di Roberto Sturm
John Williams, Stoner, Fazi Editore, Roma 2012, pp.334, € 17,50; Andre Dubus, Ballando a notte fonda, Mattioli 1885, Fidenza 2013, pp. 236, € 17,90
Recentemente mi sono imbattuto in rapida successione in due libri che sono entrati nei venti (forse anche meno) più bei testi che abbia mai letto: si tratta del romanzo Stoner, di John E. Williams e della raccolta di racconti Ballando a notte fonda di Andre Dubus.
In entrambi viene dispiegato davanti agli occhi del lettore il mondo interiore dei protagonisti, un mondo tragico e ferito che commuove: sono vite, quelle che Williams e Dubus mettono in scena, né più né meno dolorose di tante altre, ma è grazie alla sensibilità con cui trattano i loro personaggi che riusciamo a sentirli reali, vivi, condividendone le azioni e i pensieri.
Pubblicato nel 1965, Stoner non ha destato all’epoca troppo interesse. Riproposto dalla New York Rewiew of Books nel 2003, si è invece imposto al pubblico come uno dei fenomeni letterari più importanti degli ultimi anni e in Italia, edito da Fazi nel 2012, ha ormai raggiunto la quattordicesima edizione.
La trama è davvero semplice e racconta la storia di William Stoner a partire dal 1910, anno in cui entra nella Facoltà di Agraria dell’Università del Missouri con l’obiettivo di essere in futuro utile ai genitori contadini, fino al 1956, l’anno della sua morte. Dopo un anno di studi, Stoner decide di cambiare indirizzo e di iscriversi alla Facoltà di Letteratura inglese: sarà questo, in tutta la sua esistenza, l’unico gesto di ribellione. Quando comunica ai genitori di voler cambiare facoltà il padre e la madre, agricoltori temprati da una vita di duro lavoro e da condizioni economiche indigenti, non si oppongono.
Lo studio e la carriera universitaria diventano l’unico obiettivo di Stoner almeno fino a quando non s’innamora di Edith, personaggio ambiguo e indecifrabile che renderà la sua vita un inferno; il protagonista se ne rende conto pochi giorni dopo il matrimonio ma, come spesso gli accade, incassa il colpo senza reagire e l’Università torna a essere il vertice della sua esistenza: pare completamente a suo agio solo quando insegna, quando si muove all’interno dell’area universitaria e quando può osservare la vita dall’esterno, magari dalle finestre della Facoltà.
Nasce Grace, una figlia che Edith sembra non accettare mai completamente e che lascia accudire al marito. Ma che col tempo, quando si rende conto che il rapporto tra padre e figlia è diventato quasi esclusivo, fa di tutto per staccare da Stoner, riuscendovi.
Quando irrompe nella narrazione Katherine Driscoll, una giovane allieva, il casto protagonista, sempre riflessivo e posato nell’esprimere i propri sentimenti, viene rapito da una passione e da una carnalità che sembrava non poter più provare. Ma il professor Lomax, un collega avversario, fa in modo che i due si lascino e la Driscoll sparisca. Svanito il suo sogno d’amore, Stoner comincia ad ammalarsi fino a quando non gli viene diagnosticato un tumore: già prima che i medici stabiliscano l’esatta entità del male, capisce che la sua vita è arrivata al capolinea.
Il finale è senz’altro la parte più straordinaria: Stoner recupera una parvenza di rapporto con la moglie, rammenta con struggente nitidezza il periodo passato con l’amata Katherine e rivede la figlia, alcolizzata e giovane madre vedova.
Questa scorcio d’esistenza è una sorta di preparazione all’atto finale, vissuto con estrema dignità nonostante la ferocia della malattia.
I racconti dell’antologia Ballando a notte fonda, scritti da Dubus dopo l’incidente automobilistico del 1986 che lo costrinse su una sedia a rotelle, sembrano più sentiti e più definitivi rispetto a quelli precedenti nella sua carriera. Sono tutte storie in cui si parla d’amore, amore come peccato e come redenzione, come malattia e come cura: i protagonisti escono con le ossa rotte da una relazione e non fanno altro che cercarne una nuova, se possibile più coinvolgente della precedente, come se fosse l’unico modo per redimersi.
Osserva Paolo Cognetti, nella brevissima ma illuminante introduzione: “tutti i personaggi di Dubus si portano dietro una mutilazione. Se le sono procurate in guerra, o nel matrimonio, o durante l’infanzia. (…) I più disperati sono quelli che stanno scontando i loro peccati – un adulterio, un atto di violenza, una vigliaccheria, una scelta sbagliata – che poi si è rivelata cruciale – e perciò vivono nel rimorso e non riescono a smettere di guardarsi indietro”.
Come LuAnn, un personaggio che torna in diversi racconti, quando parla con l’amica ne Il tempo del peccato e le dice di aver quasi commesso un adulterio: “Qual è la differenza fra fermarsi a quel punto e andare fino in fondo? E mi è sembrato giusto. Non la domanda, ma la risposta che era implicita nella domanda. Non c’è differenza”.
Lo scrittore non ha mai fatto mistero della sua fede cattolica e la religione e il peccato sono altri elementi imprescindibili dalle sue narrazioni: il male (che sia una bugia, un tradimento o altro) è combattuto confidando in Dio e agendo in prima persona, persino quando prende forme concrete, come nel momento in cui due malintenzionati entrano in casa di LuAnn e lei riesce a metterli in fuga. Un mondo interiore che si esprime in forme esteriori e materializza i sentimenti dei personaggi.
Diversi passaggi rendono poi evidente lo spessore della narrativa di Dubus: i personaggi, in banali situazioni quotidiane, passano in rassegna anni della loro vita e riflettono sui fatti che li hanno condizionati e questo ce li fa sentire vicini e reali: si ha la sensazione di poterli toccare e vedere, ed è facile immedesimarsi nelle situazioni e “sentire” gli stati d’animo che l’autore, più che descrivere, comunica. “Li penso come persone”, ha detto Dubus dei protagonisti delle sue storie, “mi fanno piangere quando fanno cose che non vorrei facessero”.
Sono diversi i tratti che accomunano le due opere, a partire dallo stile letterario raffinato e lieve ma denso di pathos. Sicuramente si percepisce il forte coinvolgimento degli scrittori: i personaggi di Ballando a notte fonda assomigliano parecchio al Dubus in carrozzella (e non è casuale la loro difficoltà deambulatoria) e Stoner è un professore universitario come Williams; viene spontaneo immaginare che, se non strettamente autobiografici, i testi attingano molto alle loro esperienze.
E se, come si diceva, l’amore è l’argomento fondamentale dei racconti di Dubus, lo è al tempo stesso anche del romanzo di Williams: il protagonista, infatti, è profondamente condizionato dalla presenza o meno di esso, sia quando s’innamora della futura moglie Edith o della sua studentessa, Katherine, sia quando vive felice accanto alla figlia Grace.
È come se entrambi gli autori volessero dire, in definitiva, che è l’amore che dà qualità alla vita.
Altra caratteristica comune è il basarsi non tanto sulle azioni dei protagonisti ma piuttosto sulle conseguenze delle stesse: vite quotidiane banali che potrebbero essere quelle di ognuno di noi, costellate dai continui pensieri che accompagnano l’esistenza di tutti. I due scrittori riescono nell’impresa di rendere semplice il complicato e straordinario l’ordinario, non tanto giocando sulla tecnica narrativa (che è per tutti e due molto semplice ed efficace) ma srotolando le esistenze dei personaggi senza trucchi da quattro soldi, come direbbe Raymond Carver o, per dirla alla Dubus, con assoluta onestà.
E se Dubus è considerato da Dennis Lehane il più grande scrittore americano di racconti della seconda metà del XX secolo (sì, più di Carver e Hemingway, aggiungo io), Stoner è senz’altro uno dei capolavori letterari dello stesso periodo. In entrambe le opere, seppure in misura diversa, troviamo la leggerezza stilistica di Peter Cameron (che non a caso tesse le lodi di Williams nella postfazione del romanzo), la densità dei pensieri del Frank Bascombe de Lo stato delle cose di Richard Ford, le dispute della coppia del Lawrence de L’amante di Lady Chatterley e i dubbi esistenziali di Faulkner: praticamente la migliore letteratura dell’ultimo secolo. O quasi.