di Franco Pezzini 

TheMagicianMaugham[Il tema dell’edizione 2013 del ToHorror Film Fest ha riguardato controllo e paranoie da controllo. E proprio su questi argomenti e in collaborazione con il ToHorror è stata presentata la relazione che segue, nel corso del ciclo Le avventure del controllo organizzato dalla Libera Università dell’Immaginario di Torino. 

Introduzione: Aleister Crowley colpisce ancora 

La nostra storia inizia a fine autunno ai giardini del Luxembourg di una Parigi inizio secolo: un giardino da quadro d’epoca, coi ragazzini che corrono dietro i cerchi, le balie, i gentiluomini a passeggio lungo viali tappezzati di foglie in languido sbriciolare – o piuttosto da cartolina, perché il bozzetto che Somerset Maugham propone ai suoi lettori inglesi all’inizio del romanzo The Magician, 1908, è proprio quello elegante e un po’ di maniera che loro possono attendersi. Diciamolo subito, non stiamo parlando di alta letteratura e il romanzo Il mago, per quanto gradevole, intrigante e ben scritto, non è tra le opere “grandi” dell’Autore, ma un testo giovanile che quasi flirta col divertissement: e d’altra parte proprio il fatto che Maugham non sia considerato, e in effetti normalmente non sia, un autore di genere fantastico (e tanto meno di horror) ha permesso una fortuna di questo romanzo tra lettori di tipo diverso, e usi piuttosto a frequentare le sue commedie acri di pessimismo, con spaccati di costume cinici e ironici.

Un giardino di Parigi, dunque, in cui passeggiano chiacchierando due personaggi, uno anziano e freddoloso e l’altro giovane e rampante. Sono entrambi medici, e il giovane è amico di famiglia dell’anziano, che lo guarda con la tenerezza di un vecchio zio insieme ammirato e divertito. Ammirato perché a dispetto dell’età tanto giovane, Arthur Burdon è un notissimo chirurgo inglese nato in Oriente (si parla di un “Levantine merchant who was Arthur’s father”), di abilità prodigiosa, e che ha potuto consacrarsi totalmente alla medicina – lui stesso non lo nega – per una compiaciuta mancanza d’immaginazione e comunque di altri interessi. Ma l’anziano, il dottor Porhoët, è anche sinceramente divertito: perché ora nella vita di Arthur ha fatto irruzione la Bellezza, nel sembiante angelico dell’incantevole Margaret Dauncey, che oltretutto di interessi ne ha eccome – in particolare artistici –, completando così idealmente l’orizzonte prima un po’ limitato di Arthur. Porhoët non capisce soltanto perché i due non si siano già sposati: ma Arthur, con il suo solido buon senso, ha preferito che Margaret prima del matrimonio possa insieme coronare un sogno e acquisire maturità studiando arte per due anni in una scuola di Parigi. Il che ci porta, in termini di linguaggio fantastico, al tema-simbolo del periodo di prova: un rito di passaggio dove, al solito, troveremo un Custode della soglia, un mostro da affrontare.

Al contrario del giovane Arthur, il vecchio Porhoët che pure ha avuto i suoi successi avrebbe potuto fare molto più carriera, se non ne fosse stato distolto dalle proprie passioni erudite. Porhoët è un umanista curioso, con interessi che insoddisfatti dalle discipline tradizionali l’hanno condotto all’esoterismo:  come in fondo gli piace lasciar emergere con un pizzico di sussiego e di vanità gentile, su quel fronte ha un’enorme cultura e tra l’altro (scopriremo) una ricchissima biblioteca magica. Del resto Porhoët per nascita è bretone, e un anziano sapiente legato alla Bretagna conduce ovviamente i lettori di Maugham (che non sono abituali frequentatori dell’occulto e si muovono tra opere classiche) a un’ideale area-Merlino – tanto più che il suo pupillo si chiama Arthur, come Artù. D’altra parte Porhoët è tanto freddoloso perché è vissuto a lungo in Egitto, con tutto ciò di esotico, misterioso e magico che questo tipo di sfondo possa evocare.

Anzi, scopriamo che Porhoët ha pubblicato un volumetto sugli alchimisti dopo lunghe ricerche alla Bibliothèque de l’Arsenal a Parigi: e Maugham sa bene, dai suoi contatti parigini, che proprio all’Arsenal si conserva un importantissimo corpus di testi esoterici, per cui a cavallo tra Otto e Novecento la biblioteca è meta di pellegrinaggio degli occultisti. Pur avendo poco in comune con il mite bretone Porhoët, un altro celta – ma soprattutto celtofilo – di carattere ben più tignoso, l’esoterista Samuel Liddell MacGregor Mathers, uno dei leader dell’Hermetic Order of the Golden Dawn, aveva tradotto in inglese proprio dalla copia parigina dell’Arsenal, nel 1897, un testo poi molto utilizzato nei riti del suo Ordine: quel Libro della Magia Sacra di Abramelin Mago dove il narratore viene iniziato – guarda caso – proprio in Egitto. Questo testo avrà importanza incalcolabile nella storia dell’occultismo moderno: non ci sono prove che Maugham ne abbia sentito parlare o che i trascorsi egiziani di Porhoët ne trattengano memorie perché non è citato tra i testi magici in suo possesso, eppure dovremo tornare a parlarne. Per inciso la copia del libro manoscritta e in francese conservata all’Arsenal si può leggere oggi solo su microfilm perché l’originale è sparito.

Ovviamente, con il suo scettico pragmatismo scientista, il giovane chirurgo considera incomprensibile che un uomo stimabile come Porhoët perda tempo con simili interessi – e il vecchio lo sa benissimo. È però a questo punto che incrociano un bizzarro individuo – alto, massiccio, un cappotto chiassoso – che saluta compitamente Porhoët e si allontana. Un inglese come Arthur, spiega il vecchio, si chiama Oliver Haddo: l’ha conosciuto proprio all’Arsenal, ed è rimasto colpito dalla sua incredibile erudizione esoterica. Sa anzi di sfidare il fastidio del giovane amico riferendogli la pretesa di Haddo di essere nientemeno che un mago… The Magician del titolo, appunto. 

Questo l’inizio del romanzo di Maugham – ma la nostra storia potrebbe cominciare anche in un altro modo. Nella splendida e un po’ libera trasposizione cinematografica che ne trarrà Rex Ingram nel 1926, l’avvio della vicenda non è in un giardino ma proprio nello studio d’artista di Margaret nel Quartiere Latino: e partiamo subito nel segno del visionario, perché l’enorme statua con basamento cui la ragazza sta lavorando è il ritratto accucciato e grottesco del dio Pan. C’è qualcosa di eccessivo, onirico e torbido in quella colossale effige di sensualità ferina: inevitabile pensare a certe grottesche demoniache dell’espressionismo tedesco, e non a caso a interpretare Haddo è proprio uno dei mattatori del cinema espressionista, il grandissimo Paul Wegener che in Germania ha già offerto i propri tratti spigolosi, quasi asiatici alla maschera del Golem in due o forse tre film, e negli anni successivi riproporrà l’immagine del manipolatore nei ritratti dell’ipnotista Svengali e del folle scienziato di Alraune. E in effetti, dopo aver visto il film di Ingram, è soprattutto lo strabordante Haddo di Wegener a restarci nella memoria: autoritario, istrionico, magnetico, vanesio.

Ma torniamo allo studio, dove Margaret si ferma sotto la statua per alcune rifiniture: e troppo tardi l’amica Susie avverte che una crepa si è aperta silenziosa nella massa plasmata. La testa mostruosa rovina addosso a Margaret, tra l’orrore di Susie e di quanti si affrettano al soccorso: ma a salvare la ragazza dalla paralisi a seguito delle lesioni riportate è qui appunto il brillante giovane Arthur, astro della chirurgia, che si innamorerà di lei ovviamente corrisposto. Nel film (per motivi funzionali al lieto fine) manca il divario di età tra i due innamorati presente nel libro, dove Margaret è una ragazzina a cui il facoltoso e più maturo Arthur si trova sostanzialmente a far da tutore, prendendola a carico perché lei ignora di essere rimasta nullatenente: anzi, le chiede di sposarla solo quando, cresciuta ma non troppo, ha ormai scoperto tutto. Al contrario nel film la figura piuttosto convenzionale di maturo e paterno tutore della ragazza è identificata in Porhoët, il cui profilo di esoterista si consuma in poche suggestioni per renderlo una semplice spalla dell’eroe. Ma la scena dell’impatto drammatico della statua di Pan nella vita di Margaret, che trasfigura liberamente l’epifania del dio lubrico a un certo punto del romanzo, già prefigura quel che poco tempo dopo accadrà con la comparsa di un rapitore di ninfe persino più ingombrante, cioè il pessimo Haddo.  

Il libro, il film. Eppure la nostra storia potrebbe iniziare anche in terzo modo – e sempre a Parigi. La città dove, per inciso, Maugham era nato, nel 1874 – o meglio nell’ambasciata britannica di Parigi, quindi tecnicamente su suolo inglese, perché il padre che vi lavorava come avvocato voleva così preservarlo dalla coscrizione sotto bandiera francese in caso di conflitto. Solo alla morte dei genitori il giovanissimo Somerset si è trasferito in Inghilterra – con un impatto peraltro pessimo, per l’ambiente gelidamente vittoriano a casa dello zio tutore, e il sarcasmo dei compagni per la sua bassa statura e il cattivo inglese da immigrato. Recatosi poi a studiare in Germania, vi è stato svezzato sessualmente da un giovane connazionale di dieci anni maggiore di lui; e anche in seguito vivrà molto all’estero, per cui il mondo di questi inglesi trapiantati e comunque di viaggiatori in perenne esilio dal proprio passato – come Porhoët o lo stesso Arthur – è in qualche modo realmente il suo. Il Mago è (potremmo dire) il Camera con vista di Maugham, farcito del suo pessimismo, dei suoi traumi e delle insicurezze trascinate: e la terra straniera è insieme Paradiso perduto da cartolina e luogo della prova – anche sessuale, con quanto di plagio e manipolazione possa irrompere nella sfera dei sentimenti.

In ogni caso è solo alla riedizione 1956 di The Magician che Maugham, dopo quasi cinquant’anni, decide di premettere una breve nota per spiegare come è nato il romanzo. Il titolo del pezzo è A fragment of autobiography, e il punto di partenza è quel 1897 in cui il Nostro si trova a passare gli esami per la professione medica: certo, presto la abbandonerà, però tale dato professionale ci aiuta a collocare meglio il fatto che le due figure maschili positive del racconto, il giovane Burdon e il vecchio Porhoët siano entrambi medici. Votatosi alla scrittura, in seguito ad alcune buone prove, il giovane Somerset di poco denaro ma di belle speranze si trova accolto nei giri vivaci dell’intellighenzia culturale di Londra – la stessa che più avanti, a fronte dei suoi straordinari successi di commedie considerate leggere, prenderà invece a snobbarlo. È comunque in questa fase di euforia che lo scrittore, trentenne, decide di mollare tutto per trasferirsi nella più stimolante Parigi – prima in un albergo economico sulla Riva Sinistra, poi in un piccolo appartamento; e una delle primissime novità di un soggiorno che è in qualche modo anche un ritorno alle radici, riguarda l’amicizia con un giovane connazionale pittore, Gerald Kelly – non solo talentuoso e colto (ha studiato a Eton e Cambridge), ma umanamente vivo, loquace e pieno di entusiasmo. Ricordiamocelo, Gerald Kelly, perché la sua storia sembra intrecciarsi a quella del romanzo più di quanto normalmente si creda.

È proprio Kelly a parlare a Maugham del ristorante Le Chat Blanc in Rue d’Odessa, vicino alla Gare Montparnasse, luogo di ritrovo abituale di tutta una comunità di artisti; e lì il Nostro prende a recarsi tutte le sere per cena come un certo numero di altri habitué. Ci sono però anche presenze occasionali, che appaiono qualche volta per poi sparire: e tra questi Aleister Crowley, il famoso (o famigerato) occultista, amico di Kelly fin dai tempi di Cambridge e tornato a Parigi nel novembre 1902, subito dopo il temerario ma sfortunato tentativo di raggiungere la vetta del K2. Negli anni precedenti ha avuto varie avventure in tutto il mondo; e in particolare tra Londra e Parigi nella primavera del 1900 è stato partecipe di una delle più grottesche vicende della storia della magia, la grande rissa all’interno della Golden Dawn che vedeva schierato da un lato il vecchio capo Mathers – il già citato traduttore del Libro di Abramelin – con tutti i suoi sortilegi, e dall’altro i ribelli inglesi. Anzi era stato proprio Crowley a far saltare il tappo di una situazione già tesa, facendosi iniziare al Secondo Ordine – il livello avanzato della gerarchia magica della Golden Dawn – a Parigi dal grande capo Mathers contro il parere dei confratelli oltre Manica, e poi tentando senza fortuna di riconquistare per il vecchio leader la sede londinese dell’Ordine al 36 Blythe Road. Al rientro a Parigi nel 1902, il clima dei rapporti con Mathers sarà assai meno amichevole, fino a evolvere – si dice – in scontro magico diretto; e Crowley resterà in città fino all’aprile 1903, prima di ripartire per la propria tenuta di Boleskine in Scozia.

Sia come sia, il Crowley che sta passando l’inverno a Parigi e che Maugham conosce a Le Chat Blanc è un personaggio equivocamente fascinoso, un poseur sconcertante e magnetico che tracima col suo sarcasmo, la spocchia e i racconti pirotecnici. Divoratore bisessuale, capace insieme di scandalizzare e divertire con discorsi d’inarrivabile sconcezza e circonfuso di un alone sulfureo, fisicamente torreggiante e massiccio, Crowley sembra fatto apposta per ispirare uno scrittore: e per quanto a Maugham fin dal primo momento non piaccia, pure dovrà confessare che gli suscita interesse e divertimento. Crowley, spiega Maugham nella citata prefazione al romanzo, parla molto bene e sa farsi ascoltare, anche se l’aspetto attraente della prima gioventù è ormai sepolto sotto chili di troppo e l’incalzare della calvizie; e il suo modo di fissare le persone come passandoci attraverso con lo sguardo è particolarissimo. “Crowley raccontava storie fantastiche delle sue esperienze” racconta Maugham “ma era difficile dire se stesse raccontando la verità o semplicemente prendendoti in giro”. Infatti per quanto appaia fasullo in atteggiamenti e pretese, in realtà non lo è del tutto: “era bugiardo e sconvenientemente borioso, ma la cosa bislacca era che aveva fatto davvero alcune delle cose delle quali si pavoneggiava”. E non solo in salotto, dove viene stimato il più abile giocatore di whist mai visto, ma in incredibili avventure esotiche – compresa quell’ascensione al K2 senza particolare equipaggiamento che, pur non raggiungendo la cima, lo porta più in alto di chiunque altro in precedenza. Maugham mostra poi un certo apprezzamento per il Crowley poeta, con un innegabile dono per la rima e versi “non del tutto senza meriti” – certo molto influenzato da Algernon Swinburne e Robert Browning, ma in modo intelligente e non banalmente imitativo.

C’è poi, certo, il fronte della magia, su cui le affermazioni di Crowley restano ancora meno giudicabili. Tanto più che Maugham, pur documentandosi su un buon corpo di opere, dispone di informazioni da estraneo ai giri esoterici. Se a Parigi, constata, è esplosa una moda del magico e del satanico che lui sospetta nutrita dal successo del sulfureo romanzo di Joris Karl Huysmans, Là Bas, 1891, sembra però ignorare l’esistenza di tutto un mondo inglese dell’occulto: e persino quando fa raccontare ad Haddo la storia dell’evocazione dell’ombra di Apollonio da Tiana da parte del mago francese Eliphas Lévi in trasferta a Londra, 1854, trascura di dire che era stato accolto oltre Manica da un nome eccellente di politica e letteratura britanniche, quell’Edward Bulwer-Lytton che di occulto si dilettava e aveva anzi scritto uno dei più famosi romanzi esoterici di lingua inglese, Zanoni (1842). Tornando comunque a Crowley, Maugham ricorda ancora: “Durante quell’inverno l’ho visto varie volte, ma mai dopo aver lasciato Parigi per tornare a Londra. Un giorno, parecchio tempo dopo, mi arriva un suo telegramma che suona così: ‘Per favore manda subito venticinque sterline. La Madre di Dio e io affamati. Aleister Crowley’. Non l’ho fatto, e lui ha tirato poi avanti per molti disgraziati anni”.

È in ogni caso Crowley che Maugham sceglie per modello di Oliver Haddo, il mostruoso mago manipolatore del romanzo – che dell’occultista conosciuto a Parigi, del suo modo di parlare, dei vezzi e delle ironiche eccentricità, tanto ben osservate dallo scrittore, è in effetti un buon alter ego. Anche se dobbiamo sfuggire alla tentazione di sovrapporli in modo puro e semplice, perdendo di vista le peculiarità dell’uno e dell’altro. “Ho reso il mio personaggio – spiega Maugham – più impressionante nell’aspetto [compresa la misura dell’obesità], più sinistro e più crudele di quanto Crowley non sia mai stato. Gli ho attributo poteri magici che Crowley, nonostante quel che sostenesse, certamente non ha mai avuto. Comunque Crowley si è riconosciuto nella creatura di mia invenzione per quel che era, e ha scritto un’intera pagina di recensione al romanzo su Vanity Fair, firmandola ‘Oliver Haddo’. Non l’ho letta, e ora mi piacerebbe averlo fatto. Oserei dire che si trattava di un grazioso pezzo di insulti, ma probabilmente, come le sue poesie, intollerabilmente verboso”.

Maugham fa il disinvolto, ma l’articolo di Crowley che appare appunto a firma “Oliver Haddo” sulla rivista Vanity Fair il 30 dicembre 1908 con il titolo How to Write a Novel! (After W. S. Maugham) riguarda qualcosa di piuttosto preciso. Ciò che Crowley/“Haddo” contesta a Maugham è di aver inserito nel romanzo una certa quantità di materiale plagiato da varie fonti, da The Island of Dr Moreau di H.G. Wells, 1896, al romanzo The Blossom and the Fruit. A True Story of a Black Magician della teosofa Mabel Collins, 1887, ad alcune opere peraltro notissime del pensiero esoterico e della sua storia (The Kabbalah Unveiled del cabalista cristiano Christian Knorr von Rosenroth, nella traduzione dal solito Samuel Liddell MacGregor Mathers; la traduzione The Life of Paracelsus dell’opera dell’occultista e teosofo tedesco Franz Hartmann; Dogme et Rituel de la Haute Magie di Eliphas Lévi, tradotto in inglese da un altro autore legato alla Golden Dawn, Arthur Edward Waite, col titolo Transcendental Magic, its Doctrine and Ritual, 1896).

In effetti Maugham, rileggendo il romanzo dopo quasi cinquant’anni per scrivere la nota introduttiva, mostra di stupirsi di tutto il materiale sull’occulto che trasuda dalle pagine – “Devo aver passato giorni e giorni a leggere nella biblioteca del British Museum” – e proprio sull’uso di quelle letture punta il dito Crowley, collazionando stralci delle opere usate e passi del romanzo dove ne riemerge una traccia più o meno pesante. In seguito Crowley, nelle proprie Confessions pubblicate a partire dal ’29, racconterà che l’articolo era in origine più lungo e circostanziato, stigmatizzando la sua riduzione a due pagine e mezzo e sostenendo a proposito di Maugham che “Nessun autore, anche di mediocre fama, ha mai rischiato la propria reputazione per simili flagranti stupri” (cap. 63). A difesa dello scrittore si può facilmente osservare che i tre casi di imprestito più marcato denunciati nell’articolo entrano a far parte del romanzo all’interno di chiacchierate erudite sull’esoterismo quasi come documenti al testo, e non riguardano lo sviluppo della storia (i copia/incolla oggi tollerati sono spesso assai più pesanti); mentre negli altri casi si tratta di un normale influsso in termini di ispirazione. D’altra parte l’evidente livore di Crowley, che in chiusura ipotizza abbastanza gratuitamente simili plagi anche per altre opere di Maugham, e la stessa cattiva fama dell’accusatore contribuiranno a un generale disinteresse per tali lamentele – che insomma non recheranno allo scrittore alcun tipo di discredito.

Più interessante è ciò che Crowley, tornando sul tema, scrive ancora nelle Confessions. Certo, si compiace di constatare che “The Magician è stato nei fatti un riconoscimento del mio genio quale mai avrei sognato di ispirare. Mi ha mostrato quanto sublimi fossero le mie ambizioni e rassicurato su un punto che qualche volta mi preoccupava – se cioè il mio lavoro valesse la pena di fronte al mondo” (cap. 63 cit.). Ma rivendicando in realtà come proprie, solo poche righe prima, gran parte delle argute osservazioni di Haddo: e incalzando con la constatazione che “Maugham aveva preso alcuni degli eventi più privati e personali della mia vita, del mio matrimonio, delle mie esplorazioni, delle mie avventure di caccia, delle mie opinioni in fatto di magia e ambizioni e prodezze, e così via. Aveva aggiunto una certa quantità delle parecchie, assurde leggende che mi vedevano protagonista. Aveva poi cucito tutto questo insieme con innumerevoli striscioline di carta ritagliate dai libri che avevo detto a Gerald di comprare”. E se ne esce poi in una frase su cui le presentazioni di The Magician in genere non si sono soffermate abbastanza: “Ha mostrato che io abbia trattato mia moglie come Dumas mostra Cagliostro trattare la sua, al fine di produrre homunculi, creature umane artificiali” (ibidem) – e che meriterà in prosieguo qualche interessante riflessione a parte.

A voler fare proprio le pulci a Maugham, un’altra somiglianza si può in effetti ravvisare – ma anche in questo caso è dubbio che si possa parlare di plagio. In un’opera di Crowley scritta prima dell’uscita di The Magician, cioè nel romanzo satirico-pornografico Snowdrops from a Curate’s Garden, composto sotto pseudonimo nel 1904 e pubblicato privatamente pare nello stesso anno, il citato locale Le Chat Blanc degli incontri parigini con gli artisti diventa Chien Rouge (Cane rosso): e lì troviamo un personaggio a nome “L…”, modellato sull’autore, che gode di umiliare con arguto sarcasmo gli avventori – in tandem con un “D…” modellato su Gerald Kelly. Una situazione che riflette – ovviamente dal punto di vista molto parziale di Crowley – ciò che davvero accade nelle serate a Le Chat Blanc presente Maugham, con Crowley che sgomita e tira frecciate. Non è dunque necessario immaginare un ulteriore plagio, stavolta da questo Snowdrops (che pure Maugham può avere letto, perché Kelly deve averlo in libreria) quando all’inizio di The Magician troviamo una scena molto simile, con l’entrata in scena di Haddo nel ristorante Chien Noir (Cane nero) – dove il mago suscita ribrezzo in Margaret, astiosa irritazione in Arthur e divertita curiosità in Susie Boyd, amica ed ex-insegnante che ha accompagnato Margaret a Parigi per dividerne l’alloggio.

E la storia che seguirà è appunto quella delle relazioni e degli scontri tra queste quattro persone, Arthur, Margaret, Susie e Haddo. 

(Continua.)