di Girolamo De Michele
[Questo testo è stato pubblicato come “Pre-Fazione” al libro di Sergio Maglio Taranto new wave. Dalla byte generation al Great Complotto (Scorpione Editrice, Taranto 2013, pp. 204, € 16.00). Il libro è introdotto/concatenato dal video Taranto new wave].
Now I’ve heard there was a secret chord
That David played, and it pleased the Lord
But you don’t really care for music, do you?
Leonard Cohen, Hallelujah
1. Spellbound
“You hear a laughter cracking through the wall
It sends you spinning You have no choice”
(Siouxie and the Banshees, Spellbound)
Ma chi gliel’avrà fatta fare, a Sergio Maglio, di aprire il vaso di Pandora della memoria e far volare fuori quei pezzi di carta, quelle foto, quei versi, quelle memorie di una stagione all’inferno? Non è infilando nella piaga il dito intinto nella tintura di iodio che si fanno i libri di successo, oggi che Taranto è diventata una città della quale tutti hanno detto che… Non poteva anche lui fare un rassicurante copincolla di cose già scritte, invece di riavvolgere lo spaziotempo e farlo scorrere dal presente al passato? E soprattutto, non poteva evitare di mandarmi un anno fa questo manoscritto dentro il quale, come nella macchina scacchistica di Poe, si nascondeva il nano gobbo dei ricordi?
No: non poteva. Per dirla con García Márquez, fa’ che arriva sempre un guastafeste a ricordare ciò che tutti cercano di dimenticare. E a chiederti di scriverci sopra qualcosa, con il cuore in mano e la tastiera bagnata di sangue.
E come si fa a scrivere della New Wave ‘mbra le cozze, senza riaprire il quaderno della nostra Spoon River, senza ricordare i fratelli che non sono più fra noi – Giorgio caduto in un fosso, e Virus e Franco portati via dalla peste, e Peppe e Samuele e Laura morti in uno schianto, e… Rain on You, fratelli e sorelle: per voi ci sarà sempre Jeff Buckley – Maybe there’s a God above – a cantare un hallelujah.
La New Wave, dunque. Quella che nelle storie della musica, ordinate come i grani di un rosario, arriva dopo il punk, che arriva dopo il rock. Ma a Taranto, il punk non c’è stato. E, in fondo, neanche il rock. C’erano nicchie, amici che si riunivano nelle case attorno a un piatto che ruotava, sette devote a Canterbury e alla Corte del Re Cremisi, pacchi di dischi comprati per corrispondenza: ma a farla da padrone erano, fuori tempo massimo, ancora gli America e i Genesis. Solo una minoranza si nutriva dell’utopia di un mondo nuovo che avremmo costruito, di magnifiche sorti e progressive che anche il rock ci raccontava. C’è ancora tempo per il giorno, quando gli occhi si riempiono di pianto, cantavamo senza sapere che quel tempo era agli sgoccioli, e i giorni del pianto erano alle porte. A Taranto, come altrove.
La Brith Invasion, l’arrivo della New Wave, ha significato questo, in Italia come a Taranto: la presa di coscienza della fine del sogno di un assalto al cielo. Schiacciato in vicoli sempre più stretti, tra lo Stato che alzava il tiro e un’altra parte che alzava i muri usando il cemento fornito dallo Stato, il movimento che voleva tutto e subito aveva abdicato a un potere che aveva le mani pulite solo perché a sparare mandava i gendarmi, e a mettere le bombe i fascisti. Billy the Kid era stato ucciso, avevano vinto i Pat Garrett, i pentiti, quelli buoni a vuotare un sacco che non avevano mai riempito. Quelli bravi a spiegarci che il mondo non può essere cambiato, solo amministrato. Un mondo sul quale il punk insegnò a sputare, a noi che avevamo Anarchy in U.K. e My Generation scritte sul banco di scuola e facevamo incazzare la professoressa (e adesso che sui libri di storia quelle canzoni sono riportate tra i documenti, mi consenta, professoressa: avevamo ragione noi!).
A Taranto, in un’epoca nella quale le informazioni non circolavano più attraverso il circuito politico, ma attraverso quello musicale – continuazione della politica con altri mezzi – toccò alla new wave prendersi la responsabilità dell’unico gesto etico possibile davanti a questo mondo: vomitarci sopra.
Leggete i testi di Siouxie, dei Joy Division, dei primi Cure, dei Sound. Leggete i testi, i documenti, i poemi che troverete in questo libro. Provate a guardare una luna piena senza sentire Jan McCulloch cantare Killing Moon. Riascoltate le sonorità basse e cupe di quei dischi, di quei gruppi, e capirete.
Lo squallore delle periferie suburbane e delle città industriali; la precarietà come condizione permanente; la depressione e il panico come cifra sociale di una società irretita dalle passioni tristi. Il punk aveva gridato No Future – non preoccuparti del tuo futuro, tanto non ce l’hai! –, ma non aveva saputo (tranne qualche singolo caso: i Dead Kennedys di Jello Biafra) andare oltre l’espressione di superficie; la new wave articolava l’urlo strada per strada, quartiere per quartiere, scrostando dai muri ogni residua patina di ottimismo (che restava buono per i parrucchieri di Sheffield). Lo spazio metropolitano veniva compreso e rappresentato come una gigantesca, onnipresente fabbrica, le cui patologie invadevano come metastasi ogni angolo del sociale: e le tragedie personali di Ian Curtis e Adrian Borland ne divennero la rappresentazione più emblematica. Non è un caso che il gruppo forse più amato, a Taranto, sia stati The Sound, altrove misconosciuto e malcompreso, nella sua cupa grandezza: lo capì anche Adrian Borland, quando all’apertura di un concerto bolognese si trovò un manipolo di tarentini che attaccarono I can’t escape myself con mezza battuta d’anticipo: e concesse loro, stupito, l’intera prima strofa, prima di cominciare a cantare.
Fu una liberazione: perché neanche quel rock che a Taranto si ascoltava sì e no aveva detto con tanta chiarezza che questo mondo fa schifo. Cos’era, il mito della classe operaia che avrebbe liberato il mondo dallo sfruttamento, se non un nascosto elogio del progresso e dell’industria? Era una forma di asservimento del movimento operaio, di subordinazione ai movimenti del capitale, interiorizzati come necessità economica: fino alla conseguente distruzione di quel movimento operaio ufficiale che anche a Taranto era servito, nel ’77-’78, come cane da guardia del capitale. Forse per questo a Taranto “Rosso”, assieme a “Primo Maggio” l’unico giornale dentro il movimento (otre ca agitprop: da ‘u spedale vuè ‘cchianne ‘a salute?) capace di aprire gli occhi su quanta merda ci fosse nella condizione di assoggettamento alla catena di montaggio, non era arrivato.
E a Taranto la fabbrica significava Italsider e Cementir: Siderlandia.
2. I can’t escape myself1
“I’m sick and I’m tired of reasoning / just want to break out shake off this skin / I can’t escape myself”
(The Sound, I can’t escape myself)
Ma come si è arrivati a questa situazione? Per capirlo, bisogna fare un passo indietro, perché Taranto non è descrivibile con le chiavi di lettura della mancata o incompiuta modernizzazione del meridione: mentre le realtà meridionali “saltano” direttamente dalla realtà urbano-rurale all’affermazione del terziario, Taranto rappresenta un caso da manuale di sussunzione della società all’interno della fabbrica. Lo si capisce focalizzando l’attenzione sul “metalmezzadro”, quella strana anomalia che Walter Tobagi colse in un’inchiesta su Taranto nel 1979: «il vero protagonista sommerso si chiama metalmezzadro. È metalmeccanico, lavora nello stabilimento Italsider grande due volte e mezzo la città. Abita nei paesi della provincia e trova il tempo per coltivare il pezzo di terra» (Walter Tobagi, Il «metalmezzadro» protagonista dell’economia sommersa al Sud, “Corriere della sera”, 15 ottobre 1979).
Nella stessa inchiesta, Tobagi coglieva «la “contraddizione” tra l’enorme concentrazione industriale di Taranto e il vuoto che c’è attorno». Contraddizione esemplificata dalla vertenza dei lavoratori delle ditte appaltatrici, risolta con l’uso consociativo e assistenziale della cassa integrazione concordato coi sindacati: «l’Italsider assicura una discreta quota di benessere medio, ma non ha determinato quel decollo della regione che molti speravano quando si gettarono le fondamenta di questa cattedrale della siderurgia. Le spiegazioni sono tante: mentre cresceva la fabbrica nuova, decadevano i cantieri navali e l’arsenale, che furono la prima base industriale della città».
Tobagi aveva già colto le linee essenziali del rapporto tra città e fabbrica: captazione della ricchezza sociale all’interno della fabbrica, con l’impoverimento delle altre risorse del territorio; mancata restituzione al territorio della ricchezza prodotta; attitudine consociativa dei sindacati — che si espresse in particolare nel fornire al PCI i servizi d’ordine utilizzati per spazzare via dalle piazze il movimento, indebolito dall’assenza di una componente studentesca (l’assenza di un’università costringeva all’emigrazione i diplomati che non entravano in fabbrica) e dalla moderazione del ceto operaio.
Aggiungiamo altri due elementi, interni allo sviluppo edilizio. La città diventa oggetto di un faraonico piano regolatore che trasforma in terreno edificabile l’intera area tarantina, dando l’avvio a una speculazione che si è concretizzata nella costruzione di falansteri e quartieri-ghetto, con la conseguente deportazione in orribili periferie (il cui governo, negli anni Ottanta, è stato garantito dai clan malavitosi locali) degli abitanti dei quartieri popolari lasciati in malora – prima tra tutti la Città Vecchia, e la creazione di un potente ceto di costruttori, intrecciato a filo doppio con la malavita locale. L’emblema dell’arroganza di questo ceto è il grattacielo costruito sul percorso del lungomare che, se avesse raggiunto il faro di San Vito abbracciando il Mar Grande di levante, sarebbe stato di straordinaria bellezza.
Accanto a questa speculazione “borghese”, una selvaggia speculazione “proletaria”, incarnata dall’operaio urbano che si costruiva, spesso con le proprie mani e in regime di abusivismo edilizio, la casa al mare, devastando un litorale tutto dune di sabbia e pinete marine: l’individualismo proprietario, inoculato dalla fabbrica nell’operaio-massa tarantino, si è concretizzato in uno scempio ambientale che ha cancellato la possibilità di sviluppare un’industria del turismo paragonabile a quella del “rinascimento del Salento”.
In questo modo si crea a Taranto una peculiare composizione di classe, senza soluzione di continuità: il metalmezzadro fa da giuntura tra il contadino e l’operaio; l’operaio metalmeccanico che allarga la fascia di reddito con gli straordinari assume lo stile di vita del piccolo borghese proprietario; la piccola borghesia commerciante avvicina il proprio stile alla borghesia parassitaria, quella che scimmiotta la borghesia settentrionale intravista nelle figure di dirigenza e controllo della fabbrica (ma isolata dal contesto urbano). Il collante di questo continuum sociale è la Fabbrica, il Moloch magnifico e progressivo che nessuno mette in discussione.
Negli anni Ottanta, la crisi della siderurgia apriva le porte all’unica alternativa sociale disponibile alla miseria: la produzione illegale di reddito e la formazione di una “seconda borghesia” malavitosa che si è aggiunta alla “prima”, colmandone il deficit di forza sociale dapprima attraverso un’accumulazione originaria di capitale derivante dal controllo e dall’espansione, in regime di monopolio, del mercato delle droghe leggere (spazzando via il freak che tornava dall’India o dal Marocco) e pesanti (diffondendo dapprima l’eroina, e poi la coca), e dell’imposizione di una governance criminale dopo una feroce guerra intestina; e poi attraverso il controllo degli appalti, dei sub-appalti e dell’edilizia, all’assorbimento all’interno della borghesia locale di soggetti provenienti dalla circolazione “legale” del capitale “illegale” (cioè dal riciclaggio del denaro “sporco” in attività formalmente “pulite”), sottoposta a quella particolare forma di controllo che è la governance del debito — dall’usura al gioco d’azzardo: non dimentichiamo che la Puglia è stata la porta d’ingresso di quella autentica peste dell’immaginario neo-borghese che è il burraco. Le giunte comunali Cito e Di Bello troveranno linfa e ragion d’essere in questo humus, mentre l’inquinamento del Mar Piccolo, determinato sia dagli scarichi della fabbrica che dalla dispersione di materiale inquinante durante le attività portuali, infligge un ulteriore colpo alla sopravvivenza dell’economia ittica e alla mitilicoltura.
È in questo contesto sociale che verrà fuori Giancarlo Cito, un ex mediocre picchiatore fascista (più fuggiasco che inseguitore) dalla reputazione esagerata a dismisura dalla chiacchiera indigena che favoleggia di piazze insanguinate, interno, come i processi hanno attestato, alla malavita locale: la cui figura resta enigmatica come la venuta degli Hyksos, se non si coglie la composizione delle forze sociali e degli interessi che lo hanno sorretto, e il suo legame col sistema-fabbrica al quale si dichiarava, falsamente, estraneo, e al quale è invece organico.
È questa la città sulla quale la new wave eserciterà una critica senza sconti.
3. Grinding Halt
“Everything’s coming to a Grinding Halt”
(The Cure, Grinding Halt)
A Taranto non era arrivato “Rosso”: ma arrivò la “Makina Metropolitana”.
E non arrivò dal nulla.
L’anno chiave è il 1980. Racconta, questo libro, del concerto di Lou Reed ad Avellino, che testimoniava un’insaziata fame di musica: il sottoscritto calcolò con cura i tempi della preparazione per l’esame di maturità, per esserci. Altri tarentini fuorisede (oggi li si direbbe cervelli in fuga), in quegli stessi giorni, scoprivano i Clash in piazza Maggiore. Poi i flussi cominciarono a intrecciarsi: chi partiva si incrociava con chi tornava, e con chi faceva avanti e indietro, socializzando le esperienze di una scena musicale che finalmente si riapriva ai grandi concerti – i Devo, i Bauhaus, i Pere Ubu, di nuovo i Clash. Eccetera.
Da questi incroci germinarono il Voltage Control, i Panama Studios2, la Makina Metropolitana, la mostra Taranto-Berlino. Era nata una generazione che tradiva le proprie appartenenze: il figlio dell’avvocato non sognava di fare l’avvocato, il figlio dell’operaio non sognava l’Italsider, e tutti e due, invece di sognare, suonavano, e suonando compivano la mossa fondamentale di ogni azione politica: tracciavano una chiara distinzione tra il proprio campo e quello avverso.
Qualcuno diceva: utopie, frikkettonate. Come oggi, davanti alla rivolta contro la fabbrica della morte e all’utopia di una città liberata dall’Ilva: squadrismo teppistico, idee masticate male e aria consumata, detriti del passato e rabbia implosa nel presente. E la fabbrica buona, quella che non inquina e non uccide, lo Stato che promuove un sistema industriale rispettoso della salute e della vita e non del profitto, invece, cos’è? Realismo lirico? L’avete mai vista, una fabbrica, una classe politica, uno Stato come quello di cui favoleggiano i riformisti sempre bravi a fare la critica del presente, ma a condizione che non cambi quel presente di cui abbisognano per poter fare la loro critica?
È un caso che, come scrive Sergio Maglio, «la porta che si stava cominciando ad aprire verso il mondo giovanile venne dunque precipitosamente chiusa, soprattutto per una scelta compiuta dalle istituzioni» (p. 168)? Che si possa ricondurre tutto al «distacco generazionale con le giovani generazioni, che essi [i politici e intellettuali tarantini] percepivano come inquietanti, problematiche e notevolmente ispide nei rapporti. Questi non erano più i giovani contestatori degli anni ’60 e ’70, bensì qualcosa di diverso, più oscuri, sfuggenti, imprendibili, imprevedibili e non classificabili nelle consuete categorie» (p. 120)? Che tutto dipenda dal cataldismo e dell’insularità dei tarantini, come se il carattere fosse un destino e non, anch’esso, una costruzione sociale?
L’incontro-scontro che avvenne nel Caffè, in coda alla mostra Taranto-Berlino, tra una qualificata rappresentanza del ceto politico e intellettuale locale (compreso il futuro sindaco Battafarano) e questa strana bestia di cui qui si narra, dimostrò che non c’era reale possibilità di dialogo – se non nelle pieghe di quelle intelligenze culturali, che il PCI locale ha sempre sfruttato e spremuto senza alcuna riconoscenza, timoroso di chi è capace di pensare con la propria testa – con una classe politica che considerava la propria missione quella di fare da gendarme e custode allo status quo. E nell’ottusa arroganza con la quale, alla richiesta di un centro sociale per combattere la diffusione dell’eroina, il più illustre (per retaggio politico-familiare) di quei burocrati rispose che «per combattere l’eroina non servono i centri sociali, basta il napalm sulle piantagioni e sui coltivatori di oppio» contiene già in sé tutte le ragioni della caduta libera nella quale stava per avviarsi la sinistra ufficiale jonica. Era la vigilia dell’apertura del processo per gli arrestati del 7 aprile: a Taranto i Masanielli erano ben accetti se cantati, a tre secoli di distanza, dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare, non se cercavano di sovvertire il presente.
«I giovani di Taranto – scrive nelle ultime pagine Sergio Maglio (pp. 170-171) – restarono così da soli a strusciarsi come sempre nella loro piazza, che però cominciò poco alla volta a mostrarsi sempre più rada e vuota, quasi avesse perso la vivacità speranzosa di un tempo. Restarono soli, quei ragazzi, senza i laboratori creativi che desideravano, senza i teatri ed i cinema che erano stati chiusi. Chi restò, poté vedere le menti migliori di quella generazione continuare a sconvolgersi il più possibile di canne, pere e sniffate senza speranza, assistendo da stanchi e spauriti spettatori alla spenta decadenza di una città che voleva diventare metropoli e che invece vedeva scappare la qualità della vita ed i suoi abitanti. Poté osservarli mentre guardavano muti lo spettacolo di una grande industria che si ristrutturava grazie ai tanti soldi pubblici per potersi graziosamente vendere, pochi anni dopo, a un boss privato per quattro soldi. […] E così, quella città priva di verde, di ossigeno, di speranza e di futuro – che era diventata il regno di grattini, scippatori, contrabbandieri e spacciatori – nel giro di pochi anni venne consegnata nelle mani del demagogo di AT6».
Rileggendo la mia storia in questo libro, ho capito, ancora una volta, che avevamo ragione noi. L’avevamo nel ’77, come nei primi anni ’80. Ma la ragione non basta averla: bisogna che te la diano. O che te la prendi, by any means necessary.
Oggi Taranto è, ancora una volta, davanti a un punto di svolta. La storia ha il vizio assurdo di ripetersi, se nessuno spezza le sue infami circolarità: ma può anche disegnare traiettorie sconosciute, se qualcuno ha la forza di tracciarle e percorrerle.
Questo libro è una scatola di attrezzi che vengono da un passato più attuale del presente in cui siamo impantanati: il valore di questi attrezzi dipenderà dall’uso che ne verrà fatto.
Nel frattempo, grazie a Sergio per averlo scritto, e a tutti quelli che ci sono dentro per esserci stati.
I did my best, it wasn’t much
I couldn’t feel, so I tried to touch
I’ve told the truth, I didn’t come to fool you
(Leonard Cohen, Hallelujah)
Questo paragrafo è tratto da Taranto: la città che non vuole morire a norma di legge, pubblicato su carmilla il 10 ottobre 2012. ↩
In questo video lo storico concerto dei Panama Studios del 5 agosto 1983. ↩