Marco Aime, All’Avogadro si cominciava a ottobre. Autobiografia di un quinquennio, Agenzia X, Milano 2014, pp.246, euro 14,00.
Di solito, i ricordi sono egocentrici. Ognuno ricorda prima di tutto se stesso: le avventure, gli incontri, le speranze e gli insuccessi. La memoria nasce individuale, sostiene il Sé nelle tre dimensioni del tempo, dello spazio e dell’immaginazione. Esiste forse un unico periodo della vita che costituisce un’eccezione: gli anni delle superiori. Nessuno ricorda la scuola superiore come singolo individuo all’interno di un percorso collettivo; anzi, i contorni si sfumano, l’individualità si dissolve nella collettività della classe, si confondono i propri posizionamenti interiori con quelli dei compagni. La scuola è il tempo in cui il collettivo – desiderato o sofferto che sia – è connaturato alla vita. Il volume di Marco Aime si propone di rievocare proprio questo periodo di memoria molteplice, de-individuata, come dichiara l’uso dell’impersonale nel titolo All’Avogadro si cominciava a ottobre.
L’Autore frequenta l’istituto tecnico “Amedeo Avogadro” di Torino nel quinquennio 1970-75, una scuola per figli di operai destinati a diventare periti meccanici o elettrotecnici. L’Avogadro è il protagonista silenzioso del romanzo, non tanto come istituzione scolastica, quanto come condizione di possibilità di essere studente, di prendere posizione nel mondo, di saggiare il confine tra il gioco e la lotta: «Tremila maschi. Tremila tutti insieme, ecco cos’era l’Avogadro, e tremila maschi tutti insieme negli anni in cui le braci del sessantotto bruciavano ancora, erano una macchina da casino. […] Essere dell’Avo voleva dire far parte di un gruppo ben connotato, appartenere a un mondo, nel vestire, nel modo di presentarsi, di essere» (pp. 26-27). Qui la molteplicità della memoria che caratterizza il quotidiano scolastico si duplica nel più vasto orizzonte collettivo della lotta politica: sono «anni plurali» (p. 18), di rivendicazioni comunitarie, di manifestazioni, scioperi, e alleanze inedite tra operai e studenti. Conservando un registro ironico e demistificante, Aime descrive l’intreccio tra avventure di scuola e impegno politico: le mattinate passate al “Bar Impera”, dove si andava per “tagliare” da scuola oppure nei giorni di sciopero; la ressa sul controviale di corso San Maurizio prima di entrare all’Avogadro, per distribuire volantini ciclostilati e fare scherzi agli automobilisti; i dischi portati sottobraccio per i corridoi con la copertina in bella vista; il compagno di classe fascista che veniva difeso dai compagni di altre classi che minacciavano di picchiarlo perché «era il “nostro” fascista e se ci fosse stato da dargliele, be’, sarebbe stato compito nostro e solo nostro» (p. 149).
Sullo sfondo una città-fabbrica imperniata sui ritmi della Fiat, o meglio sul triangolo Fiat, “La Stampa”, Juventus. A Torino «tutto ruotava intorno al ciclo operaio» (p. 91): gli autobus che portano in fabbrica gli operai (i barachin) dai paesi della cintura, i centri sportivi Fiat, le biblioteche Fiat, la mutua Fiat – un’eredità che si tramanda da una generazione all’altra e che sembra aver già ipotecato il futuro degli studenti dell’Avogadro. Questi ultimi, d’altronde, affrontano la prospettiva di un futuro in fabbrica con lo stesso atteggiamento irriverente, combattivo e un po’ ingenuo che riservano a professori, genitori e potenziali fidanzate: i laboratori di aggiustaggio, elettrotecnica, fucina rappresentano fonti inesauribili di scherzi, confusione, assenze ingiustificate, tentativi di «prendere in giro e di rompere le balle agli adulti» (p. 136).
Il volume di Aime racconta un intero periodo storico attraverso i ricordi di quelli che ne sono stati i protagonisti inconsapevoli – ricordi di vita quotidiana, di interrogazioni, insegnanti trasformati in figure mitologiche, gite scolastiche, bigliettini scambiati nelle ore di noia. Al racconto si accompagna una colonna sonora dettagliata, perché ascoltare musica era l’occupazione preferita degli studenti dell’Avogadro, oltre che il principale oggetto di conversazione e dibattito: dal blues di Richie Havens ai cantautori italiani, dai Led Zeppelin a Bob Dylan, le rivoluzioni musicali sono parte integrante della memoria e al tempo stesso diventano marcatore generazionale. Il ragazzo che cammina con il disco sotto braccio ci viene presentato come l’icona della generazione dell’Autore: «lui camminava tranquillo, con il suo ellepi, magari pensava a chissà cosa, eppure quel suo quadrato di cartone segnava i tempi, comunicava le tendenze. La sua scia tracciava confini, tra generazioni, tra fan di gruppi diversi. Confini veri che venivano presi sul serio» (p. 132).
Marco Aime è antropologo e scrittore, ha condotto ricerche in Africa occidentale, in particolare Benin e Mali1, e più recentemente si è occupato della formazione di identità comunitarie immaginate quali la Padania in Italia2 . Ne All’Avogadro si cominciava a ottobre l’attenzione dello studioso si sposta da altrove lontani nello spazio e nell’immaginazione a una memoria presente, nel tentativo di compiere una “antropologia intima” che consegna al lettore un frammento di esistenza da conoscere, valutare e – forse – condividere.