di Mauro Baldrati
Il regista Paul Schrader e lo scrittore-sceneggiatore Bret Easton Ellis sono un’accoppiata decadente. Puro decadentismo storico occidentale, epica delle persone-oggetto, incroci tra larve lacerate dal gelo di vite fallite e oggetti dominati dalle proprie ossessioni, dall’impotenza affettiva. The Canyons è un OGM filmico di queste tematiche, di questa estetica, di questa immobilità. E’ ambientato nei dintorni di Los Angeles, villa con vista sull’oceano, nel downtown di un’umanità giovanile, rampante, post-yuppie, ossessionata dal successo e dal “vizio” ma anche terrorizzata dalla povertà. In questo l’astuto Easton Ellis sembra perfettamente a proprio agio, come un luccio in uno stagno.
Christian (l’attore porno James Deen) è un figlio di papà che si diletta nella produzione, ma soprattutto nei filmini che realizza lui stesso col cellulare (oggetto onnipresente nel film), dove “recita” la sua ragazza Tara (Lindsay Lohan) con altri uomini. Non è geloso di questi ménage a tre o a quattro, anzi, vedere Tara “guardata” o toccata da altri maschi lo eccita. La loro vita va avanti piatta, tra orgette, peep show casalinghi, e bicchieri di vino bianco, che secondo la retorica hollywoodiana è la bevanda nazionale dei wasp. La situazione si complica quando entra in scena un ragazzotto palestrato, Ryan, aspirante attore che sbarca il lunario con lavori umili, il quale è anche il fidanzato dell’efficiente segretaria-assistente di Christian. Dovrebbe recitare in un b-movie di genere horror, ma la cui realizzazione è incerta. La variabile distruttiva è costituita dal fatto che Ryan e Tara sono stati amanti, in un passato recente. Christian sospetta, sente che tra i due serpeggia qualcosa. E qui diventa morbosamente, violentemente geloso. Per Christian Tara può accoppiarsi con sconosciuti, ma per nessun motivo può sentirsi attratta da un altro. Il film procede tra scene di sesso straordinariamente poco intriganti, ricerca di un piacere che non è tale, ma solo ripetizione, farsa, nello scenario di una città cosparsa di sale cinematografiche abbandonate, sorta di monumenti spettrali alla morte di qualsiasi espressività, fino alla conclusione all’insegna di una violenza banale e gratuita.
Il fulcro creativo del film è costituito da due elementi: la regia incostante, disconnessa, con una fotografia a tratti curiosamente naif, quasi tirata via, da filmetto amatoriale a basso costo. Alla fine risulta una componente interessante, che stupisce, nella piattezza del “vizio” a sangue freddo e del vuoto centrale delle vite dei protagonisti. E poi da Lindsay Lohan, un’attrice molto espressiva, dotata di un talento naturale, che si collega col suo personaggio reale. Nella vita è stata più volte arrestata per guida in stato di ebbrezza, obbligata a disintossicarsi dall’alcol, a prestare servizio nei servizi sociali, poi è fuggita, riacciuffata, di nuovo fuggita, nuovamente in galera per il furto di un gioiello, e così via per anni. Non è “bella” secondo la morfologia classica hollywoodiana, ogni tanto ha la faccia gonfia, le gambe costellate di lividi, un corpo in bilico tra il crollo alcolico e un fascino magnetico. Sorprende la sua capacità di cambiare, di essere sciatta, raffinata, ricercata e splendida anche con un rossetto sbavato e il trucco pesante.
La coppia Oliver Stone–Don Winslow è altamente conflittuale, viscerale, violentissima. Le belve, come The Canyons, è ambientato in un contesto giovanile californiano, oceano, sole, villa, soldi. Ma rispetto al film di Schrader–Easton Ellis non vi è alcun decadentismo, nessun indugio sull’incomunicabilità e sulla sterilità della ricchezza. Chon (un ex guerriero seal), Ben (pacifista, che devolve in beneficenza i proventi dei suoi traffici) e la bellissima “O” (diminutivo di Ofelia) coltivano una ganja idroponica stratosferica, con la quale guadagnano un sacco di soldi. Conducono un ménage a tre, ma senza gelosie né compiacimento nel “vizio”, anzi, stanno bene, sono soddisfatti e, si potrebbe dire, felici. Lavorano, si divertono, si amano. Si sentono vivi, fumano i “purini” (joint o pipette senza tabacco). Si godono il mare e il sole. Ma Il Male è sempre in agguato, sempre in osservazione. Un potente e spietato cartello della droga messicano vuole mettere le mani sul piccolo ma poderoso commercio dei tre. L’indipendenza non è tollerata, mai. Iniziano le minacce, le aggressioni, i ricatti, tra terrificanti snuff-movies, omicidi efferati, torture, gestite dal criminale-macellaio Lado (Benicio del Toro), padre di famiglia che come mestiere decapita, smembra, sbudella. E’ una guerra senza esclusione di colpi, col coinvolgimento del poliziotto corrotto John Travolta, che ha come posta la sopravvivenza, e la libertà, del trio Chon-Ben-O. Vi è un conflitto aspro e sanguinario tra Bene e Male, dove il Bene non è la Morale Americana, né il lieto fine ad ogni costo, ma l’accettazione della vita, del piacere, della libertà. Pienamente inserito in un genere thriller-duro, con esplosioni pulp, Le belve si porta dietro istanze rimodernizzate di anarchia e alternativa libertaria anni ’60, ultraviolenza anni ’70, il tutto girato con una regia spavalda da Oliver Stone, a sua volta contaminatore di stili e tonalità, cineprese guizzanti e brusche, che fa dimenticare alcuni film-baraccone a dir poco mediocri (come Alexander), e filtrato, governato dalla sceneggiatura magistrale, benché non del tutto priva di buchi, di Don Winslow.
I due film condividono i finali piuttosto ambigui, quasi insicuri, nel loro voler essere “aperti” e non perfettamente rassicuranti: manierista e abbastanza scontato in The Canyons, con la pretesa ad ogni costo di essere cattivi, scorretti, viziosi; doppio in Le belve, uno per gli ottimisti e uno per i pessimisti; e due personaggi femminili di grande spessore: la Lohan in The Canyons e Salma Hayek in Le Belve. Salma interpreta Helena Sanchez, la “regina” del cartello, donna meta-criminale che non esita a condannare a morte i nemici con estrema crudeltà, eppure si intenerisce quando guarda “O” prigioniera, o parla con lei, perché le ricorda la figlia. Assassina splatter sentimentale, passa dal fascino all’ironia, dalla minaccia al paradosso, e proprio come con Lindsay Lohan, non riusciamo a staccare gli occhi da lei.
Insomma, la coppia Stone–Winslow è altra merce rispetto a Schrader-Ellis, non c’è storia.
Ma se mettiamo di fronte Lindsay Lohan con Salma Hayek la faccenda si complica alquanto.
E il gioco si fa duro.