di Walter Catalano
A differenza di gran parte dei suoi discepoli, emuli e continuatori, l’orrore di H.P. Lovecraft convince: i suoi mostri non sono spauracchi di cartapesta ma entità aliene credibili; i suoi personaggi – anche i più stereotipati e convenzionali – hanno a loro carico tutta l’autenticità dell’ossessione; le sue città maledette, case infestate, brughiere selvagge posseggono intero lo spessore soffocante dell’incubo. Lovecraft non bara mai, ha rispetto del suo lettore, anche di un lettore presumibilmente poco sofisticato quale quello di un pulp come Weird Tales (arena quasi unica della sua carriera letteraria in vita). Questo innocuo e bonario signore di Providence non tira a indovinare quando scrive, non cerca facili effetti o brividi d’accatto: dietro di lui c’è un’estetica e una weltanschauung coerente e degna di un paradossale filosofo: Lovecraft merita l’appellativo di classico – sicuramente nel suo microterritorio weird–fantastico e probabilmente in assoluto nell’area immensamente più ampia della letteratura contemporanea. Lovecraft ha saputo immettere all’interno delle convenzioni di un genere paraletterario le angosce e le metafore inquietanti della grande narrativa novecentesca.
Condivide con Artaud e Bataille il materialismo assoluto e l’inversione sistematica del positivo e del negativo; con Beckett il disgusto non per la morte ma per il nonsenso dell’essere fenomenico e per le metamorfosi degenerative del corpo e della psiche (anche i suoi protagonisti al finale raramente muoiono: perdono piuttosto la ragione o l’identità e si trasformano in ciò che più li terrorizza). Lovecraft occhieggia inconsapevole allo spirito delle avanguardie e condivide con esse – portandola all’estremo parossismo – l’estetica del “sublime immondo” e la metafisica dell’”orrida estasi”. Nei suoi testi predomina la percezione di un meraviglioso “rovesciato” in cui la morte è vita, la repulsione diviene seducente e – come ben scrive Giuseppe Lippi – “orge sataniche, demoni che volano sui venti della notte e tombe scoperchiate sostituiscono i tappeti volanti e le anfore col genio”. Anche il suo universo creativo gravita intorno all’intuizione e all’enunciazione di un sublime immondo, di un’orrida estasi in cui la massima vertigine del terrore e della morte produce le convulsioni orgasmiche di un dissolvimento liberatorio, di un’apoteosi infera in cui tutti i termini di riferimento ordinari vengono irrisi e annullati. Come dichiara Giorgio Manganelli nel suo saggio La città blasfema tratto da La letteratura come menzogna : “Nel suo universo, solo il negativo può generare miracoli”. Una posizione filosofica, come ho detto, niente affatto lontana da quella degli esponenti più radicali delle avanguardie storiche novecentesche: Antonin Artaud (Ad esempio: “Voi siete caso, nulla, merda che si vuole legge e teme soprattutto il disordine, il caso, la merda e il nulla, cioè siete borghesia”) e, forse ancora di più, il Georges Bataille de L’esperienza interiore o de La pratica della gioia di fronte alla morte (Ad esempio: “La gioia di fronte alla morte mi trascina. La gioia di fronte alla morte mi precipita. La gioia di fronte alla morte mi annienta. Io resto in questo annientamento e, a partire da qui, mi rappresento la natura come un gioco di forze che si esprime in un’agonia moltiplicata e senza fine” : tutta l’esperienza di Acéphale, la società segreta composta alla fine degli anni ‘30 da Bataille, Leiris, Caillois, Klossowski, resta molto vicina all’estetica del sublime immondo e alla metafisica dell’orrida estasi). Anche Lovecraft, come loro, è un materialista assoluto; le sue entità aliene, i suoi dei e demoni, sono del tutto corporei ed immortali non tanto – così scrivono Fruttero e Lucentini – “perché incorruttibili ma perché fatti di una materia così corrotta e degenerata, che ogni degenerazione ulteriore è impossibile”. Non c’è alcuna psicologia, non c’è alcun afflato spiritualista in lui: a suo modo Lovecraft è un realista estremo, un fenomenologo del caos(“L’eroe di un racconto fantastico non è mai una persona ma sempre un fenomeno o una condizione” scriverà in una lettera ad una collega scrittrice. Graham Harman, in un suo studio filosofico, userà Lovecraft per commentare Husserl: “Il terrore di Lovecraft non è un orrore noumenico, bensì un orrore della fenomenologia”).
Al centro del suo pantheon di aberrazioni (aberrazioni in senso etimologico: da aberrare, il deviare da una norma o da un principio, da una legge morale o fisica) – ammesso che tale pantheon possa avere un centro – sta Azatoth – “il dio cieco e idiota, amorfa abiezione, che bestemmia e gorgoglia al centro del caos” (per citare la descrizione barocca di HPL): il non senso stesso dell’essere, l’essenza magmatica e incosciente delle forze che agitano gli abissi cosmici. Poi c’è Shub-Niggurath – il nero capro dai mille cuccioli – che insieme a Yog-Sothoth – il guardiano della soglia – veicolo della ierogamia pervertita di The Dunwich Horror – rappresenta il brulichio e la fornicante proliferazione della vita organica o il ribollire insensato della materia nello spazio subatomico e infragalattico. Di fronte a questi insondabili abissi il dormiente Cthulhu non è che un dio minore – riflesso tentacolare dei deliri e degli incubi umani – e di fronte a lui il goffo Dagon (unico Antico a condividere il proprio nome con quello di una divinità filistea preesistente alla profezia lovecraftiana: è menzionato nella Bibbia, Giudici 16:23; Samuele 5:2-7; Cronache 10:10) è solo un emissario e un araldo del profondo. Non manca un degenerato Ermete Trismegisto, messaggero enigmatico dell’assoluto altrove: Nyarlathotep, il caos strisciante, – dal falso nome faraonico – talvolta descritto come pura energia oscura, talaltra come apocalittico avatar umano. Non c’è da stupirsi che queste entità aliene nonostante – come ha osservato con maligna e apotropaica arguzia lo scrittore e critico britannico di fantascienza Brian Aldiss nel suo saggio Billion Year Spree – “ricordino i nomi anagrammati delle marche di cereali che si mangiano a colazione”, ci terrorizzino al punto da indurre alcuni esponenti della lunatic fringe magico-esoterica – come Kenneth Grant e i fautori della Chaos-Magick (“Una nuova scuola occulta con stretti collegamenti con la controcultura post-punk. Come stile di magia rituale antidogmatica, la Chaos Magick mescola gli ultimi sviluppi scientifici della “teoria del caos” e le antiche tradizioni della stregoneria e dello sciamanismo[…] il praticante può invocare qualsiasi tradizione di dei, demoni, angeli o simboli – perfino quelli fittizi della narrativa – perché solo il significato personale, non una presunta esistenza letterale è vitale nel perseguimento degli obbiettivi magici di un individuo” – così la definisce Gavin Baddeley, nel suo libro Lucifer Rising: Sin, Devil Worship & Rock’n’Roll,) a considerarle reali e a tentare di evocarle attraverso perversi rituali e impensabili grimoire ricalcati sulla base dell’immaginario Necronomicon dell’arabo pazzo Abdul Alhazred (in realtà nome fiabesco inventato per gioco dal Lovecraft bambino), comportandosi pertanto – nella nostra presunta realtà – né più, né meno come gli incauti esploratori dell’incubo della finzione letteraria lovecraftiana. L’ateismo meccanicista di Lovecraft si nutre di metafore non meno blasfeme di quelle di Samuel Beckett (“Qualche volta viene una farfalla, ancora calda dei fiori, come è debole, e subito morta, le ali in croce, come in riposo, al sole, le scagliette grigie. Da sopprimere, si lasciano sopprimere le parole e i pazzi pensieri che inventano, la nostalgia di quel fango su cui soffiò lo spirito dell’Eterno e suo figlio scrisse, molto più tardi, con la punta del suo dito di fesso divino, ai piedi dell’adultera, da spazzar via, basta dire di non aver detto niente, è ancora non dire niente. Ma che cosa sono mai potuti diventare, in questo caso, i tessuti che io ero, non li vedo più, non li sento più, fluttuanti intorno a me, in me, mah, probabilmente sono ancora in giro da qualche parte, facendosi passare per me”. Da Testi per nulla, In Samuel Beckett Primo amore.Novelle.Testi per nulla) e la sua concezione dell’assurdo è non meno paradossale – l’assurdo come vuoto, come “senza” (un vuoto e un senza decisamente troppo abitati): il paradosso dell’arida e cupa ironia di Beckett; il paradosso del parossistico terrore di Lovecraft.
Non cito Beckett a caso: è sintomatico come il terzo e più radicale romanzo della trilogia beckettiana “L’innominabile” (che segue “Molloy” e “Malone muore”), condivida il titolo con uno dei più atipici racconti lovecraftiani. Se in Molloy vi era una vera e propria trama (quasi “poliziesca”) e in Malone muore persisteva un’ambientazione comunque riconoscibile e plausibile, con L’Innominabile ci spostiamo su un piano inafferrabile: l’io narrante è un essere in posizione seduta all’imboccatura di un breve corridoio inghiottito dalla penombra. I suoi occhi sono costantemente aperti (e da questi fluiscono lacrime quasi in continuazione). Non sa su cosa è seduto (sebbene ad un certo punto l’idea che si ricava è che sia seduto all’interno di una giara), ma sa di essere seduto per via della pressione che sente sulle natiche e sotto le piante dei piedi. Le mani sono appoggiate sulle ginocchia. In questa immobilità indisturbata l’essere pensa e racconta a se stesso delle storie. I protagonisti di queste storie si chiamano Basile, Mahood, Worm. Ma in realtà si tratta sempre dello stesso personaggio che cambia nome. E, a un certo punto, non è più possibile distinguere la personalità dei personaggi narrati dalla personalità dell’essere che li narra a se stesso. L’ultima frase del romanzo – “bisogna continuare, non posso continuare, e io continuo” – potrebbe ben attagliarsi a molti personaggi di Lovecraft, non ultimo il Randolph Carter protagonista di cinque racconti di diversa lunghezza, il secondo dei quali, del 1923, è appunto “L’Innominabile”.
Cimiteriale l’ambientazione, sorprendente la normalità con la quale si assume che un sepolcro sia luogo adatto per discutere amabilmente: “Era tardo pomeriggio, in un giorno d’autunno, ad Arkham. Sedevamo su una tomba in rovina del diciassettesimo secolo, nel vecchio cimitero, e speculavamo sull’innominabile”. Già nell’incipit il macabro offre una chiave per l’indicibile: una querelle tra Carter e un suo amico, Joe Manton. Sognatore, esploratore dell’insondabile il primo, convinto del fatto che esista l’«Innominabile» – quella categoria estetica e metafisica che abbiamo definito nei paragrafi precedenti come “sublime immondo” e “orrida estasi” – prosaico eppure superstizioso, ascritto nelle categorie che sono del cittadino medio, l’altro personaggio. Il racconto si regge su questo scontro di idee e prende spunto dalla rievocazione di una vicenda spaventosa avvenuta all’inizio del XVIII secolo, in piena età puritana, che ha per protagonisti un vecchio, un ubriacone e una creatura orrenda cresciuta di nascosto nella soffitta di una casa isolata, circondata dalla complice omertà di tutti coloro che in realtà sapevano e tacevano. Un’aberrazione che sembra nata dalla paura e dall’obbedienza imposta da una cultura ottusa che pretendeva di salvare l’uomo dal Male personificato, dal Demonio. Con queste premesse e in questo clima, provocare “l’Innominabile” equivale a evocarlo. L’evocazione non può che essere traumatica. I due amici riprendono possesso delle loro facoltà soltanto in ospedale. Sono confusi e storditi, ma hanno finalmente acquisito una nozione sull’ente evocato: “Era dappertutto, un fango, una gelatina … eppure aveva forma, mille forme orrende che non riesco a ricordare. Aveva occhi … e uno era coperto dalla cataratta. Era l’abisso, il maelstrom, l’estremo abominio. Carter, era l’innominabile”.
Due modi molto diversi ma analoghi – quello di Beckett e quello di Lovecraft – per proclamare il disagio e la ribellione alla condanna di avere una forma, un luogo, un nome, un destino; dell’essere un pezzo di materia e una coscienza individuata nel magma brulicante di “ciò che è”.
Non è casuale dunque che la visione del mondo così atrocemente nichilistica che accomuna HPL agli esponenti più ragguardevoli del pensiero negativo novecentesco non sia sfuggita ad intellettuali assai lontani dalla narrativa popolare e pulp che lo scrittore di Providence frequentava, come ben sintetizza uno di questi, lo scrittore francese Michel Houellebecq – che proprio con un saggio su Lovecraft iniziò la sua prorompente carriera letteraria – “Dai suoi viaggi nelle terre infide dell’indicibile, Lovecraft non ci porta buone notizie. Ci suggerisce che dietro il sipario della realtà potrebbe nascondersi, e talvolta lasciarsi intravedere, qualcosa. E che questo qualcosa è ripugnante e abietto”. “Contro il mondo, contro la vita” è il titolo del saggio lovecraftiano di Houellebecq: un titolo che bene coglie l’essenza della visione esistenziale di Lovecraft, il suo nichilismo radicale, il suo assoluto antiumanesimo.
E’ proprio questa sua autenticità assai poco consolatoria, questa coerente e decisamente estremistica visione del mondo – rivoluzionaria, sovversiva, radicalmente critica – che, ancorché metaforizzata, sottende a tutta la sua opera, rende questo scrittore unico nel suo genere e diverso da tutti i suoi compagni di strada: un autore a suo modo colto, sufficientemente complesso da scavalcare l’immaginario confine tra narrativa popolare e avanguardia, fra genere e mainstream.
Considerazione che vale in senso filosofico ancor più che letterario: sia detto ignorando completamente il noioso e ripetitivo sciocchezzaio ideologizzato – Lovecraft “fascista”, Lovecraft “razzista”, Lovecraft “antimoderno”, Lovecraft paladino della “tradizione” (oh, pardon, ho dimenticato la T maiuscola !) e via farneticando. Etichette, bandierine, attribuitegli – a torto o a ragione ma sempre e comunque in modo esageratamente forzato e superficiale – da qualche critico troppo di parte, sempre la stessa, una parte per altro sgradevole… Lovecraft assolutamente moderno invece, proprio perché critico della modernità, tanto da poter essere accostato ad autori che – in contesti spesso assai lontani dal suo – condividono un’opposizione virulenta contro il capitalismo e la società dei consumi: Lovecraft fascista ? E allora, perché no? Lovecraft fiancheggiatore della Scuola di Francoforte; Lovecraft situazionista; Lovecraft materialista dialettico (o forse non dialettico, poco importa, ma certo rabbiosamente avverso a tutti i fumosi “valori spirituali” dei pretesi “cavalieri del Graal”); Lovecraft precorritore dei beantik, hippie, yippie e punk; Lovecraft razzista ? E allora, perché no ? Lovecraft sessualmente ambiguo; Lovecraft gay e ambiguamente affascinato dai corpi bruni degli immigrati che trova ripugnanti perché affascinanti e affascinanti perché ripugnanti; per questo ne fa i protagonisti e gli oggetti del desiderio – desiderio nauseante – dei suoi racconti, gli ierofanti e i mistagoghi delle nere ierofanie del suo mondo in disfacimento.
Lovecraft che, con le streghe del Macbeth potrebbe cantare “Il Bello è brutto, il Brutto è Bello, tra nebbie e fumi, corri a rovello”. E la rovina lo attende e ci attende tutti: non contro un mondo e una vita (quella moderna in nome di un’altra. Quale ?) ma – come lucidamente ricorda Houellebecq – contro il mondo e contro la vita (qualsiasi mondo, qualsiasi vita); non il tramonto dell’Occidente quindi, ma il tramonto dell’Essere, il tramonto della Realtà; il ritorno al magma, al gorgo, al maelstrom primario che inghiottirà in un immane vortice ogni umana ragione e intenzione insieme a tutte le etichette, tutte le bandierine (e soprattutto ai poveretti che le utilizzano): “E su tutto, in questo ripugnante cimitero dell’universo, si udrà un sordo e pazzesco rullìo di tamburi, un sottile e monotono lamento di flauti blasfemi che giungono da stanze inconcepibili, senza luce, al di là dal Tempo; la detestabile cacofonia al cui ritmo danzano lenti, goffi e assurdi i giganteschi, tenebrosi ultimi dei. Le cieche, mute, stolide abominazioni la cui anima è Nyarlathotep”.