Il grande regista di Taxi Driver e di Goodfellas si dedica al cartone animato
di Mauro Baldrati
“Ma Scorsese si è bevuto il cervello?” ha esclamato mia moglie, quando si sono accese le luci dell’intervallo. La prima ora e mezza. Poiché il film dura tre ore, mancava un’altra ora e mezza. Ci siamo guardati con le facce stropicciate, gli occhi leggermente sbarrati. Un’altra ora e mezza così? Impossibile resistere. Forse, per la prima volta dopo tanto tempo, sarei uscito da un cinema prima della fine. Umiliante. Insopportabile.
“Ma qual è l’obiettivo di Scorsese?” ha rincarato lei.
L’obiettivo. La solita deformazione professionale. Gli psicologi cercano sempre la causa, l’obiettivo, la sintesi razionale. Però la domanda era pertinente. Quale può essere il senso di un’ora e mezza – la durata media di un intero film “normale” – di sniffate continue di cocaina, ingestione di pillole, di alcol, di un numero incalcolabile di “cazzo” – unica possibilità italiana per le raffiche di fucking, fuck-off, fucka, motherfucker ecc. – di orge con prostitute sempre (s)vestite come le spogliarelliste dei “pali”, preferibilmente messe alla pecorina, e le grida dei broker “sìììì!!!” coi pugni chiusi e i nervi del collo tirati? C’era qualcosa di demente, di autistico in questa ripetizione ossessiva, senza uno straccio di storia, della cosiddetta “amoralità che non fa sconti”. E’ la parte di film che ha fatto andare in visibilio certa “critica” italiana. Scorsese tornato ai massimi livelli, DiCaprio un campione da oscar e così via. Maledizione, pensavo arrabbiandomi da solo, eppure lo hai verificato molte volte che quando fanno così, quando scrivono tutti lo stesso articolo, e si scambiano gli aggettivi ridondanti, c’è qualcosa che non va. E continui a cascarci!
“Sembrerebbe uno sbarramento invalicabile delle difese maniacali di un depresso” ha incalzato lei, implacabile.
“Difese maniacali?” ho detto, sorpreso. Il concetto, al momento per me misterioso, suonava bene.
“Chi si trova in una sindrome maniacale depressiva tende a rappresentare eventi negativi, o addirittura pericolosi, come se fosse tutto normale, una festa. Così esorcizza in parte l’ossessione e la paura.”
Sì, si adattava bene alla rappresentazione cui avevamo appena assistito.
“E poi è l’irrealtà del tutto” ha detto, indicando lo schermo spento, “a creare la noia. Ti sembra possibile che quelli si ingozzano di droghe in ogni scena del film, e sono sempre al top, sempre in forma? La mattina ricominciano come niente. Non sono personaggi, ma cartoni animati.”
Cartoni animati. Centro. Lo spiegava Jessica Rabbit, i cartoni sono indistruttibili, solo la salamoia può scioglierli, la droga gli fa un baffo. Scorsese ha girato un cartone animato. Leonardo DiCaprio, poco credibile nella parte del mostro perché ha sempre un retrogusto di bravo ragazzo romantico (solo Tarantino c’è riuscito a cavare fuori il demone in Django), si strafa come il cartone animato sovralimentato e iper-adrenalinico di un Dean Moriatry reintegrato a Wall Street, sempre al massimo. Invece chi ha avuto a che fare con le droghe pesanti, come utilizzatore o amico di, sa che lo speed metanfetaminico viene fatto pagare a caro prezzo, anzi, con l’uso prolungato scompare del tutto e ci si riduce una larva. Invece lui e i suoi pard niente. Sempre a mille all’ora, con belle facce rilassate e salutiste. Sembrano lo spot della dieta tisanoreica.
Si sono spente le luci e abbiamo pregato la Madonna di San Luca di risparmiarci un’altra ora e mezza di mania depressiva ossessiva.
Per fortuna il film ha sterzato verso un abbozzo di storia. Oppure era il nostro desiderio a farci accettare quello che passava il convento. Input positivi sono arrivati dalla colonna sonora, sontuosa, con pezzi di Elmore James, Bo Diddley, Howlin’ Wolf, Malcom McLaren, purtroppo appena accennati. Altri input consistevano nelle frequenti incursioni del teatro nel cinema, con scenette adeguate, addirittura comiche. Fatto sta che Jordan Belfort, il broker rampante e senza scrupoli interpretato da DiCaprio, inizia la sua caduta nella rovina, come deve essere in un film americano DOC. Un agente dell’FBI lo sorveglia, lo insegue per incriminarlo. Il personaggio si umanizza un po’, la droga sembra avere finalmente qualche effetto collaterale (irresistibile la scena di lui e il pard storico Donnie in overdose che sembrano Borat e il produttore quando si accartocciano nudi). Il matrimonio con la Barbie che ha sposato quando era al massimo va in frantumi, e lo spettatore si consola evocando la seconda parte di un film di ben altro spessore narrativo, Scarface di Brian De Palma, anche se non può fare a meno di rimpiangere Wall Street di Oliver Stone, che oggi sembra un filmetto all’acqua di rose, ma che almeno inquadrava lo sporco mondo della finanza americana in un contesto reale, e, a suo modo, non privo di denuncia. Invece The wolf of Wall Street non ha alcun contesto a parte l’indugiare fine a se stesso sul personaggio e la cosiddetta “perdizione” nel “male”. Un “critico” lo ha addirittura definito “punk” perché totalmente nichilista, un ritratto impietoso e amorale del mondo finanziario.
Amorale chi?
Arrivano i nostri è forse amorale? L’FBI che persegue il criminale che si è insinuato nel sistema etico americano senza fermarsi davanti a nulla e a nessuno, incurante della potenza e della ricchezza dell’indagato, e dei tentativi di corruzione, non è morale? Il corpo dell’America è sano, perché sa espellere le mele marce e alla fine il Bene trionfa. La Legge Americana è al di sopra delle parti. Perché questa è la forza dell’America. Vecchia storia. Vecchia retorica.
Quindi la risposta alla domanda non può essere che: sì, in questo film il regista Martin Scorsese si è bevuto il cervello. Anche se il successo planetario di sicuro non gli mancherà.
Ma può consolarsi.
Non è certo l’unico.