di Matteo Di Giulio
“Il lavoro non è un diritto”
Elsa Fornero
Quando ero bambino, ripetevo spesso la frase: «e io gli faccio causa». I miei genitori ridevano di fronte a quella sparata. Avevo otto o nove anni. Mio padre, convinto che tanto ardore nascondesse delle velleità, mi avrebbe convinto a iscrivermi, una decina di anni più tardi, alla facoltà di laurea in giurisprudenza.
Una carriera destinata al fallimento per una generazione destinata al tracollo.
Sono figlio di un impiegato statale. Trentotto anni sotto lo stesso datore di lavoro. Quarantatré di contributi. Da sommare agli anni del servizio militare.
Lette oggi, sono cifre impossibili. Da sommare a esperienze obsolete, come la naja.
Ho iniziato a lavorare regolarmente a ventitré anni. Prima: impieghi saltuari, incarichi in nero, collaborazioni non retribuite. Raggiungerò i contributi di mio padre all’età di sessantasei anni. Anzi, no. Non ci arriverò mai. Perché nel frattempo ho conosciuto il precariato, il part time verticale, gli straordinari non retribuiti, il co.co.co e il co.co.pro, i corsi FormaTemp, la partita IVA, gli stage culturali, i pagamenti in ritenuta d’acconto; e soprattutto lunghi periodi di disoccupazione.
Non ho nemmeno il militare o una laurea da riscattare. Né, li avessi, potrei permettermelo, perché oggi mi costerebbero troppo.
Quando – se? – andrò in pensione, non avrò una liquidazione: mi è servita per sopravvivere quando non avevo un lavoro. Né una rendita o un capitale per invecchiare serenamente.
Però, rispetto alla generazione che mi ha preceduto, posso vantare un record. In quindici anni della mia storia lavorativa, ho fatto causa già sei volte ai miei datori di lavoro, tenendo fede a quei presagi che manifestavo, inconsciamente, sin da bambino.
«Non va bene fare causa al tuo datore di lavoro», mi ha ripetuto diverse volte mio padre. Anche dopo che quelle cause le ho vinte. Tutte. Nemmeno le sentenze nero su bianco gli avrebbero fatto cambiare idea.
«Sarà il mio datore di lavoro», gli ho risposto, «ma sta calpestando i miei diritti. Devo rimanere zitto?»
Mio padre, di fronte ad affermazioni così piene di livore, si limita di solito a scuotere la testa. Mi fa sentire di nuovo bambino. Per lui le mie asserzioni non sono diverse da quelle che esclamavo, impettito, a otto anni. Oggi non ride più. Almeno quello l’ho ottenuto.
«E tu fai causa, allora», mi ripete sempre per chiudere la discussione prima che ci mettiamo a litigare, «però non va bene, non è una cosa giusta.»
Io rifletto sulle sue parole e mi rendo conto che sta cercando di trasmettermi un messaggio. Ai suoi tempi era sbagliato intentare una vertenza, mi domando, perché tanti di quei datori di lavoro, a modo loro, avevano una considerazione differente, forse addirittura migliore, dei propri dipendenti?
«Come siamo arrivati a questa frattura?», ho chiesto al primo avvocato che ha curato il mio ricorso contro una multinazionale informatica che, dopo due contratti da 18 mesi l’uno, mesi in cui i miei responsabili hanno sempre elogiato la qualità del mio apporto alla mission aziendale, nel 2006 decide di darmi il benservito e di chiudere unilateralmente il nostro rapporto professionale.
La legge sancisce che non potrebbero farlo, che al secondo rinnovo il contratto a tempo determinato deve essere trasformato in tempo indeterminato: ma loro lo fanno lo stesso. E senza vergognarsene. Senza dare spiegazioni. Oggi quella legge è cambiata e io non posso che ripensare a una canzone di De André: “una volta un giudice come me / giudicò chi gli aveva dettato la legge: / prima cambiarono il giudice / e subito dopo / la legge“.
L’album è “Storia di un impiegato”, la canzone parla di sogni. Ma noi siamo una generazione a pezzi, che sta perdendo i propri sogni per strada.
L’avvocato ha assaporato la mia domanda e mi ha fissato sorpreso: «Il problema è che la maggior parte dei lavoratori è disinformata. Non conosce i propri diritti. Non sa che può impugnare un licenziamento ingiusto. Che se agisce attraverso i sindacati il più delle volte può farlo gratuitamente e senza rischi».
Io non ci ho pensato su troppo. Avevo ventisei anni.
Lui mi ha sorriso e mi ha offerto la mano. Mi ci sono aggrappato, a quella stretta.
«E io gli faccio causa», gli ho risposto.