di Simone Scaffidi Lallaro
Partecipiamo ad un dibattito il cui ospite d’eccellenza è Maurizio Pallante, presidente del Movimento per la Decrescita Felice. Non conosciamo a fondo il movimento italiano, sappiamo giusto chi è Latouche e che qualche giorno fa ha paccato una nostra amica recatasi a Venezia apposta per intervistarlo. Ciò non ci impedisce però di soffermarci sulla locuzione “decrescita felice” e concentrare le nostre perplessità sull’aggettivo “felice” piuttosto che sul sostantivo “decrescita”. Il monologo non fa in tempo a partire che l’aver dubitato della purezza della locuzione – come nelle peggiori maledizioni – si ritorce immediatamente contro di noi: la felicità comincia a decrescere vertiginosamente. Siamo in buona compagnia, un signore brizzolato si avvicina e con gli occhi spalancati di stupore ci domanda se l’incontro ha a tema la decrescita felice o la felicità incresciosa. Poi il suo sguardo si fa duro e ci squadra incazzato.
In mezzora di monologo abbiamo sentito parlare solamente di un grande imprenditore parmigiano di cipolle borettane e di un’amministrazione illuminata del bellunese. Il primo ha creato un magnifico agro-villaggio che doterà di accoglienti villette a schiera eco-sostenibili e la seconda ha prodotto occupazione arruolando una schiera di giovani volenterosi incaricati di sviluppare progetti alternativi per la raccolta differenziata, abbattendo così i costi della spesa pubblica e offrendo – al raggiungimento degli obiettivi – uno stipendio ai giovani ex-disoccupati. Ci domandiamo cosa accadrà se gli obiettivi non verranno soddisfatti e se in quel caso si potrà parlare di ricatto ecologico ai danni dei fortunati occupati.
La trafila di elogi all’imprenditore e all’amministrazione, attestatasi su posizioni melodrammatiche, si converte in tragicomico quando con scioltezza disarmante si afferma che esistono aziende che gratuitamente effettuano l’isolamento “a cappotto” delle facciate e che chiunque – anche chi non possiede nulla – ha la possibilità di richiedere prestiti per comprarsi la casa. La realtà sembra sfuggire di mano all’oratore ma i presenti in sala non se la lasciano scappare: partono gli interventi e il dibattito si arricchisce di contenuti e critiche.
Il pubblico di decrescita felice sa poco ma ha da esprimere le sue ragioni sulla felicità applicata all’esistente. Il tessuto sociale d’altronde è sotto gli occhi e i piedi di tutti, imprenditori buoni e non: c’è chi lo calpesta un po’ di più, chi lo calpesta un po’ di meno e chi vorrebbe calpestare chi lo calpesta. Stufi di sentire osannare magnifiche gesta e grandi imprese si comincia a sovvertire il linguaggio messianico dell’oratore. Crollano gli argini delle dighe a norma di sicurezza e la sala viene invasa da un mare di domande ed incertezze, con l’obiettivo più o meno consapevole di restituire nomi e significati alle cose.
Si domanda a Pallante se quei ragazzi del bellunese non rimangono degli sfruttati con il contentino di un lavoro più ecologicamente sostenibile – ma pur sempre sfruttati e precari – con l’aggravante del contratto a progetto. E se quegli stessi ragazzi potranno mai permettersi una delle famose villette a schiera dell’imprenditore di cipolle borettane.
L’oratore non apprezza le critiche, le parole “sfruttati” e “sfruttatori” sembrano non appartenere al suo vocabolario, a suo dire sono retaggi otto-novecenteschi, con i quali sfugge il confronto. Concetti che alle sue orecchie suonano retorici e – cosa ben più grave – paiono infondati. Non ha nessuna intenzione di affrontare la mole di contraddizioni che legano in maniera sostanziale i due termini del discorso e con arroganza si rifiuta di problematizzare le esperienze narrate. Infine, incalzato da chi sostiene di non poter concepire un cambiamento calato dall’alto afferma che l’economia di mercato (quella che il pubblico bacato si ostina a chiamare capitalismo, perché capitalismo ha un significato – da capitale – mentre economia di mercato non vuol dire nulla) è il campo in cui si gioca la sua partita, un terreno di gioco che non si vuole in alcun modo mettere in discussione.
Praticamente un’amichevole giocata in casa dove non si perde e non si vince niente perché a divertirsi – e giocare con le felicità altrui – sono i già felici. Quelli che possono permettersi di vincere e guadagnarsi la medaglia di filantropo made in Italy più in voga del momento. Quelli che possono permettersi di perdere e continuare a essere felici, come ai piani alti dei casinò.
Le slot nei bar delle stazioni e i campi brulli, dove non si disputano amichevoli ma lotte all’ultima felicità, li lasciamo agli sfruttati. Anche loro saranno invitati al grande pranzo di gala a impatto zero per il trionfo della felicità. Serviranno braccia per cucinare e prodotti biologici per rimpinguare le pance dei padroni. Mentre i green managers si abbufferanno, i servi sorrideranno, felici di contribuire alla salvaguardia del pianeta.