Per diversi anni ho lavorato a un documentario sull’incredibile vicenda musicale di un amico: Vic Vergeat, uno dei migliori chitarristi italiani, sconosciuto ai più ma autentico artista di culto per gli appassionati di rock.
Vic vanta una carriera iniziata negli anni Sessanta e che lo ha portato a suonare in tutta Europa e Stati Uniti, esibendosi per pochi fortunati in un pub o per decine di migliaia di spettatori a tanti festival; ha inciso album con budget milionari e altri a costo zero e venduto comunque parecchie copie della sua non esile discografia. E dovunque abbia suonato – disco, concerto o turno in sala che fosse – ha lasciato il segno, umano e artistico.
Per raccontare la sua storia ho girato assieme al mio collega Riccardo un centinaio di ore di interviste e di concerti, anche se poi la vita ha preso il sopravvento e il documentario non l’abbiamo fatto. Ma la storia c’è e non dipende dal fatto che ci sia sfuggita di mano.
La storia c’è ed è questa, così come me l’ha raccontata il protagonista.
Vittorio Vergeat, di famiglia della Val Vigezzo, nasce nel 1951 a Domodossola e rimane presto folgorato dal rock’n’roll, ottenendo a dieci anni la sua prima chitarra.
È il classico bambino prodigio: ribelle, insofferente alle regole e alla disciplina, ma con le idee chiare su come e cosa suonare. Per tenerlo a freno i genitori lo mandano in collegio, da cui fugge: il suo liceo lo frequenta tra Como e Chiasso (nomen omen) suonando nei beat Black Birds. Dolce Delilah nel 1967 è il battesimo su vinile, che sul retro presenta anche la sua prima composizione, l’ingenua Torna verso il sole che però sfodera un distorsore acidissimo (“Il tecnico del suono, in camice bianco, si lamentava: si è rotto qualcosa!”). All’epoca Vic non è ancora iscritto alla SIAE e la canzone viene accreditata al produttore: “La prima inchiappettata”, termine tecnico conosciuto da molti musicisti.
La “vecchia” musica pop è intanto soppiantata dal rock e il chitarrista studia sui Beatles prima e su Hendrix poi: Jimi rompe ogni schema e il suo strumento lo fa cantare, piangere, urlare. Anche per l’esuberante Vergeat la chitarra diventa un simbolo fallico da masturbare, un corpo femminile da accarezzare e una mitragliatrice da far deflagrare. Lo fa con gli Underground a Lugano, assieme all’uomo orchestra Hunka Munka. Diventano un’attrazione che riempie i locali, al punto che i gestori temono la fuga di Vic, cosa che fa puntualmente, scappando una notte con la sua chitarra e la fidanzatina alla volta di Londra.
Siamo nel 1969 e la capitale britannica è la sua università. Per 7 mesi Vic è tutte le sere prima a mangiare al Ritz – perché è un dandy viziato – e poi al leggendario club Marquee per imparare dai maestri.
Armato della sua Les Paul ’58 frequenta gli Hawkwind, un gruppo di storditi profeti dello space rock: “Loro erano drogatissimi e io ero pulito e innocente. Perlomeno ancora!”, e finisce subito, dopo alcuni giorni in sala di registrazione. Il leader Dave Brock oggi nega, ma della sua lucidità di allora francamente dubiterei molto.
Vergeat torna a casa nell’ottobre 1970, in Italia, e assieme alla sezione ritmica della cult band psichedelica Brainticket (Cosimo Lampis alla batteria e Werner Fröhlich al basso, due mastini) forma i Toad, che registrano il primo omonimo album due mesi dopo, a Londra. Suonano spesso in Svizzera, anche al festival di Montreux (nel gennaio 1971) dove in diretta televisiva Vic rompe tre volte le corde della sua chitarra… In Italia le date sono invece sporadiche (lo Space Electronic a Firenze, il Piper a Roma, ovviamente a Domodossola) e la band “frontaliera” viene – e verrà sempre – equivocata come esclusivamente elvetica, con conseguente poca considerazione. Sbagliando.
Grazie anche al lavoro del sound engineer Martin Birch (mastermind produttivo di Deep Purple, Iron Maiden, Blue Oyster Cult, Rainbow, Whitesnake e tanti altri), il primo disco è bello e inventivo, con la Firebird straripante del leader in evidenza, e si muove con originalità tra le coordinate stabilite da Grand Funk Railroad e Led Zeppelin. Il cantante Benji Jaeger si chiama fuori frustrato (“Non si divertiva molto quando improvvisavo per quindici minuti. E quindici minuti era un assolino!”) e i Toad diventano un power trio che nel 1972 sforna il perfetto Tomorrow Blue, capolavoro riconosciuto hard rock e progressive, dove l’ascendenza heavy blues è stemperata nella capacità melodica di Vic e dalla varietà di ritmi e atmosfere, aggiungendo alla ricetta anche un violino indemoniato.
I Toad partecipano ai classici raduni italiani dell’epoca (Palermo Pop Festival nell’agosto 1971, assieme a Black Sabbath e Colosseum; Villa Pamphili a Roma, nel 1972) ma i grandi riconoscimenti li hanno in Francia, Germania e Svizzera, con buoni riscontri di vendite – specialmente con il singolo Stay! – accolte con tipica spocchia giovanile: “Quando eravamo tra i primi in classifica ero incazzato nero! Volevo essere il 33!”.
Succede anche di aprire per i Deep Purple o per i Genesis in un tour francese (e in questo caso di diventare dopo alcune date gli headliner), ma il momento non viene sfruttato. Il gruppo si prende una pausa e Vergeat va a vivere a Roma.
In attesa di realizzare un album solista, presta la sua chitarra alla RCA (facendo turni per Renato Zero e Morricone) e si butta in grandi jam, complice l’amicizia con i membri del Rovescio della Medaglia. Addirittura interpreta un cantastorie hippie nella truffaldina riedizione di uno spaghetti-western, Sparate a vista a Killer Kid, anonima pellicola jugoslava e tedesca di metà anni Sessanta con l’unico merito di avere come protagonista secondario Mario Girotti. Che a inizio Settanta diventa Terence Hill e sfonda grazie ai film di Trinità… e allora vai di riciclo. Ma il pubblico – non sembra senza motivi – non abbocca.
Nel 1974, mentre tutto il rock commerciale si divarica e va verso l’hard o il pop e finisce quella magia per cui si poteva suonare tutto, Vic diventa l’unico biancuzzo in una scatenata band soul nera, quella di Wess, gli Airedales: è il suo master in una piccola facoltà.
Dopo Dreams, un disco di rock’n’roll a nome Toad, gradevole ma un po’ sfocato e che non ha alcun riscontro commerciale, Vic torna a Londra in piena esplosione punk e collabora con Pete Sinfield (già paroliere di Emerson Lake and Palmer e della Premiata Forneria Marconi), con Mitch Mitchell (il batterista della Experience di Hendrix) e John Giblin (bassista sessionman extraordinaire, avrebbe poi suonato con Peter Gabriel, Paul McCartney e i Simple Minds). Non ne viene fuori nulla.
Si torna sulla strada ancora con i Toad che dal vivo sono un calderone ribollente, dove confluiscono blues, hard e funk, in naturale combustione. Una scelta musicale istintiva che il business (a differenza del pubblico dei concerti) non capisce e non asseconda. I manager vogliono un Vic guitar hero, truce, tutto pelle e borchie e la Capitol prova a lanciarlo sul mercato statunitense con un’immagine tamarrissima. Lo cura Dieter Dirks, deus ex machina del successo degli Scorpions, e Vergat (come viene rinominato per facilitare la pronuncia yankee, roba da chiodi) pubblica un album, Down to the Bone, dalla terribile copertina metallara: “Mi chiedevano di fare la faccia cattiva, sul palco o davanti ai fotografi…”. La cosa pare funzionare (il disco entra nella classifica di Billboard) e in realtà sotto la scorza della produzione c’è la consueta varietà di generi, spaziando dal boogie al funky al soul. Seguono diverse date in giro per gli USA, aprendo per Nazareth, Scorpions, Rory Gallagher e Joe Perry Project (del chitarrista degli Aerosmith), ma Vic è una rockstar irrisolta e non è il tipo che la manda a dire. E così, all’interno delle major losangeline, diventa il musicista genialoide da tenere a distanza, da trattare con le pinze perché poco controllabile. La sua sezione ritmica diventerà multimilionaria nei Ratt, gruppaccio hair metal, mentre il nuovo album solista, Weapon of Love, non esce, dopo epocali scazzi col produttore.
Tutti gli anni Ottanta passano all’insegna della frenesia tipica dell’artista valvigezzino: diventa padre due volte, si sposa, divorzia, sembra formare un supergruppo con Rick Wakeman e Carl Palmer, ha un nuovo successo in Svizzera con una band pop rock (i Bank, assieme a Hugh Bullen, già bassista di Battisti e Pino Daniele), perde un ingaggio milionario con la MCA e incide con il cantante dei Krokus, Marc Storace, una bella cover di When a Man Loves a Woman. Ma il singolo viene bloccato dalla casa discografica finché lo stesso arrangiamento – come per magia – viene fuori nel successo planetario di Michael Bolton…
Gli anni Novanta vanno però meglio, anche se non nel modo più prevedibile: infatti nel 1993, assieme alla figlia Neve, Vic scrive la sigla di Pingu, un cartone animato elvetico venduto in tutto il mondo: canta David Hasselhoff, il bel tomo di Supercar e Baywatch e la canzoncina ottiene un buon successo. Ma soprattutto Vic riforma i Toad e fa uscire un album intenso e roccioso, Hate to Hate in cui si scaglia contro la guerra in Iraq (ed era solo la prima guerra in Iraq). Torna in tour col suo gruppo storico e poi – come ospite di lusso – assieme a una band svizzera che sta andando benissimo, i Gotthard, partecipando al vendutissimo D-Frosted.
Nel 1998 incontra Gianna Nannini grazie alla conoscenza comune del manager Peter Zumsteg e con lei scrive parte dell’album Cuore (e anche un’altra sigla che funziona, quella di Lupo Alberto!). Dopo oltre un anno di concerti assieme, Vic decide di dedicarsi di nuovo alla sua carriera solista: nel 2002 licenzia un buon album dal vivo, No compromise, e partecipa anche a due tributi hendrixiani che rilanciano il suo nome tra gli appassionati e i critici.
Qualcosa però si blocca: dopo anni e anni di tentativi, il guerriero è stanco di combattere.
Ed è qui che arrivo io.
Curando da qualche tempo una rubrica per Rolling Stone, chiamo incuriosito una piccola ma agguerrita etichetta discografica di La Spezia, la Akarma, che lo produce e distribuisce. Mi dicono: “Attento! È diffidente coi giornalisti, il Vergeat!”. Gli telefono, ci annusiamo e finiamo a parlare di Mike Bloomfield e Peter Green, due perdenti nella logica mercantile dell’industria musicale, due geni per noi e per tutti quelli che la musica la ascoltano sul serio.
Per capirci al volo: Mike Bloomfield è la chitarra di Highway 61 Revisited di Bob Dylan mentre Peter Green è il fondatore dei Fleetwood Mac, prima che abbandonassero il blues per tirare dune di coca su per il naso… Due musicisti che hanno saputo mettere in musica con sincerità estrema tutta la loro ansia e difficoltà di vivere, senza mai sembrare dei semplici imitatori della tradizione black.
Vic accetta che lo intervisti e vado a trovarlo a casa sua, a Domodossola. E scopro che se gli piacciono i beautiful losers come Green e Bloomfield, allo stesso modo non ama chi è riuscito ad avere un successo trasversale, come Prince o Springsteen, per esempio.
La sua storia è decisamente interessante: come ha fatto uno così, mostruosamente dotato in termini compositivi, esecutivi e spettacolari, a non avere avuto un riconoscimento unanime?
Perché, tutte le volte che il successo sembrava dietro l’angolo, qualcosa s’è messo di traverso?
Con il mio collega Riccardo decidiamo di realizzare subito un dvd-concerto, a budget zero e con attrezzature di fortuna. E ci viene anche molto bene: Live at Music Village ottiene recensioni positive in modo imbarazzante, però la distribuzione è difficoltosa se non nulla e il dvd rimane una chicca per appassionati.
Negli anni di frequentazione che seguono vediamo Vic suonare a festival e feste di piazza, in pub, teatri e (letteralmente, in esibizioni sempre clamorose) per la strada, acustico ed elettrico, al Blue Note di Milano come all’Hard Rock Cafè di Mosca. Sempre a fianco del pazientissimo e talentuoso bassista Michi e con amici vecchi e nuovi (Mel Collins, Franz Di Cioccio e Patrick Djivas, tra le collaborazioni più recenti), inseguendo ogni volta progetti artistici inediti, talvolta strampalati, più spesso generosamente incoscienti.
Cosa abbiamo capito di lui? Vic ha una voce chitarristica unica, non fa prove (“Un pittore dipinge la tela una volta sola, no?”) e improvvisa sempre la scaletta del concerto (facendoci impazzire quando si tratta di filmarlo). Consulta gli I-Ching, odia il calcio ma tifa Valentino Rossi peggio di uno hooligan; dimentica ovunque occhiali e cellulare, non sopporta Emilio Fede e le zanzare, gli piacciono il Tenente Colombo, il vino rosé e la sua Ducati è sempre l’ultimo e più prezioso modello esistente (adesso è una Panigale R, in recente sostituzione di una Desmo 16). E poi Vic fa esattamente quello che non bisognerebbe fare quando si suona la chitarra. Cioè: arti marziali e roccia…
È un vanitoso (con un gusto sartoriale tutto suo), un pasticcione e un lamentoso, è logorroico e “tra l’altro” è la sua formula per allargare all’infinito ogni discorso. È idealistico e incoerente, sicurissimo fino al momento in cui non cambia idea. Lo sa e non può farci niente. Perché è vero e non sa mentire, nel bene e nel male.
Il documentario che volevamo dedicargli non ha trovato committenti: le case discografiche non avevano più un euro e la sua storia, per me paradigmatica di un mondo che sta scomparendo, non sembrava interessare nessuno.
Però quella che mi era sembrata una carriera senza la fortuna che meritava, oggi la vedo in modo molto differente e mi pare che contino di più i risultati ottenuti di quelli che si poteva sognare di realizzare. Del resto Vic è stato ambizioso, sí, ma mai abbastanza da dover accettare delle imposizioni: dopo una partenza fulmicotonica a neanche vent’anni, è come se avesse attuato una lenta ritirata dalle trappole e dalla fatica dello stardom, che può vincolare a una formula e diventare un obbligo. Non senza qualche legittima frustrazione, è ovvio, ma il successo di questo ragazzino di sessant’anni, oggi, sono la moglie Carmen, i figli e i tantissimi amici, la musica che ha scritto e la gioia che regala ogni volta che imbraccia una chitarra.
E non è poco.
Da ascoltare
Toad – Toad (1971)
Toad – Tomorrow Blue (1972)
Vic Vergeat – No Compromise (Live, 2002)
Vic Vergeat – Just the Two of Us (acustico, 2011)
Vic Vergeat – Live (acustico, 2012)
Da vedere
Vic Vergeat Band – Live at Music Village (2006)