di Marilù Oliva
Valeria Parrella, Il tempo di imparare, Einaudi, Roma, 2014, pp. 136, euro 17.
Vincitrice del Premio Campiello con l’opera prima di racconti Mosca più balena (Minimum fax, 2003), finalista al Premio Strega nel 2005 con un’altra raccolta di racconti, Per grazia ricevuta, uscita poi nel 2008 col primo romanzo, Lo spazio bianco, da cui è stato tratto l’omonimo film diretto da Francesca Comencini – presentato alla 66ª Mostra del Cinema di Venezia –, Valeria Parrella è nata a Torre del Greco ma ora vive a Napoli. Tra la sua bibliografia precedente a quest’opera mi limiterò a citare solo Ma quale amore (Rizzoli, 2010) e Antigone (Einaudi, 2012), prodotto dal Teatro Stabile di Napoli. Che Il tempo di imparare abbia una stretta attinenza con il vissuto dell’autrice, lo si capisce dalle prime pagine, anzi: lo si respira. La vita domina l’istante, ma senza spodestare gli spazi del narrato, e del resto sarebbe impensabile non trovarla: alla domanda «La vita entra nei libri?» la Parrella ha dato una risposta eloquente: «Se non ci entra, non hai scritto un libro».
Nell’incipit la voce narrante torna a scuola, dopo tanti anni, nelle vesti di una madre che accompagna il figlio, Arturo, al fatidico giorno d’inizio di prima elementare e il contrasto tra la ressa dell’ingresso e la quiete dell’attesa sono la chiave per catturare il tempo:
«Ho aspettato nella calca delle voci che si aprissero i cancelli, stretta tra i bambini e le madri ho guardato ora il portone ora il bidello, e l’aria era rarefatta intorno a me, il tempo volava e si rivelava, assieme, come fa la polvere nel sole».
Perché di tempo ce n’è parecchio, per riflettere, quando ci si deve adattare a un’idea di diversità che la nostra vita ha sempre ignorato, con la scusa che ne è stata soltanto sfiorata e certe questioni sembra che non ci riguardino. Siamo tanto assuefatti a procedere per compartimenti stagni che non ci accorgiamo che l’altro si interfaccia in continuazione a noi e nemmeno la normalità, come la intendiamo, è esente da imperfezioni.
Non si dica che questo è un libro sulla disabilità: è piuttosto un libro su di noi, quando ci troviamo senza strumenti di fronte all’alterità e restiamo spiazzati. Allora ci dobbiamo arrangiare, costruire gli utensili, saldare le scale alle torri, indovinare i mezzi di decodifica. Dobbiamo svincolarci dalle norme imposte, dalle mentalità avvezze all’ottundimento, dall’omologazione. Ma prima occorre ascoltare l’altro e le sue parole – non dette ma ugualmente arrivate – potrebbero rivelarsi una chiave d’accesso:
«Non vorrei essere qui, il mondo è pesante, crescere comporta dolore, dell’altro non mi fido, voglio fare solo ciò che so meglio fare e ripeterlo di continuo, non aspetterò il tuo permesso per chiudermi nell’infinito labirinto che io stesso eressi. Non ho bisogno di indossare ali di cera per vederle rovinare al sole».
Due umanità scindono i viventi, quella della foresta pluviale e quella del deserto: inutile precisare che non si può scegliere da che parte stare, soprattutto se il canyon che separa gli abitanti è invalicabile. Questo libro racconta di come le distanze siderali di due mondi – quello di una madre e di un figlio disabile – possano colmarsi nonostante le resistenze interiori, l’apparente incomunicabilità, le occlusioni di un ambiente non proprio accogliente e di un sistema sanitario grazie al quale per una visita neurologica occorre aspettare almeno 78 giorni:
«L’handicap è questa cosa qui, mi apparve chiaro che non c’entrasse nulla con me e con la vecchia in pantofole, piuttosto con il computer rotto e il gerarca indecente. Handicap è la parola che indica lo svantaggio dei cavalli alla partenza quando sono troppo veloci: un punteggio negativo da calcolare per farli gareggiare con altri. Noi forse avevamo disabilità, ma il nostro svantaggio non era in noi: era nei settantotto giorni di attesa».
Le sensazioni che accompagnano il lettore sono molteplici: rabbia, indignazione, sollecitazione, speranza. Speranza che, passo dopo passo, liberandosi dal logoramento della ripetizione, magari grazie anche alla compartecipazione di chi si trova nella stessa situazione – perché gli estranei… quelli si accostano alla questione spesso con troppa leggerezza – o anche no: basta la solidarietà di altri genitori, una scuola che funzioni o anche piccole cose come un bicchiere di vino, le gite, la pace provvisoria, e le cose possano distendersi. O almeno prendere un cammino più certo, al di là dei ricorsi, dei muri di gomma, degli impiegati stolti. Prima, però, occorre stabilizzare il passo e il baricentro ha un nome semplice, che fatica a scorrere sotto agli occhi. L’accettazione. Questa è la prova indispensabile, questa è la strada maestra e taglia le pagine e la mente solo quando qualcuno versa in faccia la verità:
«Allora io sento che lui mi sta dicendo che il problema scomparirà il giorno in cui io non lo sentirò più, e io non lo sentirò più quando avrò accettato. E penso che questa cosa è ingiusta in sommo grado giacché io non mi arrendo mica, e non accetto. E che il problema siamo noi essendo, non esso esterno a noi, e arrendersi e accettare significa morire per me, il che non escludo: ma se gli dei avessero pensato alla morte come a una conclusione sufficiente non avrebbero inventato il supplizio».
Arturo guarisce la madre, in quanto appartenente agli inconsapevoli geni tutelari della sua fatica. Chi si aspetta il lieto fine delle favole o, al contrario, un esito drammatico, verrà deluso: qui c’è la vita – per concludere chiudendo il cerchio aperto all’inizio – e la vita in genere cozza con le favole bianche o nere. Qui ci sono sfumature, possibilità, concretezza, tremori, cadute, riassestamenti. Tutti rappresentati con la mirabile forza narrativa di chi racconta attingendo a poesia e coraggio, all’abisso e al mito come epicentro ciclico di tutto ciò che è già accaduto, sempre e in profondità. E vi capiterà di cogliere i chiasmi, le figure retoriche, di rinfrescarvi con un soffio di vento, di sentire il rumore dell’acqua e di sottolineare brani come questo:
«A metà pontile ero nel mare. Avevo solo cielo e mare e gabbiani attorno a me. E un jogger ogni tanto. Era metà mattina a metà marzo e c’erano forse venti gradi. Io camminavo sul mare. E quando sono arrivata in fondo, tanti studenti che non erano andati a scuola stavano a baciarsi, a due a due, con gli zaini ammucchiati sotto la balaustra. Un fotografo seduto al cavalletto aspettava che il gabbiano passasse nel suo obiettivo. E il vento: allora mi sono girata verso terra.
E io stavo nel mare e l’orizzonte era la terra».