di Alberto Prunetti

di ruscio[Colgo l’occasione del Primo Maggio, giornata in cui si ricorda in origine la memoria di alcuni lavoratori anarchici impiccati a Chicago, per una multi-segnalazione di titoli che hanno come tema principale la narrativa e l’inchiesta su tematiche afferenti al mondo del lavoro] A.P.

_ Luigi Di Ruscio, Romanzi, Milano, Feltrinelli, 2014, pp. 551, euro 39

Una raccolta davvero importante che restituisce il rilievo che merita a un autore sorprendente – eppure dimenticato, rimosso, forse perché, direbbe lui, “scravattato”  – della letteratura italiana. Di Ruscio è un metalmeccanico che ha fatto studi da autodidatta e dopo aver lavorato come manovale, imbianchino e fotografo di matrimoni è emigrato in Norvegia negli anni Cinquanta. Eccome come si definisce: “Poeta matto e non omologabile, metallurgico per continui decenni sono rimasto in balia di tutti i misteri di fabbrica, le polveri, le ruggini, i continui ruggiti, ecco la Christiania Spigerverk, la instancabile fabbricazione di chiodi cristiani” (p. 421). Chiodi che crocefiggono alla macchina trafilatrice l’operaio emigrato. Ancora: “Sarei metallurgico comunista e baro, anarchico superlativo non rispetta le regole ortopediche, bestemmia in tutte le lingue anche ispaniche”. Di lui avevo già letto qualche tempo fa Palmiro e mi aveva colpito piacevolmente anche per la verve comica della scrittura, che sentivo affine. Ma Neve nera, che ho letto in questa nuova edizione Feltrinelli (in sostituzione del precedente titolo, La neve nera di Oslo), è veramente un capolavoro. Quella di Di Ruscio è una colata di ghisa che fatica a stamparsi negli angusti e ben cesellati calchi in piombo delle patrie lettere; è piena di refusi, di sbavature colme di senso, rifilate a colpi di sostantivi rimodulati in verbi. È scrittura di emigrazione quella di Di Ruscio –  “straniero, strano, estraneo, stranito, estraniato” (p. 466) –  che si ibrida con la nuova lingua seconda, con la memoria di una lingua madre sempre più distante. È la scrittura di chi smette di filare acciaio in chiodi e poi si mette a punzonare su un’altra macchina, una macchina da scrivere, con la stessa competenza da metalmeccanico, e rimane lui stesso inchiodato davanti a quelle matte carte per ore e ore.

Nel calderone narrativo di Di Ruscio ribollono motivi e immagini. Gli incidenti sul lavoro. La strada dalla casa alla fabbrica. La bicicletta. La consorte. I figli.  Alcuni momenti di poesia metalmeccanica che colpiscono chi ha vissuto in ambienti operai, come guardare le eclissi con gli occhiali da metalmeccanico: “ho appeso davanti a questo muro gli occhiali da saldatore con tutte le lenti spruzzate con questi occhiali guarderò tutte l‘eclissi solari” (pp. 436-437) (qui un battito al cuore perché lo facevo anch’io da piccolo).  O la bellezza della tuta blu, rivendicata  con orgoglio – e non posso che essere d’accordo – come il capo d’abbigliamento più elegante che si possa indossare: “mia moglie mi ha detto che ero elegante solo con la tuta e i miei compagni di lavoro quando li vedevo nelle loro vesti borghesi erano ridicoli” (p. 449).

Un orgoglio che, alla fine dei suoi giorni, lo porta a rivendicare di aver scritto opere di poesia e di narrativa pur lavorando in fabbrica. O forse grazie al lavoro di fabbrica, o meglio: grazie alle lotte sindacali degli operai norvegesi che hanno permesso a un operaio italiano di godere di tanto tempo libero dal lavoro, tempo da dedicare alla scrittura. Lottare vuol dire lottare anche per questo, non solo per il pane. E in conclusione, scrive Di Ruscio, “orgogliosamente ho fatto parte del sindacato metallurgici di Oslo”.

 

_Rodge Glass, Voglio la testa di Ryan Giggs, Roma, 66THAND2ND, 2014, pp. 327, euro 17

glassLa narrativa del calcio negli UK è sempre più intrigante e legata all’identità working class. Certo, in un paese in cui la letteratura sul football è abbondante, non mancano scritture di fiction calcistica legate ai ceti sociali middle class (vedi il Peace de Il maledetto United o il divertente Febbre a 90 di Nick Horny); eppure è innegabile il legame tra football e ceti subalterni britannici. Salutiamo allora in queste righe la scrittura working class inglese, in particolare quella della classe ’92 e dintorni (il riferimento per chi non lo coglie va al vivaio delle giovanili del Man United che ha tirato fuori gente come Giggs, Beckam, Butt, le “sorelle” Neville e tanti altri campioni). Già avevo citato su Carmilla il bel libro di Anthony Cartwright, Heartland. Rodge Glass ha grosso modo la stessa età ed esce per lo stesso editore italiano. Il libro è notevole. Ci racconta la storia di un ragazzo che poteva essere appunto uno della classe ‘92 e invece ha fatto una vita normale. “Normale” alla maniera inglese: risse, alcol, scommesse, vita familiare in frantumi. Un romanzo consigliato per chi si interessa di calcio o di Inghilterra. O di entrambi. By the way, Glass in questo libro ha profetizzato: a) il passaggio in panchina, come allenatore, dell’eterno Giggs e b) la fondazione del primo club di tifosi del Manchester su Marte nel 2045 circa. Sul primo punto ha già avuto ragione, sul secondo  staremo a vedere.  (PS: è un libro abbastanza “vecchio”, ma merita la segnalazione. Leggetevi anche Come gli S.S. Wanderers vinsero la coppa d‘Inghilterra di James Lloyd Carr. Opera eccentrica, piena di umorismo, sembra scritta da un Soriano – orribile dictu – britannico).

 

_Angelo Ferracuti, Il costo della vita, Einaudi, Torino, 2013, pp. 212, euro 19

costo della vitaPaga globale. Mi ero dimenticato di questa espressione, così comune in un certo periodo nelle discussioni di economia domestica tra mio padre e mia madre. Era una forma di paga, tutt’altro che ottimale, che veniva offerta ai metalmeccanici. Se ne parla, non a caso, in un libro intitolato “Il Costo della vita”: una profondissima, asciutta, rigorosa ma anche commovente inchiesta narrativa di Angelo Ferracuti, che ricostruisce la morte di tredici operai addetti alla pulitura di una nave adibita al trasporto di gas liquido, in seguito a un principio di incendio verificatosi nel porto di Ravenna nel 1987. Ferracuti va alla ricerca di tutti i protagonisti e i testimoni di quella vicenda tragica e la intreccia con la storia di un pezzo di capitalismo italiano. Di quel piccolo capitalismo familiare e amorale che è tipico del nostro paese. “La Mecnavi è una di quelle aziende con meno di quindici dipendenti che Luciano Gallino definisce in un libro ‘imprese irresponsabili’, una piaga strutturale del nostro capitalismo contemporaneo, perché si pensa al di fuori della legge e ‘suppone di non dover rispondere ad alcuna autorità pubblica o privata’.” Un libro importante, scritto con una penna piana che calibra bene emozioni e dettagli analitici; un saggio che a me ha ricordato l’inchiesta di Bianciardi e Cassola sulla strage di Ribolla e sui minatori maremmani; una narrazione che si legge tutta d’un fiato,  in un filone editoriale in continua ebollizione, con l’ambizione di riaccendere i riflettori sul mondo del lavoro.

 

_Marco Rovelli, Moni Ovadia, La meravigliosa vita di Jovica Jovic, Milano, Feltrinelli, 2013, pp. 187, euro 15

jovicaQuesto libro è quello che può sembrare più estraneo al tema della segnalazione maggerina. Probabilmente le librerie lo collocano in soggettario alla voce “biografie musicali”. Invece, proprio perché si parla di un musicista rom (e il senso comune, erroneamente, vuole che i rom non lavorino) ci tengo a inserirlo in questo mazzo. Tanto più che uno degli autori, Marco Rovelli, ha raccontato in maniera esemplare storie di lavoro e di sfruttamento nei suoi precedenti scritti (in particolare Servi e Lavorare uccide). Una storia di musica che si fa storia di lavoro. Perché il libro ci racconta la storia di un musicista da matrimoni, i suoi estenuanti tour nei tanti matrimoni rom di mezza Europa, i lavori fatti tra i Balcani, l’Austria e l’Italia. Non solo musica. Jovica, il protagonista del libro (di cui ho potuto apprezzare la voce profondissima, cavernosa, davvero bella, durante una presentazione) è stato anche gestore di un ristorante nell’ex Jugoslavia, prima della guerra e dell’etnizzazione forzata di quel paese (peraltro il suo ristorante è stato vandalizzato durante il conflitto bellico). In una vita non c’è solo il lavoro, ovviamente. Ci sono disastri e tragedie terribili, e storie e fiabe surreali. C’è l’amore e la morte, la guerra e la clandestinità, i campi rom italiani visti come un inferno, una particolarità degli italiani e della loro disorganizzata gestione dei profughi, più che dei rom (Jovica non ha mai vissuto in un campo, prima di arrivare in Italia: aveva la sua casa di mattoni). Una storia che bisognerebbe conoscere e leggere, per sbarazzarsi di tanti pregiudizi antizigani.