di Simone Scaffidi Lallaro
[Da Cuba, un ricordo del rivoluzionario Camilo Cienfuegos, K100, nato a L’Avana il 6 febbraio 1932 e scomparso nell’Oceano Atlantico (?) il 28 ottobre 1959]
Porta il nome che fu di Bolívar e passeggia lento intorno alla statua. Il cielo è scuro, il mare agitato e l’acqua s’infrange violenta sugli scogli. L’esplosione schizza gocce fini come aghi sul volto del vecchio e scalfisce lo strato di sale che lo ricopre. Il grande cappello, lo stesso che indossa la statua di pietra, nulla può contro l’attacco del mare. Il vecchio alza lo sguardo e inizia a parlarmi: «era il mio onomastico il giorno che se fue ma diedero l’allarme soltanto l’indomani. Lo annunciarono per radio».
Si dà notizia attraverso questo mezzo all’opinione pubblica, che nel giorno di ieri, 28 ottobre, alle 6:01 del pomeriggio è partito dall’aeroporto di Camaguey, l’aereo bimotore delle FAR (Fuerzas Armadas Revolucionarias), modello Cessna 310 No. 53 da cinque posti, in direzione L’Avana, trasportando il Capo dello Stato Maggiore dell’Ejército Rebelde, Comandante Camilo Cienfuegos che viaggiava accompagnato dal pilota del suddetto aereo, Primo Tenente Luciano Fariñas Rodríguez e dal soldato ribelle Félix Rodríguez, i quali disgraziatamente, non sono arrivati a destinazione.
Le ricerche effettuate fino ad ora, quelle che si sono continuate oggi in tutta l’area tra L’Avana e Camaguey, sono risultate infruttuose. La presenza di temporali a quell’ora tra Ciego de Avila e Matanzas, può aver procurato un qualche incidente, supponendosi che sia accaduto in un punto a nord della provincia di Camaguey, Las Villas, Matanzas. Le FAR, supportate dall’aviazione civile e da unità dell’Ejército Rebelde, si sono sforzate nella giornata di oggi, per trovare l’aereo scomparso.
«Io non ci credevo, non ci potevo credere. Mi ripetevo che non poteva averlo ucciso uno stupido temporale. L’uragano Ike nel 2008 non è neppure riuscito a scalfire la sua statua e vuoi che una stupida tempesta a largo di Gibara abbia scaraventato il suo Cessna in mare? A me non la raccontano. E poi quel giorno un caccia con a bordo un ex ufficiale di Batista ha sorvolato Cuba, è atterrato sull’isola per rifornirsi e ha ripreso il volo verso la Florida..»
«Quanti anni hai ragazzo?», ventisette. Borbotta qualcosa, quel numero sembra averlo irritato. Mi domando perché, ma non vado oltre i volti di Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison, Kurt Cobain e di quello stronzo di Dave, che mi ha regalato un quadretto con le loro foto per il mio ventisettesimo compleanno.
Ritorno in un lampo con la mente in terra cubana, il vecchio è partito a raccontare, non aspettavo altro: «Gibara non era più riconoscibile dopo il passaggio dell’uragano, il Malecón completamente cancellato, le strade piene di fango e detriti di ogni genere. La statua di Camilo è l’unico baluardo rimasto in piedi in mezzo alla devastazione. La sola immagine verticale che ricordo della costa di Gibara».
«Lo vedi il cappello che ho indosso? L’ho comprato prima del triunfo, barattandolo con la yuca del mio orto! È identico al suo», mi dice indicando la statua, «mi protegge dal mare quando vado a pescare». «E ha protetto anche Camilo al passaggio di Ike!». Sorrido e ironico gli dico che ora capisco perché lo sguardo del guerrigliero non è voltato verso il mare, in questo modo il cappello lo protegge! Ride di gusto, «Esattamente fratello! Proprio per questo, è quel fottuto cappello da far west che gli ha parato il culo!» Poi lo sguardo si fa duro per ammorbidirsi rapidamente in un riso amaro, «prima di ammazzarlo gliel’hanno sicuramente strappato di dosso, non l’ha ucciso una stupida tempesta ma i potenti mezzi del nemico: i radar, gli aerei da guerra di ultima generazione e il loro odio. Non una tempesta ma l’uragano a stelle e strisce».
Le sue parole fanno eco a quelle di Ernesto Che Guevara, grande amico di Camilo, che all’indomani della sua morte scriverà: «Lo ha ucciso il nemico, lo ha ucciso perché voleva la sua morte. Lo ha ucciso perché non ci sono aerei sicuri, perché i piloti non possono acquisire tutta l’esperienza necessaria, perché sovraccarico di lavoro voleva essere a L’Avana in poche ore».
Diretta o indiretta la responsabilità è del nemico e questo il Che lo ha già messo in chiaro. Ma la penna continua a scorrere sul foglio spinta dalla rabbia che lo logora. Ernesto conosce bene Camilo e si riconosce nelle sue azioni sprezzanti del pericolo. Scatta l’ammonimento rabbioso e fraterno, indirizzato tanto al compagno scomparso quanto a se stesso: «…e lo ha ucciso il suo carattere: Camilo non considerava il pericolo, lo utilizzava come divertimento, giocava con lui, toreava con lui, lo attirava e lo maneggiava; nella sua mentalità di guerrigliero una nube non poteva fermare o deviare un percorso tracciato».
Inizia a piovere, una pioggia finissima. «Cos’hai da fare ragazzo? Casa mia è proprio dietro quel rudere, vieni che ci mangiamo un po’ di yuca». Acconsento, felice dell’invito. Poi si ferma di scatto e mi intima di alzare lo sguardo verso la statua: «prima guardala bene!», mi redarguisce. «Non vedi che c’è qualcosa che proprio non torna?!» Non riesco a capire, rimango in silenzio, «seguimi su andiamo!» Mi indica un cumulo di legni imbruniti e mattoni spezzati: «quella era casa mia prima che ci facesse visita Ike».
La nuova dimora è di legno pitturato di verde e giallo. Entro impaziente di gustare la yuca, sorseggiare l’immancabile succo naturale e ascoltare i suoi racconti. Ma il vecchio è più impaziente di me, non faccio in tempo a oltrepassare la soglia che lo vedo accucciarsi e ravanare in uno scassato mobile di legno. Si rialza con un grosso album in pelle fra le mani. Scorgo una scritta ma non riesco a metterla a fuoco, poi il vecchio toglie la polvere dalla copertina con un colpo di manica e la scritta appare più nitida: “rebeldes”, la “r” è minuscola.
Mi guarda con un sorriso condito d’orgoglio e prova a spiegarmi: «per anni ho collezionato le immagini e le fotografie dei rivoluzionari di mezzo mondo». Mi invita a sedere e poggia l’album sulle mie gambe: «sfoglialo ragazzo». Lo apro con cura e attenzione. Non faccio in tempo a sorridere alla vista di Emma Goldman e Vladimir Il’ič Ul’janov (alias Lenin) che il vecchio m’incalza: «guarda i loro volti, osserva la loro severità». Poi vedo Pancho Villa, ma ne ha anche per lui: «non si può dire che Villa non sorrida in queste foto, ma guardalo bene, lo fa solo con gli occhi! I denti non glieli vedi mai!» Mi prende l’album e gira un bel malloppo di pagine, «e anche gli zapatisti! Il subcomandante Marcos e i suoi compagni sorridono solo con gli occhi, non possono fare altrimenti! Loro sì che potrebbero fare concorrenza a Camilo, ma il passamontagna glielo impedisce!»
«Ora ripensa alla statua e guarda queste foto», apre due facciate di fotografie di Camilo Cienfuegos. «Cos’è che non torna ragazzo?» La statua non sorride. «Esattamente ragazzo! Li riesci a contare tutti quei denti su queste pagine?! Li riesci a contare?!», urla in una fragorosa risata. «Camilo è stato il rivoluzionario più sorridente della storia dei rivoluzionari! Ogni volta che vedo una sua foto, penso al suono di quella risata, quasi la posso sentire. E questi incapaci non sono neppure in grado di scalpellare una statua che ride. Hanno appeso il suo volto anche in Plaza de la Revolución, vicino a quello del Che, e anche in quel caso sono riusciti a non farlo sorridere! Ma io dico, lo capiscono o no che quella di Camilo è una rivoluzione nella rivoluzione! È sufficiente sfogliare questo benedetto album per accorgersene!»
Il vecchio si è infervorato, «scusa lo sfogo ragazzo, ma queste cose mi fanno imbestialire». Non posso fare nient’altro che sorridere e ringraziarlo. Ci dimentichiamo della yuca e ci nutriamo di rivoluzionari. Tutti dovrebbero avere in casa un album come questo, penso. Dovrei cominciare a farlo anch’io, dico. Il vecchio sorride. Vedo le figure di Hatuey e Zumbi, due tra i leggendari ribelli delle Americhe. Il primo lottò sull’isola di Española e a Cuba per la cacciata degli spagnoli, il secondo fu l’ultimo leader del Quilombo dos Palmares, storico avamposto resistente in terra brasiliana. Volto la pagina e passiamo in rassegna i mambises: Carlo Manuel de Céspedes, Máximo Gómez e Antonio Maceo, poi i vietnamiti Ho Chi Minh e Võ Nguyên Giáp e gli africani Thomas Sankara e Stephen Biko. Non posso fare a meno di sorridere ancora quando tra le pagine ingiallite incontro le facce di John Reed e Fela Kuti!
Nel 1953 Camilo Cienfuegos ha ventuno anni quando emigra negli Stati Uniti alla ricerca di un lavoro che possa migliorare la sua condizione sociale e sostentare la sua famiglia. Presto si rende conto che l’impresa è ardua, che gli sfruttati stanno da una parte e gli sfruttatori dall’altra, così a Cuba come negli States. Mantiene però sempre un’ironia sdrammatizzante che conserverà tra le montagne della Sierra Maestra e si paleserà nella corrispondenza con il Che. Camilo si diverte a giocare con le parole come nella lettera inviata ai suoi cari da Kansas City, nella quale trasforma un nome proprio di città americana in un aggettivo in lingua spagnola, aiutato dalla sistematica omissione delle “s” da parte dei cubani: «good morning queridos viejos y hermanos acabamos de arribar a esta bonita ciudad de Kansas un poco KANSADOS después de 7 horas de viaje». E nelle lettere inviate al Che quando non lo sfotte ironicamente firmandosi “tu eterno chicharrón” o “tuo ammiratore segreto”, opta per utilizzare la sigla K-100, ovvero Ca-Cien.
Poi il visto turistico scade e Camilo continua a lavorare clandestinamente finché le autorità non lo rispediscono a Cuba. Sull’isola resta il tempo di partecipare a una manifestazione studentesca, farsi bastonare dalla polizia ed essere ricoverato in ospedale per le ferite riportate a una gamba. Poi riparte per gli States dove rimane dal marzo al settembre 1956, quando decide di raggiungere gli esuli cubani in Messico. Qui incontra Fidel, Guevara e altri settantanove compagni pronti a tutto per liberare Cuba dalla dittatura batistiana. Sono il manipolo di idealisti che il 2 dicembre 1956 innescano la miccia della Revolución, gli ottantadue guerriglieri che partecipano alla rocambolesca spedizione del Granma arenatasi tra i fondali paludosi e le mangrovie nei pressi di Playa Las Coloradas. Camilo è l’ultimo ad aggregarsi alla ciurma e il primo, insieme a Ernesto Che Guevara, a entrare a La Habana il 2 gennaio 1959.
Si è fatto tardi. «Mi dispiace non averti cucinato la yuca». Corre nell’altra stanza, sento dei rumori. Torna e mi porge un sacchetto pieno di yuca. Poi mi ordina: «domani portalo al commesso de El Rapido e chiedigli in cambio un cappello uguale a quello di Camilo. Sarà un bel ricordo di Cuba».
Ci stringiamo la mano con due grossi sorrisi sulla faccia, poi il vecchio si toglie il cappello e finisce il racconto: «era il 28 ottobre 1959, sia io che K-100 avevamo ventisette anni quando lui se fue, ora li hai tu ragazzo e Camilo non è ancora morto. Rinasce ogni 6 febbraio con i denti ben in vista e il cappello in testa».
Accompagnamento musicale (e fotografico): C. Puebla, Canto a Camilo, 1960.