispetto alle principali strade della città. Averne il controllo significava anche impedire agli elicotteri americani di utilizzare i suoi impianti per atterrare e scaricare truppe di rinforzo.
Gli scontri continuarono intorno a Phu Tho e quasi tutte le unità vietcong confluite su Saigon contribuirono con i loro militanti a questa battaglia.
Il 1° febbraio la direzione e l’alto comando del Fronte di Liberazione furono costretti ad ammettere che molti obiettivi del piano generale non erano stati raggiunti e a diramare l’ordine di sospendere gli attacchi alla postazioni militari avversarie. Anche se le forze armate americane e sud-vietnamite conclusero le operazioni militari nell’area di Saigon soltanto il 7 marzo, cinque settimane dopo il primo attacco.
Nel resto del Vietnam del Sud le operazioni si erano concentrate particolarmente intorno alle città di Hue, Da Nang e Quang Tri, con la base americana avanzata di Khe Sahn. In particolare la battaglia per Hue durò 26 giorni, mentre l’offensiva sugli altri obiettivi cessò il 21 febbraio.
In termini puramente militari, il Tet si era rivelato un insuccesso. I vietcong avevano riportato 40 o 50 mila vittime a fronte di 4.000 americani morti o feriti e 4.000 o 8.000 morti dell’Esercito Sud Vietnamita. Mentre la guerra sarebbe continuata per almeno altri cinque anni, fino al 1973.
La cosa più grave per gli insorti fu rappresentata dal fatto che dalle loro fila erano stati eliminati gli elementi più determinati e preparati. Avevano saputo concentrare i combattenti migliori che pur erano stati spazzati via dalla potenza di fuoco americana. Ma i successi americani sul campo di battaglia furono annullati dalle conseguenze politiche scaturite dall’offensiva del Tet.
Su come si perdono le vittorie e come le sconfitte si possono trasformare in vittorie
La prima impressione che gli spettatori americani ricevettero dalle trasmissioni televisive dell’epoca fu quella dell’inarrestabilità dell’offensiva insurrezionale vietnamita.
Infatti quindici minuti dopo il primo attacco un corrispondente dell’Associated Press aveva battuto a macchina una notizia che annunciava l’offensiva poiché gli uffici della Western Press si trovavano di fianco all’ambasciata americana.
Ciò avrebbe avuto conseguenze immense sulla percezione che gli organi di informazione avrebbero avuto e trasmesso da quel momento sulla guerra americana in Asia.
I giornalisti che poterono, di fatto, accedere immediatamente al luogo dello scontro finirono col percepire in maniera distorta il reale esito del combattimento. In fin dei conti lo scoop finì con l’essere rappresentato proprio dal fatto che i guerriglieri erano riusciti a penetrare “perfino” all’interno dell’ambasciata. Cosa impensabile fino al giorno prima.
Nella concitazione delle prime ore i titolisti delle più influenti testate ebbero così l’occasione di diffondere, probabilmente ingigantendolo, il messaggio secondo il quale la roccaforte del prestigio americano era caduta in mano al nemico. Qualche ora dopo, una volta che l’edificio era stato riconquistato, fu lo stesso Westmoreland ad improvvisare una conferenza stampa, in mezzo ad un’autentica carneficina di corpi di vietcong appartenenti al battaglione genieri.
In mezzo a quel disastro di sangue e di corpi maciullati, il generale dichiarò ufficialmente che il nemico non era riuscito a penetrare nel perimetro dell’edificio.
I giornalisti, come molti testimoniarono in seguito, non potevano credere alle loro orecchie, mentre Westmoreland in piedi tra le macerie stava cercando di convincere il mondo che tutto stava andando a gonfie vele. E gli americani percepirono, a casa, che il generale stava mentendo spudoratamente.
Da quel momento probabilmente si ruppe il rapporto di fiducia tra media americani e rappresentanti e portavoce dell’esercito. Come le cronache e gli editoriali di Walter Cronkite, celebre conduttore del telegiornale CBS Evening News, confermarono nei mesi successivi.
Dopo l’editoriale di Cronkite, dove affermava che non era possibile vincere quella guerra, il presidente Lyndon Johson affermò, “Se ho perso Walter Cronkite, ho perso l’America moderata“. E poco dopo lasciò la corsa alla presidenza statunitense del 1968.
Nonostante le immagini dei cadaveri dei vietcong impilati all’esterno delle basi americane, nessuno parlò o festeggiò la vittoria americana sul campo di battaglia. L’opinione pubblica aveva capito che il “nemico”era più forte di quanto dichiarassero i politici e i generali americani. L’alternativa poteva essere soltanto tra un’ulteriore escalation militare statunitense, cui già si opponevano molti giovani e reduci americani, o l’apertura di negoziati con l’avversario.
Fu lo stesso Cronkite a chiederlo nella trasmissione televisiva del 27 febbraio 1968; “ Siamo rimasti delusi anche troppo spesso dall’ottimismo dei leader americani… Dire che siamo vicini alla vittoria oggi equivale a credere agli ottimisti che già si erano sbagliati in passato, visto le ultime prove raccolte… Dire che siamo fermi ad uno stallo totale è l’unica conclusione realistica a cui possiamo giungere oggi…Sta diventando sempre più evidente che l’unica via di uscita razionale è il negoziato”.
Certo al negoziato non si giunse solo per merito della stampa o dei media. La mobilitazione contro la guerra aveva raggiunto negli USA dimensioni preoccupanti, mentre il tasso diserzione dall’esercito americano era passato dal 10,5 per mille del luglio 1967 (in piena summer of love) al 16,5 per mille del luglio 1968, con 13.506 uomini che disertarono in quel solo mese. Allo stesso tempo va qui segnalato che proprio nel corso del 1969 e del 1970 si giunse però agli scontri più feroci sul campo.
Così il 3 maggio del 1968 si giunse ad un accordo formale tra Stati Uniti e Vietnam del Nord per l’apertura di una trattativa e il 3 luglio dello stesso anno il generale Westmoreland lasciò l’incarico di comandante in capo.
L’offensiva del Tet aveva fatto registrare una simmetria che si rivelò fatale per la strategia americana in Asia: aveva distrutto le migliori forze vietcong (che fino al 1969 non poterono pienamente ricostituirsi), ma costrinse, anche, gli americani a tirarsi indietro. Il definitivo abbandono della base di Khe Sahn, nel giugno del 1968, fu il primo sintomo del disimpegno militare americano.
Un altro ed inaspettato fronte di lotta internazionale si apriva però in quei giorni.
A Parigi, città dove si sarebbero poi tenuti gli incontri tra la delegazione americana e quella vietnamita, proprio la notte del 3 maggio iniziarono gli scontri tra gli studenti e la polizia nel Quartiere Latino. E il 13 maggio, giorno dell’apertura dei colloqui presso il palazzo Kléber – La Pérouse al n. 19 dell’Avenue Klèber, si svolse lo sciopero generale proclamato dai sindacati francesi a fianco degli studenti in rivolta. Una nuova era aveva avuto inizio.
Caso, rabbia, tenacia, diffusione delle lotte a livello internazionale furono certamente alleati della lotta per l’indipendenza del Vietnam e trasformarono una drammatica sconfitta nel prologo di una vittoria futura.
Le lotte di oggi, di dimensioni molto più ridotte e in una dimensione temporale ben diversa, anche se altrettanto drammatica, difficilmente potrebbero usufruire di una simile coincidenza di fattori.
Gli stessi media embedded, dai fronti internazionali a quello interno, non potrebbero più svolgere la stessa funzione. Su questo occorre riflettere prima di offrirsi e offrire le manifestazioni, che stanno faticosamente cercando di ricostruire un’unità di classe e di intenti, come agnelli sull’altare sacrificale mediatico, giudiziario e poliziesco della repressione di Stato. Anche se l’unica autentica similitudine, tra i fatti narrati e quelli di oggi, potrebbe essere costituita dall’uso di gas CS che gli americani usarono in abbondanza a Saigon così come le forze del dis/ordine fanno ancora sulle piazze italiane.
Marx sottolineava che nella Storia ciò che si presenta, in un primo tempo, come dramma è spesso destinato a ripetersi poi sotto forma di farsa. Ecco: evitiamolo accuratamente!
Anche perché, al contrario della storia delle nazioni, l’umanità futura non dovrà più aver bisogno di martiri per giustificare la propria liberazione e il proprio posto nella Natura.
N.B.
L’accompagnamento musicale per l’eventuale rilettura di quanto fin qui detto potrebbe essere costituito, più che da qualche vetusta versione dell’Internazionale, dall’album dei Jefferson Airplane “Bless Its Pointed Little Head”, registrato tra l’ottobre e il novembre del 1968 al Fillmore West di San Francisco e il Fillmore East di New York, autentico prodotto della rabbia, della delusione e del rifiuto giovanile americano per la guerra in Vietnam.
(3 – continua)
Go Tell The Spartans di Ted Post, USA 1978 ↩