di Walter Catalano
Improbabile – date tali premesse – che chi avesse voluto seguire Lovecraft sulla sua identica strada potesse non essere condannato a perdersi inevitabilmente Tutti i cosiddetti seguaci, dai colleghi di Weird Tales come Robert Howard e Clark Ashton Smith; ai discepoli e continuatori come August Derleth, Donald Wandrei, Carl Jacobi, Edgar Hoffman Price; agli ammiratori che occasionalmente o solo all’inizio della loro carriera letteraria si sono confrontati con il mondo narrativo dell’ingombrante maestro, Frank Belknap Long, Robert Bloch, Fritz Leiber, Henry Kuttner, Brian Lumley, Ramsey Campbell, ecc., tutti questi autori sono stati pienamente convincenti ed efficaci nelle loro opere solo quando si sono definitivamente liberati dall’imprinting del loro modello di riferimento e dagli scenari tipici del suo immaginario, che nelle loro imitazioni o rivisitazioni risultava del tutto posticcio e inautentico, per trovare la loro vera voce spesso lontana anni luce da quella dell’ispiratore e tanto meno hanno meritato il nome di autore quanto più sono stati incapaci di farlo (il caso di August Derleth è forse il più emblematico).
Dobbiamo quindi cercare i veri eredi di Lovecraft molto lontano dai territori frequentati dal maestro e individuare il rapporto di continuità in un’aderenza allo spirito e non alla lettera lovecraftiana. E’ appunto nella weltanschauung filosofica più che nell’ispirazione letteraria che i tre nomi che faremo possono definirsi continuatori dell’ineffabile visionario di Providence.
Il primo nome è quello del francese Michel Houellebecq, pseudonimo di Michel Thomas (Réunion, 1956), scrittore che esordisce nel 1991 proprio con un saggio su H.P. Lovecraft – “Contro il mondo, contro la vita”, come abbiamo già detto – e prosegue la sua carriera letteraria con le poesie della raccolta “La ricerca della felicità” (1992) e i romanzi “Estensione del dominio della lotta”(1994), “Le particelle elementari” (1998), “Piattaforma al centro del mondo” (2001), “La possibilità di un’isola” (2005), “La carta e il territorio” (2010). Il riferimento a Lovecraft in questo autore è dato dal radicalismo della sua critica alla società contemporanea (o più probabilmente alla società in generale, in nome di una tormentata ed assoluta misantropia esistenziale e quasi ontologica).
Una visione del mondo come “sofferenza dispiegata” che si esplica ad esempio nella sua concezione della poesia come grido di dolore e nel suo disprezzo per il liberalismo politico e sessuale (questo passo da “Estensione del dominio della lotta”, il suo primo romanzo, va inciso a lettere di fuoco: “In una situazione economica perfettamente liberale, c’è chi accumula fortune considerevoli; altri marciscono nella disoccupazione e nella miseria. In una situazione sessuale perfettamente liberale, c’è chi ha una vita erotica varia ed eccitante; altri sono ridotti alla masturbazione e alla solitudine. Il liberalismo economico è l’estensione del dominio della lotta, la sua estensione a tutte le età della vita e a tutte le classi della società. Altrettanto, il liberalismo sessuale è l’estensione del dominio della lotta, la sua estensione a tutte le età della vita e a tutte le classi della società. Taluni vincono su entrambi i fronti; altri perdono su entrambi i fronti. Le imprese si disputano alcuni giovani laureati; le femmine si disputano alcuni giovani maschi; i maschi si disputano alcune giovani femmine; lo scompiglio e la confusione sono considerevoli”). L’impassibile contemplazione delle sfacelo dei rapporti umani e delle relazioni sociali e sessuali domina le sue opere in prosa e in poesia; ma al di sopra dell’implicita condanna emerge una rassegnata lucidità, l’amara consapevolezza che non esiste consolazione:
“Non trascurate nulla di ciò che vi può procurare un briciolo di equilibrio. A ogni modo, la felicità non è per voi: ciò è deciso, e da un pezzo. Ma se potete afferrare un suo simulacro, fatelo. Senza esitare. A ogni modo, non durerà.”; “Se non frequentate donne (per timidezza, bruttezza o qualche altra ragione), leggete delle riviste femminili. Proverete sofferenze quasi equivalenti”; “Non abbiate paura della felicità; non esiste”; “Un grosso cane masticava il corpo di un piccione bianco. Più lontano, nel vicolo, una vecchia barbona tutta raggomitolata riceveva senza fiatare lo sputo dei bambini.”; “Mi rivolgo a tutti coloro che non sono mai stati amati, che non hanno mai saputo piacere; mi rivolgo agli assenti del sesso liberato, del piacere ordinario. Non temete nulla, amici, la vostra perdita è minima: l’amore non esiste da nessuna parte. E’ solo un gioco crudele di cui siete vittime; un gioco da specialisti”; “Fino al giorno della nostra morte, sarà così ?”; “La possibilità di vivere comincia nello sguardo dell’altro”.
E così via, di pugnalata in pugnalata: i precedenti sono ritagli scelti qua e là fra le sue poesie di esordio. Nei romanzi questa consapevolezza è addirittura potenziata in scenari devastati che rimandano alla fantascienza per il ricorso ad aspetti scientifici, tecnologici e visionari (la clonazione per esempio in “Piattaforma” o la mutazione del genere umano nel prossimo futuro in “La possibilità di un’isola”) e sono rappresentati in un registro di realismo depressivo dove le scene di sesso esplicito (in certe parti al limite della pornografia) hanno un ampio spazio.
La freddezza, la desolazione, la critica senza remissione verso il mondo contemporaneo, trovano nell’ultima opera dello scrittore “La carta e il territorio”, forse i rimandi più ellitticamente lovecraftiani. Il protagonista è un artista visuale, divenuto suo malgrado miliardario: la sua fortuna e il suo talento non lo riparano dalla mancanza di significato e dal senso di vuoto connaturato alla vita moderna: ogni uomo sensibile è inevitabilmente condannato alla solitudine e all’infelicità a prescindere dal successo che questi possa ottenere nel suo lavoro o nella sua vita pubblica. Fra i personaggi minori della vicenda compare anche lo stesso Michel Houellebecq, scrittore famoso a cui il famoso pittore dedica un ritratto: con macabro masochismo il vero Huellebecq racconta dell’efferato omicidio del suo alter ego letterario: lo Houellebecq del romanzo viene assassinato e decapitato e il suo corpo, fatto a striscioline con un bisturi laser, è ritrovato in stato avanzato di decomposizione vari giorni dopo il crimine. La seconda parte del romanzo si trasforma in una sorta di giallo/noir sull’indagine che porterà alla soluzione (volutamente assai banale e deludente) del delitto: dopo aver minuziosamente descritto il proprio desolato funerale, Houellebecq restituisce il primo piano al pittore Jed Martin e ci racconta negli ultimi capitoli il suo crepuscolo umano e creativo. Sebbene non emerga apparentemente niente di fantastico nei romanzi di questo grande amoralista contemporaneo, egli è profondamente visionario e in quanto tale molto più realista del realismo: Lovecraft è stato introiettato, rielaborato e riattualizzato dallo scrittore francese, rivivendolo in altri contesti: stesso senso nihilistico, stessa consapevolezza dell’insussistenza dei destini umani, stessa radicale negazione del mondo contemporaneo e della risibile posizione dell’uomo occidentale in esso. Le cose accadono da sole, gli uomini appaiono e scompaiono, inutili, nella loro insaziabile mancanza di relazioni affettive, nel loro vuoto, nel loro gelo esistenziale: l’ultima frase del libro, significativamente, è forse la più lovecraftiana: “Il trionfo della vegetazione è totale”.
Proprio da una citazione di Lovecraft ripresa dal saggio di Houellebecq “Contro il mondo, contro la vita”, partiamo per identificare il secondo nome della nostra breve lista di “continuatori”: la frase è tratta da una lettera giovanile dello scrittore di Providence in cui egli rievoca la propria infanzia e chiude sentenziando: “L’età adulta è l’inferno”. L’opera di Michele Mari (Milano, 1955) sembra essere l’illustrazione puntuale del concetto espresso dalla lapidaria considerazione di Lovecraft (in cui ovviamente non ci sono implicazioni di tipo morale: l’inferno è inteso solo come assoluto dolore esistenziale): lo scenario creativo di Mari è centrato sulla rievocazione del mondo infantile – come categoria generale ma soprattutto come chiave della propria autobiografia mitica o reale – rivissuto attraverso i feticci dell’immaginario, i luoghi geometrici dell’incantamento infantile, ma da questi ambigui vagheggiamenti emerge un sospetto inquietante che ci porta oltre l’opinione di Lovecraft stesso: forse neanche l’infanzia è esente dall’inferno (cioè dal culmine del dolore).
Nella prima antologia di racconti, uscita nel 1993, “Euridice aveva un cane”, Mari procede per ossessioni e teorizza l’ossessione come fonte di ispirazione letteraria: la partita di pallone (lo splendido racconto “I palloni del Signor Kurz”), le domeniche al cinema (“Cinema”), il rimpianto postumo nel ricordo come vita non vissuta (“Euridice aveva un cane”), diventano punti di orientamento (o di disorientamento) sulle mappe di un territorio vago e angoscioso: il regno irrimediabilmente perduto, il fantasma polimorfo dell’infanzia, paradiso e inferno, prodromo e matrice di ogni futuro destino. Nella seconda raccolta di racconti “Tu, sanguinosa infanzia” (1997) il tema diviene, fin nel titolo, ancora più esplicito: emergono i talismani, gli oggetti sacri che accompagnano e segnano il breve percorso di un’infanzia: i giornalini; le copertine di Urania (l’immensamente amato Karel Thole, iconologo sublime della generazione dei ’60 e dei ’70 !…); i giardinetti; gli scrittori dell’avventura (Verne, Defoe, London, Poe, Salgari, Conrad, Stevenson, Melville); i puzzle; le canzoni degli alpini; ecc. Mari sa estrarre da spunti impensabili testi narrativi affascinanti, commoventi o più spesso inquietanti.
Nella terza e al momento ultima raccolta di racconti “Fantasmagonia” (2012) si impone ancor più marcato un registro gotico da ghost story (seppur assolutamente sui generis), ma il gotico e la ghost story hanno da sempre caratterizzato i romanzi di Michele Mari, dal geniale apocrifo leopardiano “Io venia pien d’angoscia a rimirarti” (1990) in cui si immagina un Giacomo Leopardi lupo mannaro (ecco spiegato il rapporto conflittuale del grande recanatese con la luna), scritto usando la lingua dello Zibaldone (e come se fosse il diario di Orazio, testimone delle stranezze del fratello maggiore Giacomo) in cui trionfa nello splendido finale il potere esorcistico della poesia e dell’arte, unica possibilità concreta di tenere a bada il male; il feuillettonesco “Tutto il ferro della Torre Eiffel” (2002) in cui tutta la cultura del ‘900 viene distillata: protagonista Walter Benjamin, comprimario l’intero panorama letterario e l’intellighentia novecentesca: Céline e Denoel, Marlene Dietrich e il cinema espressionista, Borges e Alma Malher, Gurdjieff e Guènon, Lindbergh e Saint-Exupery, il tutto fra cunicoli, botole e passaggi segreti, intrighi e agnizioni; il perturbante “Verderame” (2007) in cui gli ingredienti che lo scrittore sapientemente miscela sono: ovviamente un mistero; un paese del Varesotto; un bambino precoce e stevensoniano; un giardiniere simpaticamente mostruoso e fuori di testa; scheletri murati in uno sgabuzzino segreto e sepolti in giardino; tonnellate di schifose lumache fuori misura appartenenti ad una strana nuova razza; gli sceneggiati televisivi degli anni ’60; un’ipotesi di doppelgaenger; molto verderame splendente e velenoso; la memoria e la perdita della memoria; i riti di sanguinose infanzie; lo scioglimento apparente del mistero; un finale assai poco consolatorio; infine “Rosso Floyd” (2010), che realizza alla perfezione un’impresa assai ardua: trasformare una docu-fiction sul rapporto fra i Pink Floyd e il loro primo leader – il geniale e schizofrenico “crazy diamond” Syd Barrett – in una ghost-story: Michele Mari fa centro attingendo alle radici magiche, mitiche e mitologiche della musica rock. Ma al di là di queste affinità tutto sommato superficiali, il collegamento più stretto con Lovecraft è dato dalla seguente considerazione che l’autore inserisce all’inizio dell’introduzione alla sua raccolta di saggi letterari “I demoni e la pasta sfoglia” (2004 e 2010): “(…) Molti dei nostri scrittori prediletti sono degli ossessi. Ossessione è da assedio, ma il suo nome scientifico, anancasma, è da destino, ananke. Scrittori al servizio della propria nevrosi, pronti ad assecondarla e a celebrarla: scrittori che hanno nell’ossessione non solo il tema principale (e insieme il metodo con cui anche la più semplice esperienza è assottigliata in pasta sfoglia verbale), ma l’ispirazione stessa, sì che nessuna interpretazione mi pare fuorviante come quella che ne riconduce l’opera a un intento salvifico, quasi la scrittura sia solo un surrogato della pratica psicoanalitica. Al contrario, è proprio scrivendo che essi finiscono di consegnarsi inermi agli artigli dei demoni che li signoreggiano, finché, posseduti, essi diventano quegli stessi demoni”.
Sortilegio questo che vale sia per Lovecraft che per tutti gli altri scrittori che abbiamo nominato e, venendo all’ultimo nome della nostra breve lista, vale ancora di più per Thomas Ligotti (Detroit,1953) autore poco noto nella sua stessa patria, gli Usa, al di fuori di una ristretta cerchia di cultori del weird e dell’horror. Personaggio molto particolare e scrittore sicuramente ostico, sia per la prosa – estremamente raffinata ed elaborata, quasi barocca – sia per i contenuti – un horror filosofico ed esistenziale, profondamente disturbante e onirico, lontano anni luce dal gotico pedestre alla Stephen King caro al mercato letterario statunitense – sia per la struttura delle sue opere – racconti con trame appena accennate, personaggi poco delineati, atmosfere più vicine al saggio o al poema in prosa che alla narrativa propriamente detta. Poco giova alla sua popolarità e al suo potenziale commerciale anche il fatto di non aver mai scritto romanzi ma solo, caparbiamente, testi brevi. Afflitto da gravi problemi psicologici: depressione cronica, crisi di panico, ansia compulsiva, misantropia patologica, Ligotti è a tutti gli effetti un “ossesso” e le sue nevrosi e la sua visione disperatamente tragica della condizione umana trovano nell’horror una naturale valvola di sfogo: ne sgorga un’inquietudine autentica e profonda, una serie di visioni sinceramente abissali. Per Ligotti il “sovrannaturale” non è che la lucida contemplazione del non senso dell’esistenza umana, del caos devastante che guida i percorsi inutili dei manichini viventi detti uomini (immagine, quella del manichino, del clown, della maschera, che torna ossessivamente nei suoi testi).
I nomi dei numi tutelari più vicini alla sua opera sono ovviamente quelli di Poe e di Lovecraft, ma Ligotti – che comunque tralascia del tutto la dimensione poesca del terrore psicologico in nome del terrore ontologico lovecraftiano ma senza quasi mai ricorrere al disgusto brulicante delle aberrazioni teratologiche o tanatologiche del visionario di Providence – ha un’originalità e un sapore peculiare che sfugge ad ogni accostamento (egli stesso cita fra i suoi maestri J.L. Borges, William Burroughs, Nabokov, Cioran, Kafka, Bruno Schulz, Dino Buzzati).
Tradotto in italiano solo in qualche antologia collettanea con singoli racconti sparsi e in una sola raccolta a suo nome “I canti di un sognatore morto” , Elara Bologna 2010, (che non corrisponde però all’omonima raccolta originale inglese), resta di difficile reperimento – almeno per i suoi volumi meno recenti – anche sul mercato anglosassone. Le sue opere narrative sono: “Songs of a Dead Dreamer” (1990) l’antologia che lo ha rivelato; “Grimscribe: His Lives and Works” (1991); “Noctuary” (1994); “The Nightmare Factory” (1996) accorpamento parziale in un solo omnibus dei tre volumi precedenti (esistono anche, sotto lo stesso titolo, due selezioni di racconti trasposte a fumetti dai maggiori artisti del settore); “The Agonizing Resurrection of Victor Frankenstein and Other Gothic Tales” (1994), rilettura “paranoico-critica” dei personaggi classici dell’horror, Frankenstein, Dracula, ecc.; “My work is not yet done” (2002), novella lunga o romanzo breve che sconvolge tutti i luoghi comuni sui serial-killer; “Teatro Grottesco” (2006) silloge dei suoi racconti più recenti e unica più facilmente reperibile nella ristampa del 2008. A queste – escludendo testi minori e meno significativi – si aggiungono la raccolta di poesie “Death Poems” (2004 e 2013), libro in cui l’ossessione della morte (ma la morte in senso puramente concettuale – la morte come limite, fine della vita e totale annullamento – senza i compiacimenti macabri o i dettagli putrefattivi che avrebbero intrigato Lovecraft) riempie depressivamente le pagine: la vita si riduce a semplice attesa della morte; il suicidio è l’unica possibile interruzione dell’attesa. Smentendo il famoso detto di Epicuro (la morte non mi riguarda: se ci sono io non c’è lei e quando ci sarà lei non ci sarò più io), Ligotti dimostra nelle sue poesie che la morte, l’onnipresente pensiero della morte, svuota di senso e di gusto la vita.
(Solo un esempio:
Night Voices
Why should you have to live ?
We don’t.
Why should you have to suffer ?
We don’t.
Why shouldn’t you have to die ?
We did.)
Infine la raccolta di saggi filosofici (un pessimismo cosmico affine a quello di Leopardi, autore che Ligotti – italo-americano di origini siciliane – conosce molto bene) “The Cospiracy against the Human Race”, in cui ci viene suggerito che gli orrori più terribili non sono prodotti della nostra immaginazione ma vanno invece ricercati nella realtà, nell’orrore stesso della condizione umana: chi non può sopportare queste verità le considererà un’altra opera di fiction perpetuando così la cospirazione contro la razza umana cui si allude nel titolo. Interessante anche la collaborazione fra Ligotti e David Tibet, il leader della band rock britannica Current 93: mai sodalizio letterario-musicale fu più azzeccato, sulle corde dell’angoscia e della melanconia saturnina. Questa fruttuosa collaborazione procede da All the Pretty Little Horses, album del 1996 concluso da una ghost track nella quale lo stesso scrittore americano declama, attraverso il telefono, una poesia dal proprio racconto Les Fleurs; a In a Foreign Town, in a Foreign Land, del 1997, un libro con CD allegato (o viceversa, secondo i punti di vista) in cui quattro racconti si accompagnano ad altrettante tracce musicali appositamente realizzate dai Current 93; fino ai più recenti I Have a Special Plan For This World (2000) e This Degenerate Little Town (2001), dove il folk apocalittico del gruppo britannico si fonde ai versi di Ligotti.
Sia Ligotti che Mari e Houellebecq sembrano, nel loro ellittico richiamarsi al mondo concettuale del visionario di Providence, tenere puntualmente presente in tutta la loro opera una famosa frase estrapolata da un racconto di Lovecraft – “The Shunned House” (1924) – divenuta a posteriori una sorta di motto o di apoftegma: “E’ raro che l’ironia sia assente anche dagli orrori più grandi”. Un’ ironia, quella di Lovecraft, che è lo sviluppo paradossale o parodistico dell’ironia intesa nel senso romantico, come consapevolezza della finzione delle cose che circondano l’uomo e che egli stesso crea, lo sguardo che rivela le contraddizioni della realtà, consente di intuire quella compresenza di opposti di cui essa è costituita e attraverso la quale egli prende coscienza della sua stessa limitatezza, della sproporzione abissale fra sé e mondo, fra io e non-io; e dell’ironia in senso tragico, come presagio della catastrofe, contenuto nelle parole, dette senza intenzione, di un personaggio. La profonda consapevolezza di questo tipo paradossale e parodistico di ironia è forse il lascito più importante che Howard Phillips Lovecraft abbia consegnato – quasi senza darsene a vedere – alle generazioni di scrittori che lo hanno seguito e che lo seguiranno.