di Mauro Baldrati
Esistono fatti reali, spesso dai contorni indistinti, e opere letterarie o cinematografiche che da questi fatti prendono spunto, cambiando o mescolando dettagli, interpretando, mistificando, in nome di una mai del tutto negata libertà creativa. E noi, spettatori-lettori, cosa cerchiamo? La verosimiglianza a tutti i costi? I riscontri? Oppure ci attestiamo sull’opera, bypassando le varie affinità più o meno elettive?
E’ il caso del film del momento – le solite candidature all’Oscar, miglior film, migliori attori ecc. – un’opera dura, con molti difetti e forzature rispetto al reale svolgersi degli eventi. Può essere interessante soffermarsi sulle numerose licenze e deroghe rispetto ai fatti e ai personaggi, ma il risultato sarebbe probabilmente mettere in secondo piano il racconto, le immagini, e soprattutto le critiche. “Del resto” come direbbero alcuni personaggi di Gogol, qualche distinguo bisogna pur sottolinearlo, così, tanto per far quadrare il cerchio.
Per dire: Ron Woodroof, texano anni Ottanta col marchio DOC, pare non corrispondesse al tipo ritratto in Dallas Buyers Club: chi lo ha conosciuto lo descrive più educato, per nulla omofobo, addirittura bisex. Ma insomma, a che serve in fondo saperlo? Il “nostro” Ron è tutto muthafucka, fuck-you shit, e così via nel turpiloquio per il quale gli americani hanno da sempre una passione, perché fa rifiorire la loro tradizione puritana. Frequenta i rodei, gli strip-bar, fa le orge con “le puttane da rodeo”, scaldandosi con abbondanti piste di coca, bicchierate di whiskey, una sigaretta dopo l’altra. Ed è omofobo e sessista al punto giusto, come doveva esserlo un texano macho elettore di Reagan. Una roccia, col cappello da cow boy sempre in testa e gli stivali nei piedi anche sotto la doccia.
Ma la roccia non è tanto happy. Qualcosa di oscuro, di orribile, pulsa nel profondo. E’ stato contagiato dalla pestilenza del XX secolo, che si sta diffondendo, pare negli ambienti omosessuali, mietendo vittime che muoiono orribilmente: l’AIDS. Ron Woodroof ha l’AIDS. La sua risposta è urlata, rabbiosa: “Ma vaffanculo! (rivolto al medico ndr) Non sono mica un finocchio io! Se osi ripeterlo ti spacco quella faccia di merda!” E se ne va dall’ospedale. Torna a casa (il classico prefabbricato da operaio americano precario) a strafarsi di coca, whiskey e sesso.
Ma è inutile. Ron ha l’AIDS. Non c’è scampo. E sta male. Ha una polmonite cronica e 30 giorni di vita (prognosi del medico). C’è poco tempo. Inizia a documentarsi, studia articoli, ricerche cliniche, e da questo momento parte una sceneggiatura abbastanza frenetica, per certi versi caotica, bulimica per l’urgenza di inserire troppi dettagli, fatti, svolte, personaggi, col risultato di confondere lo spettatore, fargli perdere qua e là l’orientamento. Inizia una presa di coscienza di Ron che non è graduale né repentina, semplicemente obbligata: escluso da un protocollo sperimentale a base del nuovo farmaco AZT, descritto come tossico, imposto da una multinazionale farmaceutica (in realtà l’AZT andava soprattutto testato nelle dosi, è utilizzato anche oggi con risultati validi), deciso a trovare strade alternative, inizia una missione di ricerca di nuove terapie, in Messico, in Europa, in Giappone. Ha mille difficoltà, è vessato dall’ente federale di controllo dei farmaci (FDA), dai medici pesantemente manovrati dal business farmaceutico (inevitabile in una sanità totalmente controllata dai privati), spinto solo dalla propria forza incoercibile e dalla voglia di sopravvivere in un mondo che se ne frega di lui. La sua presa di coscienza lo porta anche a mettersi in società con un transessuale conosciuto in ospedale, malato come lui, per fondare appunto il Dallas Buyers Club, un’organizzazione parallela a quella sanitaria ufficiale che importa illegalmente, con mille sotterfugi, farmaci non approvati dall’ente americano. E di nuovo c’è caos, non si capisce se Ron agisce per soldi, o per solidarietà coi malati come lui. Non si riesce a decidere se davvero supera i propri pregiudizi, sessuali e razzisti, o se si “adatta” per portare avanti la sua azienda-missione. Lo spettatore non ha neanche il tempo di farsi un’idea personale e arbitraria, perché incalzato dalla furia della sceneggiatura, da una confusione che impedisce di individuare chi e cosa si muove e perché: di quali farmaci si parla, di quali controindicazioni, di quali scelte più o meno naturiste, perché sono più leggeri di quelli ortodossi e così via.
Eppure Dallas Buyers Club è un curioso esempio di storia “incasinata” e squilibrata che resta impressa e tocca corde profonde, sensibili. E’ una lotta per la vita e per la libertà terapeutica, condotta con una tenacia che stupisce. E’ una guerra contro una minaccia orribile che non concede tregua né pietà, un conflitto terminale dove tuttavia continuano a vivere l’amore, l’amicizia, la lealtà, l’eroismo, contrapposti alla meschinità e alla tracotanza del Potere.
E in questo ce la fa. Raggiunge l’obiettivo. Come un bambino che scalcia e urla scomposto ma indistruttibile nel mondo ostile degli adulti.
E in questo, in fondo, c’è il suo riscatto artistico.