di Andrea Spotti
A poco più di tre mesi dalla sua detenzione Mario Gonzalez è stato condannato. Lo studente anarchico, detenuto a margine del corteo contro la riforma educativa e in memoria della strage del ’68 in Piazza Tlatelolco dello scorso 2 ottobre, è stato ritenuto colpevole del reato di “Attacco alla Pace Pubblica” dalla giudice Marcela Arrieta, che lo ha sentenziato alla pena di 5 anni e 9 mesi da scontare nel carcere di Santa Martha Acatitla, sito nella zona sudorientale della capitale messicana. La sua vicenda, attorno alla quale è cresciuto in questi mesi un movimento di solidarietà dentro e fuori i confini nazionali, è indicativa del clima repressivo che si vive a Città del Messico dall’insediamento del sindaco Miguel Angel Mancera a questa parte.
In sintonia con il presidente Enrique Peña Nieto, che sin dall’inizio del suo mandato, cominciato nel dicembre 2012, ha dovuto far fronte alle proteste popolari, il governatore di centrosinistra sta portando avanti una governance autoritaria che ha ridotto drasticamente gli spazi di agibilità politica per i movimenti sociali nella capitale. Questi, infatti, sono sottoposti a una vera e propria persecuzione poliziesca e giudiziaria, la quale, secondo quanto denunciano varie organizzazioni per la difesa dei diritti umani, rischia di mettere in discussione le stesse libertà costituzionali.
Arrestato su un autobus pubblico mentre si recava al corteo insieme ad altri otto compagni, Mario rappresenta un classico caso in cui le autorità si occupano di costruire il colpevole a tavolino. Quello dei giovani in questione, in altri termini, è stato un arresto preventivo fatto con lo scopo di fornire un capro espiatorio all’opinione pubblica alla fine dell’ennesima manifestazione terminata in disordini e duramente repressa dalla polizia locale che, per l’occasione, era guidata personalmente dal primo cittadino.
Noti all’autorità per la loro partecipazione alle lotte in difesa della scuola pubblica e per il loro attivismo all’interno di organizzazioni studentesche d’ispirazione anarchica, i fermati si prestavano perfettamente ad essere usati per svolgere il ruolo dei “violenti di turno”. Il contesto è quello di una massiccia campagna di criminalizzazione delle componenti più radicali dei movimenti messicani, dai professori della CNTE (Coordinadora Nacional Trabajadores de la Educación) al Bloque Negro, orchestrata ad arte da governo locale e media mainstream, e orientata a creare un clima di tensione intorno alle mobilitazioni contro le riforme strutturali che hanno animato la città durante tutto l’autunno.
Dello studente ventitreenne e della sua odissea giudiziaria si era occupato Fabrizio Lorusso un paio di mesi or sono, documentando il drammatico sciopero della fame che stava portando avanti per chiedere la propria liberazione. Grazie a questa forma di lotta, Mario è riuscito a rompere la cappa di silenzio e indifferenza che aleggiava sulla sua ingiusta detenzione. Tuttavia, dopo 56 giorni senza ingerire alimenti, è stato costretto a interrompere il digiuno a causa del drastico deterioramento delle sue condizioni di salute che minacciava di mettere a repentaglio la sua stessa sopravvivenza. Dal 22 novembre è ricoverato nell’ospedale Torre Medica, da dove verrà trasferito a Santa Marta (uno dei penitenziari più violenti della città) appena recuperate le forze.
A questo proposito, durante la conferenza stampa del 15 gennaio scorso, Raquel Ramirez, appartenente alla squadra di medici del movimento della Sexta zapatista che segue il caso, ha denunciato la scarsa qualità dell’attenzione clinica prestata a Mario da parte del personale medico dell’ospedale. Quest’ultimo, oltre a violare costantemente il diritto all’informazione del paziente e dei suoi familiari, omettendo di comunicare i risultati delle analisi cui viene sottoposto, pare infatti più intenzionato a farlo aumentare di peso per inviarlo il prima possibile dietro alle sbarre, che a fornigli un’alimentazione adeguata alla sua condizione. Il risultato di questa scelta nutrizionale è che la massa grassa nel corpo di Mario cresce molto di più di quella muscolare, il che, lungi dal rappresentare il percorso corretto per recuperare il peso-forma del giovane, potrebbe complicare ulteriormente il funzionamento del suo metabolismo, già colpito da una pancreatite acuta e reso vulnerabile dall’abbassamento delle difese immunitarie provocato dallo sciopero della fame.
Se l’arresto è avvenuto in violazione di ogni garanzia (gli imputati hanno dichiarato di essere stati per ore vittime delle torture fisiche e psicologiche praticate dagli agenti, prima di essere presentati al pubblilco ministero), il processo ha avuto poco a che fare con i crismi stabiliti dal cosidetto stato di diritto, come denunciato dai legali di Mario, Guillermo Naranjo e Lizbeth Lugo, della de la Liga de Abogados Primero de Diciembre. Dal loro punto di vista, il percorso processuale è stato caratterizzato da molte “anomalie e irregolarità”, oltre ad essere stato viziato ab origine dalla volontà politica di dare un castigo esemplare a Mario al di là della sua effettiva responsabilità.
In effetti, l’intero castello accusatorio si basa esclusivamente sulle contraddittorie testimonianze dei poliziotti che hanno effettuato gli arresti i quali, dopo aver inizialmente dichiarato di essere stati testimoni oculari dei danneggiamenti provocati dal presunto lancio di artefatti esplosivi da parte degli imputati, hanno poi cambiato versione, sostenendo invece di essere giunti sul posto solo dopo aver ricevuto la chiamata di un automobilista, di cui si sono in seguito perse le tracce. Anche la criminalizzazione mediatica, inoltre, ha inciso nel processo. Tanto che tra gli elementi citati per giustificare la “pericolosità sociale” di Mario, e dunque la necessità della sua detenzione preventiva, si trovano anche alcuni servizi giornalistici di TvAzteca e MilenioTv. Insomma, dal punto di vista della difesa, l’unica cosa che il processo è riuscito a dimostrare è l’estraneità di Mario e gli altri processati ai reati di cui li si accusa.
Nonostante non abbia rappresentato una sorpresa per il giovane avvocato, la sentenza è “assurda e contraddittoria”, dal momento che condanna l’imputato per un reato che implica l’aver provocato danni a cose o persone senza però riuscire a dimostrare che i presunti vandalismi abbiano effettivamente avuto luogo e che, proprio per questo, è costretta ad assolvere Mario dall’obbligo di risarcimento dei danneggiamenti provocati (al contrario di quanto abitualmente accade in situazioni del genere). Ma non solo. La sentenza è anche “indignante” e “contraria al diritto”; poiché si accanisce nei confronti dello studente castigandolo con una pena decisamente eccessiva, se si considera che si tratta di un reato non grave e della sua prima condanna.
Questo accanimento, d’altra parte, si giustifica con l’intenzione – tutta politica – della giudice di impedire la richiesta di pene alternative e imporre la detenzione carceraria come unica opzione possibile. Contro questa prospettiva, i legali di Mario presenteranno appello, anche se non si dichiarano fiduciosi nell’autonomia del Tribunale Supremo di Giustizia del Distretto Federale (TSJDF), il quale ha dimostrato di subordinare la sua azione agli interessi politici del capo del governo della capitale.
Quello di Mario, purtroppo, non è un caso isolato. Altre condanne a 5 anni e nove mesi per il reato di Attacco alla Pace Pubblica (frutto di processi altrettanto discutibili secondo gli avvocati difensori) si sono abbattute sul fotografo indipendente Josè Alejandro Bautista, arrestato da un gruppo di agenti in borghese mentre documentava la mobilitazione del 2 ottobre; e su Rigel Barrueta, fermato invece durante il #1Dmx. A questi verdetti, bisogna poi aggiungere i quasi tre anni più multa appioppati agli studenti Gonzalo Amozurrutia, Pavel Noriega e Juan Velàzquez, detenuti all’interno di una stazione della metro, a conclusione della giornata di mobilitazione del #1S. Sono in attesa di giudizio, infine, circa trenta imputati con storie simili (alcuni dei quali si trovano in stato di privazione della libertà) che a breve dovrebbero ricevere la sentenza per gli stessi capi d’accusa e per i quali, stando le cose in questi termini, è difficile essere ottimisti.
Al di là della questione giudiziaria, è l’insieme della strategia di governo dell’amministrazione Mancera a preoccupare movimenti sociali e organizzazioni per la difesa dei diritti umani (tra gli altri, l’Associazione Nazionale Avvocati Democratici, Article 19, Limeddhh e Centro Prodh). In rotta con la tradizione progressista della città, il suo governo sta nei fatti lavorando alla normalizzazione dell’anomalia rappresentata dalla capitale – storicamente posizionata all’opposizione rispetto al governo centrale – per inibire la possibilità stessa della protesta, nel pieno della stagione delle (contro)riforme strutturali lanciata dal presidente Peña Nieto, il cui stampo liberista ha prodotto e produce mobilitazioni che hanno finito spesso per invadere le strade della metropoli, principale punto di visibilità delle lotte nel paese.
L’atteggiamento aggressivo e provocatorio messo in campo dalle forze dell’ordine locali durante i cortei (che quasi sempre finiscono con numerosi feriti e arresti indiscriminati); oltre che la scelta di bloccare il libero accesso delle manifestazioni a Plaza de la Constituciòn, cuore pulsante della città, trasformata nel giro di un solo anno in un recinto invalicabile per i movimenti, sono esempi concreti del radicale cambiamento nella gestione del conflitto operato dall’amministrazione di Mancera.
A questa svolta nella gestione della piazza, corrispondono le trasformazioni legislative messe in essere dal parlamento locale, come il Protocollo di Controllo delle Moltitudini, approvato in seguiro agli scontri di piazza del primo dicembre 2012, e la recente riforma del codice penale della capitale, i quali aumentano le pene per i reati legati a manifestazioni e proteste, allargando i margini legali per l’intervento repressivo da parte delle forze di polizia.
Vanno segnalate, infine, due leggi che si propongono di regolare lo svolgimento delle manifestazioni a Città del Messico, proposte da un deputato del partito di destra, il PAN (Partido Acciòn Nacional), e dallo stesso capo del governo cittadino, con l’obiettivo generale di imporre dei limiti alla possibilità di organizzare mobilitazioni nella capitale del paese. Si va dalla messa al bando dei blocchi stradali, alla proibizione di manifestare in zone specifiche della città, come il centro storico e le principali arterie cittadine, dal divieto di svolgere iniziative prima delle 11 e dopo le 18 a quello di organizzare proteste contro leggi già votate dal parlamento, per fare solo qualche esempio.
Questa situazione, con la quale si sta cercando di sancire a livello legale quanto imposto di fatto nel corso degli ultimi mesi a suon di manganellate, lacrimogeni lanciati ad altezza uomo, denunce e sentenze esemplari, non promette nulla di buono per il futuro della democrazia e della partecipazione a Città del Messico e nel resto del paese, poiché rischia di mettere in discussione l’esercizio di diritti fondamentali quali quello all’opinione e alla manifestazione del dissenso da parte della cittadinanza.