di Fabrizio Lorusso
[Questo reportage narrativo si basa sugli appunti, le riflessioni e le esperienze legate ad alcuni incontri del 2011 e 2012 con la francese Florence Cassez, in prigione dal dicembre 2005 nel penitenziario femminile di Tepepan a Città del Messico e condannata a 60 anni per rapimento. Dopo anni di conflitti diplomatici tra Messico e Francia, nonostante la polarizzazione estrema dell’opinione pubblica e le strumentalizzazioni politiche del caso, Florence è stata liberata nel gennaio 2013 perché il processo, secondo la Corte Suprema messicana, era stato viziato da gravi violazioni e incoerenze, oltre che da un montaggio televisivo orchestrato dalle autorità al momento dell’arresto, F.L.].
Rompere il muro del silenzio, dal mattino. Porto abiti speciali: pantaloni marroni di tela, rigorosamente senza cintura, scarpe verdi innocenti, camicia sobria e giacca antivento, antisilenzio. Zero vivacità cromatica. Direzione Sud, Mexico City Sur, zona dominata dalle classi medie metropolitane. Le gincane e l’aria mattutina mi distraggono. Parcheggio la moto, più splendente se la lascio affianco al mio palo della luce preferito, quello sbilenco, sempre pendente. Nella città mostro più grande del mondo sono un sopravvissuto del traffico, sento che la libertà sono quest’aria e la strada, preziose anche se inquinate. Per ordini superiori, per la forza dello stato, applico la norma, svuoto le tasche e il cervello. Lo sciacquo con una meditazione forzata e repentina. Tutti gli averi, il cellulare, le chiavi, i ciondoli, gli eccedenti e gli eccessi, il buon umore e le idee, tutto quanto insomma, l’ho lasciato in custodia al padrone della trattoria di fronte, buon uomo.
“A chi fai visita da queste parti, muchacho?”, mi chiede. Uomo curioso. “A una che, pare, è proprio ben voluta da queste parti perché non la lasciano andare via, sono sette anni ormai”, rispondo. Intanto bevo avidamente il succo d’arancia che, da sempre, è puntuale. Cinque minuti prima delle dieci e sono pronto. Esco dall’ultimo minuto di tranquillità, attraverso la strada, abbandono speranze e asprezze, come il vate sulla soglia degli inferi. L’avvicinamento induce fantasie: gabbie di caramello in fusione e gendarmi di carta igienica, crollando su se stessi. Riciclati ad altri usi, più igienici, appunto.
L’ora esatta. Aprono la porta ed è giorno, s’alza il sole messicano e stridono le sbarre delle celle. Accedo all’area federale, circondato da gente davvero molto federale. E’ uno dei tristi depositi delle e dei dimenticati del paese. Sono quasi un quarto di milione, gli oblii stipati, cioè le persone respinte dalla società per “essersi comportate male”, forse.
Favorisco il mio permesso di soggiorno e l’agente uniformato ripone la mia identità in un cassetto di legno marcio. La imprigiona nella polvere, in pasto alle termiti. Gli andrà di traverso la marca da bollo plastificata, ne sono sicuro, e sorrido. Quindi sono un altro per un po’, come sono un altro al lavoro, per la strada, in famiglia o all’università. La danza dei soggetti sperduti. Abbiamo passaporti e tesserini, tanti “Io” viaggianti nella vita. A volte tentiamo di riconciliarli per farli convivere e, quando non si sopportano proprio, ci sono terapie e terapeuti che promettono miracoli per aiutarci, dicono.
Comunque qui io sono “la visita”. Gli abitanti del posto, anzi le abitanti del posto, sono invece delle liste di numeri ordinali e hanno colori diversi: le beige attendono un giudizio, le blu scontano una pena. D e f i n i t i v a m e n t e. Oggi partecipo anch’io del cosiddetto “reinserimento sociale”, fuori dalla società, in un’enclave asociale.
“Chi viene a trovare? Florence per caso?”, chiede uno sbirro. La parola Florence mi rimette in libertà, istantaneamente, mi rimanda alla città di Lorenzo de Medici o ai gigli, alla flora e ai sensi. Non alla prigione. Non glielo confesso, sto zitto. La mia voce risponde: “Sì”, e filtrano sguardi solenni. Se hai la faccia da güero, da straniero, sanno già da chi vai. Nel CeReSo femminile, il Centro de Readaptación Social del quartiere Tepepan, sono abituati al viavai di forestieri e giornalisti, c’est normal. “Cassez”, risposta esatta. “Adelante”.
Giustizia o vendetta? La stampa fa solo casini. “Se c’è un delitto, ci sarà un castigo per qualcuno, la verità in fondo non conta”, sostengono alcuni. Contano di più le cifre, le prove e i video, anche se fasulli, dei successi nella lotta alla criminalità. Ci vuole un’espressione convincente, la facciata restaurata del “buon governo” che sparla al mondo. “Lavoriamo per te e la tua famiglia, sicurezza stellare e legalità, lo stato di diritto, diritto fino a casa tua”, ripete il disco.
E così succede che un interesse nazionale fabbricato dai media e dalla politica va a scontrarsi furiosamente con un altro interesse nazionale, altrettanto fittizio come lo è il concetto stesso di nazione. La Francia vuole prendersi la rivincita della sconfitta nella Battaglia di Puebla, quando il Generale Ignacio Zaragoza, fedelissimo del presidente Benito Juárez, vinse contro l’armata imperiale inviata da Napoleone III. Il Messico decide che è ora di vendicare l’affronto di Massimiliano d’Asburgo, effimero incoronato dell’impero francese in Messico tra il 1864 e il 1867, mandato da Trieste a morire fucilato in terra azteca.
Di ritorno nel nostro secolo, la riedizione sciovinista del teatrino è opera di Sarkozy e Calderón. I grandi capi tribù, rumorosi e populisti. E nel mezzo ci sono le persone, le vittime, la presunta innocente trasformata in colpevole e, infine, la verità violentata. Ci sono i montaggi televisivi di un ministro, l’impavido Genaro García Luna, che formalmente dirige il dicastero della pubblica sicurezza, ma s’occupa soprattutto della propaganda. Le nazioni, comunità immaginate della modernità, sono più bestiali, più beceramente fiere, se vivono solamente del loro nazionalismo.
Lei m’aspetta, sta ridendo di gusto con una signora del rione popolare di Tepito, noto anche come “Barrio Bravo” o quartiere selvaggio, indomabile quadrilatero dalla mala fama nel centro della capitale. Una scheggia impazzita del Messico profondo. La donna veste di blu, come Florence, ma lei non è condannata per sequestro di persona. E’ dentro per un omicidio che giura di non aver commesso. “Ho difeso mio figlio, sono andata alla Commissione per i Diritti Umani per denunciare i poliziotti che l’avevano torturato dopo il suo primo arresto e come ritorsione sono venuti a prendere me, e poi anche lui”, confessa. “Molti disprezzano Tepito, senza sapere che ormai i gringos, gli americani, considerano tutto il Messico come il ‘Tepito del mondo’ e si prendono gioco di noi”, conclude la Doña. Mi chiede di portare una lettera ad alcuni amici del quartiere e la scriviamo insieme. “Mi sento sola, mandatemi qualche visita, fatemi sapere di mio figlio, grazie”, conclude la missiva.
Ci spostiamo dal corridoio all’ampia sala riservata alle visite dei parenti e degli amici. I bagni sono in fondo, i tavoli di plastica nel centro, e c’è un negozietto coi beni di prima necessità in un angolo del salone. “Ciao, come va?”. “Bene, más o menos”. Saluto, bacio sulla guancia, uno solo, non tre come in Francia. Se non rinunci al tuo sorriso, da qui puoi uscirne vincitore. Se non perdi il decoro, non ti perdi. Gli anni passano, la speranza no. Alcuni insegnamenti. La depressione è la Nemica, eterna compagna indesiderata. Nelle gabbie amare di metallo, in carcere, anche la Solitudine è onnipresente, nonostante ci sia sempre qualcuno intorno a te. Cento guardie su di te.
Cos’è la presunzione? E quella d’innocenza? Un principio astratto, uno scherzo legale o una semplice dicitura inserita per caso nella Costituzione? Dovrebbe essere un pilastro del cosiddetto “stato di diritto” in democrazia. Perché più di quattro detenuti su dieci sono vestiti di beige e rimangono in cattività anche per alcuni anni? Giustizia lenta, ma soprattutto svogliata, inerte. Risorse scarse e indifferenza, come fosse giusto, come fosse funzionale.
Eccoli lì, sono i presunti colpevoli, la negazione vivente e abusata del principio d’innocenza, e vivono la prigionia nell’attesa del giudizio finale. Se sono accusati di crimini gravi, non possono difendersi in libertà, di là dal muro, ma restano nella zona del silenzio. Non sono più presunti innocenti, ma dei “pericoli”. Ma cos’è un delitto grave? Spesso dipende dal giudice e da chi è l’accusato. Interpretazioni, denari, oblazioni, reverenze e manipolazioni fanno assai la differenza. Bisogna proteggere la società, si dice. Quella società che loro, presumibilmente (?), hanno offeso. Discutibile, ma giusto, secondo i più. La pubblica opinione.
Se esistesse in Messico un accettabile fair play giudiziario e investigativo, un arbitro vero e legittimo che sanzionasse gli ideatori della “fabbrica dei colpevoli” nazionale e i corrotti d’ogni casta e livello, allora il ragionamento funzionerebbe, sarebbe fluido, quasi giusto. Ma non è così. Gli studenti e i professori della facoltà di giurisprudenza dell’ateneo più grande del mondo, la Universidad Nacional Autónoma de México, hanno del sarcasmo da vendere. E, infatti, dicono che in Messico un bicchier d’acqua e un ordine di carcerazione non si negano mai a nessuno.
Ci sediamo. Caffè solubile, acqua in bottiglia, una tovaglietta. Io ho portato i biscotti. Parliamo. Ore di dubbi, per conoscere, per capire che cos’è successo, cosa dice la gente e com’è l’esistenza in quello spazio di sospensione. Mancano ancora 53 anni, una vita, sepolta. Ma c’è una speranza, i riflettori sono accesi. “E’ una famosa, ha degli appoggi nelle più alte sfere”, si vocifera. Ronzii, fischi nelle orecchie, è la politica, la strumentalizzazione, i mezzi di comunicazione, e in fondo nell’epicentro del rumore si è più soli che mai, laggiù nella stanza, nella cella.
Viviamo il Messico, non solo in Messico, e fa male sapere e spiegare che non c’è pace. Impunità e delitto son due lati della stessa medaglia, la guerra comincia dalla marea delle ingiustizie quotidiane. Per chi le subisce, non c’è voce possibile, né per i colpevoli né per gli innocenti, e così il confine tra di loro sfuma, digrada nei gangli perversi del sistema. Il funzionario non funziona e non ha mai funzionato. L’assedio del mutismo, il muro del silenzio, sta nella mente, non è cemento ma idea. Tutti siamo prigionieri della nostra storia o di noi stessi, delle nostre abitudini e credenze, di stereotipi e pregiudizi. Alla fine tutti siamo prigionieri politici delle nostre teste e presunti colpevoli di qualcosa. Basta saperlo e provare a disfarsi della gabbia.
Mi devo fare da parte. La mañana è diventata tarde, sono le 12 e qualche minuto, c’è un’altra “visita” dopo di me. Un abbraccio amichevole, un au revoir, e un pensiero a chi di visite ormai non ne ha più, a chi non ha voce per superare il muro e ha perso ogni speranza.