di Carlos Dámaso Martínez
[Un estratto da Un luogo perfetto, traduzione di Lorenza Di Lella e Loris Tassi, postfazione di María Cecilia Graña, Ed. Arcoiris, 2013, pp. 136, € 12]
{1} Passarono tra me e Julia e si andarono a sistemare in fondo all’autobus. Le due donne erano grassissime, di quella grassezza che fa sembrare la pelle più luminosa. La più alta respirava con difficoltà, la sua voce potente copriva completamente quella del signore canuto che le accompagnava. Guardai i posti ancora vuoti e pensai alle persone che li avrebbero occupati; probabilmente avrebbero avuto delle facce anonime e volgari, di quelle che uno, dopo, a stento ricorda di aver visto.
L’altoparlante annunciò l’orario di partenza e, dalla parte davanti, arrivò un frastuono di voci strozzate. Le porte si aprirono e si richiusero, e nel corridoio comparvero due uomini vestiti di grigio, con un paio di valigette nere molto consumate. Quando arrivarono all’altezza dei nostri posti, ci accorgemmo che avevano le facce madide di sudore. Poi, mentre sistemavano le loro cose nel portabagagli, notai che erano terribilmente impacciati. In quel momento il pullman partì, loro si andarono a sedere, e io mi misi a guardare fuori dal finestrino.
Quando ci lasciammo alle spalle le ultime strade della città, presi il giornale della sera e cominciai a sfogliarlo. La luce personale di lettura non era granché, ma con un po’ di sforzo si riusciva a leggere. In fondo, nella penombra, le due grassone ridevano a crepapelle, mi sembrò, o forse immaginai, che il signore canuto le facesse divertire raccontando barzellette. Dall’altra parte del corridoio, gli uomini con le valigette chiacchieravano a bassa voce.
Julia, accanto a me, si sistemò per dormire, io continuai a scorrere i titoli del giornale. Ma, a parte la luce scarsa, ben presto il movimento del pullman diventò insopportabile. Decisi allora di reclinare lo schienale del sedile.
Avevo appena spento la luce quando sentimmo una voce dal suono piuttosto sgraziato: Potrebbe prestarmi il giornale? Glielo diedi senza dire nemmeno una parola. Mi ringraziò con un cenno della testa e si mise a leggere. Da quel momento non potei fare a meno di osservarli. Erano impacciati nel parlare così come lo erano nei movimenti. L’uomo accanto al finestrino, forse il più robusto dei due, aveva un tic che gli faceva muovere la testa all’indietro in continuazione. Erano così grotteschi e sgradevoli da indurmi a pensare che non avrei mai potuto riferire a loro l’idea shakespeariana secondo cui «bello è il brutto e brutto il bello».
Con un aspetto del genere, quei due possono essere interessati solo agli annunci mortuari, mi sussurrò Julia sorridendo. Premiai la sua battuta con un altro sorriso e un bacio. A poco a poco mi addormentai, ma prima riuscii a vedere che l’uomo vestito di grigio, quello vicino al finestrino, aveva tirato fuori dalla tasca un libro.
{2} Ci svegliò un «ci fermiamo quindici minuti». Al bar li vedemmo seduti a un tavolo, erano piuttosto nervosi perché il cameriere non li aveva ancora serviti. Quello con il tic guardava continuamente l’orologio e, con aria infastidita, sembrava dire al compagno che era assurdo che nessuno si occupasse di loro. Stanchi di aspettare, si alzarono e andarono al bancone. Li perdemmo di vista per qualche minuto, poi vidi che stavano mangiando dei panini in piedi e con una certa avidità. All’improvviso uno dei due fece un gesto brusco e si rovesciò sui vestiti il bicchiere di latte che gli avevano appena portato. Al sentire il rumore del vetro infranto al suolo tutti si girarono a guardarlo. Alcuni sorrisero subdolamente. Un cameriere con aria beffarda gli diede un tovagliolo con cui pulirsi. L’uomo vestito di grigio iniziò a passarselo sulla cravatta, una sottile striscia nera che gli ricadeva sulla pancia. Quando me ne andai, stavano discutendo con il cassiere. Il pomo della discordia era una banconota troppo consumata che non volevano accettare, o almeno è quello che mi sembrò di capire.
All’ora della partenza, guardando fuori dal finestrino, li vedemmo arrivare; non riuscivano a riconoscere il pullman (ma sospetto che fingessero) tra i tanti che a quell’ora erano parcheggiati nel piazzale. Alla fine, dopo essere saliti e scesi da varie vetture, entrarono nella nostra con l’aria di chi ha vinto una battaglia.
Quando vennero a sedersi, Julia gli chiese che ora fosse, le rispose quello seduto accanto al finestrino, con una gentilezza forzata. Vedrai, mi sussurrò Julia, adesso ci chiede di dove siamo, muore dalla voglia di parlare. E infatti parlò, disse due o tre banalità sul caldo e sulla notte, ma Julia si era sbagliata, a nessuno dei due interessava chiacchierare con noi. Fui sul punto di intervenire per chiedere il titolo del libro, ma non lo feci, anche perché mi accorsi che l’uomo seduto accanto al finestrino aveva ripreso la lettura, così preferii spiarlo di nascosto. Sulla copertina riuscii a malapena a distinguere la parola Vartha scritta a grandi lettere nere. Pensai a una storia horror. Ma poi scartai l’ipotesi perché non mi sembrava un titolo adatto per un libro di quel genere. Era più probabile che Vartha fosse il nome di una città tedesca.
Come seppi poi, neanche a Julia era sfuggito quel libretto con la copertina marrone chiaro. Eravamo talmente ansiosi di scoprire cosa fosse, che ci mettemmo a fissarlo con un’attenzione quasi maniacale. Riuscimmo a capire che non era scritto in spagnolo, sembrava tedesco ma non potevamo esserne certi. Notammo anche che c’erano delle illustrazioni, sembravano incisioni antiche, e che il carattere sembrava gotico. In ogni caso, dal nostro posto non era possibile distinguere molto altro. A un tratto, il tizio che leggeva estrasse dalle ultime pagine del libro un mappa colorata. Incuriosita, Julia mi disse: Forse sono stranieri, quella è soltanto una guida turistica. Sorrisi. Parlavano uno spagnolo sgradevole e nasale, ma era pur sempre spagnolo, senza nessun accento, non avevano nemmeno quella particolare lieve intonazione tipica della penisola iberica. A un certo punto mi venne voglia di alzarmi con un pretesto qualsiasi per andarli a spiare da dietro. Tuttavia, nell’indecisione, rimasi al mio posto. Ora gli chiedo cosa stanno leggendo, che sarà mai… minacciò Julia. Ma in quel preciso istante l’uomo spense la luce e rimise Vartha nella tasca della giacca. Lo slancio di Julia rimase a galleggiare nella recente penombra. In fondo, le dissi, che ce ne importa di quei due imbecilli?
A quell’ora, e nell’oscurità, le risate delle grassone, che non avevano smesso un solo istante di sghignazzare, diventarono più insopportabili che mai. Sibilai shhh! per farle tacere, imitato dai passeggeri più vicini. Anche i due di Vartha si unirono al coro, sia pure timidamente. Allora le grassone e il signore canuto smisero di chiacchierare, e lentamente, quasi senza che me ne accorgessi, arrivò il sonno.
Alla fermata successiva, era quasi l’alba, scesi da solo: Julia dormiva profondamente. Mentre prendevo un succo d’arancia al bancone del bar, li vidi attraversare il piazzale immenso e sporco della stazione in direzione dei bagni. Senza riflettere, uscii e li seguii, così ci incontrammo di nuovo. Il fumatore era in piedi davanti allo specchio. Si era bagnato i capelli, e alcune gocce d’acqua gli erano cadute sulle spalle. Mentre si pettinava cercando di nascondere la calvizie, notai Vartha che gli spuntava dalla tasca destra della giacca. Con la scusa di lavarmi le mani mi fermai accanto a lui che continuò a occuparsi della sua pettinatura senza fare caso a me. Ne approfittai per guardare il libro più da vicino. Riuscii a scorgere soltanto il taglio superiore, di un marrone più chiaro rispetto quello della copertina, e le lettere del titolo come potevano vedersi da sopra: l’ampia apertura della V, l’angolo tagliente della prima A, la curva della R e, poi la stanghetta orizzontale della T, e le lineette parallele della H quasi attaccate all’ultima A. Pensai che era giunto il momento di soddisfare una volta per tutte la mia curiosità. Era sufficiente parlare, dire qualche parola gentile per far notare la mia presenza e aspettare l’occasione giusta per chiedere informazioni sul libro. Ma non avvenne niente di tutto ciò. L’uomo non si accorse di me, o quantomeno fece finta di non riconoscermi, forse perché già ci eravamo visti fin troppo durante il viaggio. Poi arrivò l’altro, quello che aveva versato il bicchiere di latte, e, senza degnarmi di uno sguardo, afferrò il compagno per un braccio e se lo tirò verso la porta. Sgusciai fuori subito dopo di loro e non li persi di vista finché non risalirono sul pullman.
{3} Appena lasciammo il terminal, mi addormentai con la testa appoggiata sulla spalla di Julia. Mi addormentai e feci perfino un sogno. Viaggiavo su un altro pullman, ero in uno dei posti davanti, e i passeggeri parlavano in continuazione. Non potevo chiudere gli occhi perché faceva troppo caldo.
La cosa strana era che a poco a poco ci trasformavamo in pecorelle spaventate; ce ne stavamo lì silenziose e ci strofinavamo l’una contro l’altra. Alla fine vedevo l’immagine sfocata della mia faccia da pecora, con quell’aspetto lanoso e triste, riflessa sul parabrezza, tra le ombre e le luci della strada.
Quando mi svegliai, Julia dormiva sdraiata sulle mie gambe. Mi sorprese non vedere i due di Vartha. Ero seduto nel posto vicino al corridoio, avevo lasciato a Julia quello accanto al finestrino. Pensai che si fossero semplicemente spostati da un’altra parte, forse preferivano stare seduti più avanti, ma la cosa fondamentale era che non c’erano e che potevano aver dimenticato Vartha. Non feci in tempo ad alzarmi, che uno dei due, quello che aveva versato il bicchiere di latte, comparve nel corridoio. All’inizio non notai niente di strano, pensai che fosse tornato a cercare qualcosa.
E in effetti vidi le sue mani che tiravano giù dal portabagagli una ventiquattrore. Ma poi, quando avanzò verso il fondo dell’autobus, iniziò a crollare l’immagine che mi ero fatto di loro. Con voce aspra, stringendo la ventiquattrore al petto, si rivolse alle grassone e al signore canuto. Forza, lasciate liberi questi posti, intimò. Più avanti c’è spazio. La donna alta e voluminosa rispose decisa: Io da qui non mi muovo. Allora l’altro, sporgendosi un po’ in avanti, estrasse una calibro quarantacinque dalla ventiquattrore e, con un’espressione trionfale, gliela puntò contro. La grassona che aveva provato a opporsi diventò paonazza e cominciò a respirare affannosamente. Il signore canuto fece spazio all’altra donna, affinché potesse lasciare il suo posto, e prendendole entrambe per il braccio le condusse verso la testa del pullman. Lo vidi passare; stavo osservando tutto, in piedi nello stretto spazio accanto al mio sedile. Gli altri passeggeri, non molti, dormivano profondamente come Julia.
Quello che aveva versato il bicchiere di latte nel bar, facendo la figura dell’idiota, adesso era lì in fondo, in piedi, con l’arma in pugno, e guardava in avanti come se ci stesse sorvegliando. Pensai di essere l’unico a non dormire e che probabilmente ci volessero derubare, altrimenti cosa volevano da noi? Era una situazione da incubo, mi diedi un pizzico per assicurarmi che stesse succedendo davvero e che non fossi rimasto prigioniero del sogno delle pecore.
Guardai attraverso il finestrino e mi accorsi che la strada asfaltata non c’era più, non si vedevano le luci delle automobili, e si udiva solo il ronzio del motore. Stavamo procedendo in mezzo ai campi, sull’erba bagnata dalla rugiada, e all’orizzonte si distingueva, nella luce dell’alba, una recinzione di filo spinato. Iniziai allora a cercare qualcuno che non fosse addormentato e mi mossi verso la testa del pullman. Arrivato all’altezza dei primi sedili, vidi l’altro uomo seduto al posto dell’autista. Con il suo vestito grigio e quel tic che gli faceva muovere continuamente la testa all’indietro, si era messo alla guida del pullman; il suo sguardo sembrava perdersi all’orizzonte, come se non fosse successo niente. La scoperta mi paralizzò, riuscii solo a osservare che procedevamo con la lentezza di una vecchia carrozza. Gli autisti erano scomparsi, forse li avevano lasciati da qualche parte lungo la strada, mi dissi per non pensare al peggio. Ebbi allora la certezza che ci avessero sequestrato, ma non ne capivo il motivo. Se volevano derubarci, perché non lo avevano ancora fatto? Il tempo non gli era certo mancato.
Nonostante fosse proibito fumare, presi una sigaretta e, per vedere come avrebbe reagito il nostro nuovo conducente, gli chiesi di accendermela. Mi allungò una scatola di fiammiferi senza dire una sola parola. E in quel momento vidi spuntare dalla tasca della sua giacca il libro che aveva tanto incuriosito me e Julia. Mentre accendevo la sigaretta, mi sforzai di guardarlo negli occhi, cercai qualche indizio nei lineamenti della sua faccia ma fu tutto inutile: impassibile, con il suo colorito giallognolo, continuava a guardare dritto davanti a sé. Immaginai di stare su un grosso carro, o su qualcosa del genere,trainato da sei cavalli. E contemplando i fianchi lucenti di quei cavalli immaginari, credetti di scoprire un’assurda armonia tra il movimento dei muscoli e delle criniere e la figura solenne del nostro conducente. Arrivai perfino a trovare un certa nobiltà nella sua bruttezza grottesca. Forse fu proprio quest’ultima fantasia che mi spinse ad affrontarlo. Gli toccai la spalla destra. Già le ho dato da accendere, adesso cosa vuole? disse prima che potessi aprire bocca. Il suo libro, risposi. Senza guardarmi, tirò fuori il libro dalla tasca e me lo diede. Lo tenevo tra le mani, non ci potevo credere. L’uomo continuava a guidare, come se io non esistessi, girando di tanto in tanto il volante che stringeva tra le mani e ripetendo sempre più lentamente il suo tic maniacale. Mi guardai attorno. Le due donne grasse e il signore canuto, che ora erano seduti nei posti davanti, erano gli unici testimoni di quanto stava succedendo. Forse per questo motivo l’uomo dai capelli bianchi, incoraggiato in parte dalle donne, mi chiese: Che facciamo? Non seppi cosa rispondere. Avevo il libro nella mano destra, volevo aprirlo e vedere di cosa trattava, ma era più importante rispondere alla domanda che mi avevano appena rivolto. Vidi che gli altri dormivano, come se fossero stati drogati, e li invidiai. Ero sicuro che qualsiasi cosa avessi proposto, il signore canuto e le due donne mi avrebbero seguito incuranti delle conseguenze. Ma tornai verso il mio posto.
Nel corridoio mi trovai di fronte all’uomo che aveva versato il bicchiere di latte. Ora il libro lo avevo io, anche se non sapevo che importanza potesse avere. Pensai che magari lì dentro avrei trovato una spiegazione. Quando ci trovammo faccia a faccia, quell’uomo grottesco come il suo compagno mi guardò con un’espressione di disprezzo e d’odio. Teneva la pistola calibro quarantacinque alla cintura, in bella mostra. Si fece da parte e con la testa mi fece segno (o meglio mi ordinò) di passare. Feci ancora qualche passo, e lui si accorse che avevo il libro. Con una rapidità straordinaria, che non mi permise di reagire, me lo strappò di mano. Per la prima volta sorrise, mostrando una fila di denti luccicanti, molto probabilmente posticci.
Mi sedetti in uno dei posti che occupavano loro all’inizio del viaggio e guardai la pianura illuminata dal sole che faceva capolino tra le nubi rosa. Procedevamo seguendo un’immaginaria linea retta. Stesa sul suo sedile, Julia dormiva placidamente, tanto placidamente che cedetti all’impulso segreto di seguire il suo esempio e chiudere gli occhi.