Giuseppe Culicchia, Venere in metrò, Mondadori, Milano 2012, pp. 262, € 17.00
(questa recensione è stata pubblicata sul n. 2/2014 de “L’Indice dei libri del mese”)
Ci sono libri che costringono ad alzare lo sguardo al di sopra delle pagine e dare un’occhiata a tutto ciò che c’è fuori dal libro, e cioè al mondo in cui siete mentre state leggendo. Alcuni di questi libri vi strappano con violenza alle pagine, altri usano più cautela: l’importante è che lo facciano. Non è questione di genere letterario, o di atteggiamento: è un’esigenza etica che costringe a interrogarsi su quel che c’è, sul perché c’è, e soprattutto sul come e perché la maggior parte del mondo in cui siamo sarebbe meglio non fosse. Come diceva Walter Benjamin, uno che se ne intendeva, «il mondo si semplifica enormemente se viene esaminato non tanto per la sua godibilità, quanto per giudicare se meriti di essere distrutto». Giuseppe Culicchia fa parte, con discrezione, di questo genere di scrittori; dopo le gelide istantanee alla Edward Hopper con cui si è fatto conoscere alla metà degli anni Novanta, e lo spartiacque di Il paese delle meraviglie – libro importante soprattuto per ciò cui allude, ancor più che per l’oggetto narrato – , Culicchia ha intrapreso, a partire da Brucia la città, la scrittura di una sorta di repertorio antropologico sull’Italia in rotta verso il baratro etico e civile, prima ancora che economico e sociale, in cui siamo diretti.
Un baratro e una direzione di marcia che sono nascosti alla vista da un selva di oggetti fittizi, da un fitto nugolo di armi di distrazione di massa che ottunde la vista e contribuisce al permanere dello stato di cose presente. Questi oggetti, come le schegge di vetro dello specchio demoniaco della Regina delle nevi di Andersen, hanno il potere di cancellare la bellezza dal mondo, e di corrompere lo sguardo, o addirittura di gelare il cuore, agli sventurati che da queste schegge vengono trafitti. È di queste persone, anzi, di queste donne che narra Venere in metró: figure fittizie, spettri alienati dagli oggetti, dai logo, dalle firme, dai brand, dalle insegne, dai blog, dai nomi sulle copertine in un paese gelato e astratto dalla vita reale. C’è da rimanere quasi basiti, per noi della razza di chi rimane a terra, nell’apprendere che esistono SUV con gli interni disegnati da Victoria Beckham; che “Il Salumaio” non è un’offesa, ma un negozio dove puoi spendere 400 € per un pranzo da portarti a casa; che i tweet della figlia di un fratello di un brand o il vuoto pneumatico ma ben scritto di un’articolista fashion possano costituire punti di riferimento; che per vestire si debba consultare un sito, per prendere un cappuccino sia imperativo il tale bar che non è “il classico bar o ristorante”, ma “una casa a tutti gli effetti”; che una canzone di Raffaella Carrà sia stata remixata da Bob Sinclar; che esista un Bob Sinclar in un mondo in cui nessuno sa più chi è Richard Sinclair…
Davanti a questa falange di oggetti senza spirito che imprigionano l’anima dei loro consumatori, ci si chiede sgomenti che fine abbiano fatto quelli oggetti d’uso comune che si perdono per casa, come il vecchio infilascarpe di cui scriveva Montale: sono scomparsi, come scomparsi sono l’uso e il valore d’uso, sostituiti dalla dittatura del valore di scambio. A che serve l’infilascarpe, in un mondo in cui le scarpe si acquistano non per calzarle, ma per possederne il brand? E dov’è finita l’umanità delle relazioni familiari, amicali, sociali? Fin qui, il mondo milanese di Gaia ricorda quello torinese di Brucia la città, anche per lo stesso esercizio di stile di ispirazione ellisiana (non per caso Culicchia è stato traduttore di Brett Easton Ellis). Culicchia non è Truman Capote, come è stato scioccamente osservato (e del resto, anche Holly Golightly è, come il suo creatore, irripetibile e inimitabile): prende piuttosto la scrittura di Ellis, che descriveva i «dark times, and stupid» dell’acme dello yuppismo newyorkese (finendo, come gli rinfacciò David Foster Wallace, per diventarne la copia) e la disloca in mondi che stanno rotolando verso il basso senza essersene avveduti, e in questa discrasia tra forma e contenuto inserisce la propria critica.
Se non ché, come per l’Italia, anche per Gaia la dura lezione delle cose finirà col prendere il sopravvento sulla falsità alienata, su questa seconda natura patinata: Gaia ed Elettra, la figlia-vampira, scopriranno un mondo nel quale si vive andando a pulire le scale e si mettono insieme il pranzo con la cena grazie alle mense di carità e alla spesa fatta al discount. Un mondo in cui le parole ritornano a designare le cose, le relazioni tornano a tessere orditi tra esseri umani e non tra figurine; un mondo che fa paura, ma in cui esser presi per mano può bastare a scacciare la paura. Un mondo che sarebbe crudele augurare a chi non ne conosce l’esistenza, e quest’esistenza contribuisce così a perpetuare: ma in certi momenti, la crudeltà è il massimo dell’etica possibile.