Alcuni redattori di Carmilla intervengono sulle manifestazioni di quello che è stato chiamato, non è chiaro se legittimamente o meno, “movimento dei forconi”. Nella tradizione di Carmilla, l’intento non è quello di dare la linea a chicchessia, ma fornire elementi di discussione a chi ha interesse ad ascoltare. Per questo in calce agli interventi pubblichiamo i link di alcuni degli interventi che sono comparsi sui diversi siti “di movimento” in questi giorni.
Filippo Casaccia
Sulla faccenda dei Forconi non ho elaborato particolari teorie o analisi, posso solo riferirvi i pensierini elementari di un “socialista dalle tasche buche”, mediamente informato, scarsamente ideologicizzato, altamente confuso. Prima del 9 dicembre leggevo della mobilitazione con la curiosità che in Rete si dedica ai mattoidi. Il 9 e il 10 la faccenda ha cominciato a preoccuparmi di più, tra la schizofrenia dei titoli sensazionalistici della stampa e la realtà delle partecipazioni desolanti, come qualità e quantità degli accorsi in piazza.
Corsivisti sfaccendati hanno detto pigramente la loro, politicanti destronzi e sinistrati hanno ammannito scomuniche o, secondo convenienza, dimostrato simpatia, mentre sui blog è subito cominciata la presa per il culo di questi scappati di casa affrontati da poliziotti buoni che si tolgono il casco, tutti tralasciando le motivazioni di una rivolta (…vera? Finta? Eterodiretta? È importante?) che parte da problemi reali su cui si continua a tergiversare. E tra fascistelli di ogni risma consapevoli e no che mettono il cappello sulla protesta, m’è venuto un po’ freddo, anche perché ho pensato a un vecchio film, dove piccoli segnali d’allarme vengono minimizzati e anestetizzati, finché un giorno gli ultracorpi non hanno preso definitivamente il potere. Visto come siamo messi sarebbe solo un cambio della guardia, ma al peggio non c’è fine. Io ho paura, insomma, e mi rendo conto che non sia un grande contributo.
Girolamo De Michele
Parto dalle osservazioni di Aldo Bonomi: «Sono soprattutto le persone che patiscono la fine del postfordismo italico. I piccoli imprenditori di quello che ho ribattezzato “capitalismo molecolare”, il piccolo commercio diffuso, i commercianti, i bancarellari, gli ambulanti, la logistica minuta e cioè i padroncini, i camionisti. Una moltitudine rancorosa appartenente a un modello economico che sta sparendo, una piccola borghesia pesantemente stressata dal fisco e impoverita dalla crisi che come sociologo non intercetto alle porte dei sindacati o delle associazioni di categoria, bensì alla mensa della Caritas. Un luogo dove naturalmente arrivano disoccupati e cassintegrati, ma anche appartenenti a quella composizione sociale che definirei “non più”: non più negozianti, non più commercianti, non più piccoli imprenditori. Sono anni che raccontiamo questo disagio e diamo l’allarme. E ora questa massa critica ha fatto condensa». Non perché mi piaccia dividere i cosiddetti “sociologi” (termine che in questi giorni trasuda, in chi lo usa, disprezzo per l’uso dell’intelligenza usata per comprendere) in buoni e cattivi: perché queste parole di Bonomi sembrano tratte dal suo libro Il rancore [ qui la mia recensione], dove in fonda aveva già capito tutto – anche l’utilità, ma che te lo dico a fare?, per la “sinistra” istituzionale, di comprendere dinamiche e ragioni di lotte come quelle contro la TAV in Val di Susa, o il Dal Molin a Vicenza. Cito Bonomi (ma lo stesso potrebbe valere per altri) per dire che è necessario non fermarsi alla superficie e comprendere le dinamiche di questa moltitudine oscura, e riconoscere che esiste un «lato oscuro della moltitudine» che si nutre dei suoi spiriti animali: negarlo (lo diceva nel 2009 Matteo Pasquinelli in Animal Spirits) ci rende impotenti davanti al rischio di svolte autoritarie.
Ma comprendere le dinamiche, la composizione, la stratificazione sociale di questa moltitudine rancorosa non significa rinunciare al pensiero critico. Con troppa facilità si è esaltata la “proletarizzazione” del ceto medio e la sua discesa nel gorgo della precarizzazione, dimenticando le passate esperienze storiche nelle quali l’impasto di ceto medio declassato e sottoproletariato privo di coscienza di classe ha prodotto fascismi, peronismi, boulangismi. Né sono un valore in sé gli “studenti” che (peraltro in sparuti luoghi) hanno fatto la loro comparsa: una cosa sono gli studenti che si battono in modo consapevole per il diritto all’istruzione, e vengono ripagati con manganellate dai gendarmi di Alfano e Letta; altra cosa è lo studente che crede che scaricarsi gli sketch di Crozza sull’i-Phone sia militanza politica (e non è una battuta). Così come una cosa è il blocco di Genova da parte dei lavoratori dei trasporti, che avevano una piattaforma politica in grado di costruire solidarietà con l’intera città; altra è il blocco delle città da parte di una minoranza scollegata e disconnessa, ma aiutata dalla “complice” benevolenza dei gendarmi di Alfano e Letta, senza la quale ben poco di quanto è finora accaduto sarebbe stato possibile – altro che dimostrazione che “lo sciopero precario metropolitano si può fare”, come qualcuno ha sostenuto.
Una moltitudine rancorosa sostenuta dall’inerzia dei gendarmi, “ampiamente giustificata” dal presidente di Confindustria Squinzi, al cui interno non si nascondono vecchi arnesi fascisti, sotto forma di organizzazioni politiche – Forza Nuova, CasaPound, Fratelli d’Italia – o di gruppi ultras monopolizzati dalla destra neofascista (gli ultras della Juventus di certo non sono le BAL livornesi, per capirci): come riconosce Lele Rizzo di Askatasuna, «è vero che manifestanti e agenti hanno spesso un linguaggio comune» [ qui]. Lo sdoganamento del “colpo di Stato”, gli appelli ai “valori nazionali” e alla “italianità” lasciano sul fondo del bicchiere un residuo di passioni tristi e di soluzioni altrettanto tristi: l’uomo della provvidenza, le soluzione facili che risolvono al volo la crisi, la sovranità nazionale, i soliti capri espiatori da additare – l’euro, le banche, la casta, i banchieri… –, fino al più stupido degli slogan degli ultimi anni (che purtroppo negli ultimi anni molte forze di movimento hanno fatto proprio), l'”assedio ai palazzi del potere” – come se il potere risiedesse nei palazzi, e non nei flussi del capitale finanziario. Del resto anche gli elettori del PD hanno votato il proprio segretario spinti da queste logiche tristi.
Che fare, allora? In primo luogo, non lasciare che gli spiriti animali orientati dalle rappresentazioni empiriche prevalgano sull’uso della ragione comprendente. In secondo luogo, riconoscere che questo fenomeno, pur sfrondato dalla retorica mediatica che lo ha pompato a dismisura, attesta l’incapacità di un movimento in stato d’impasse di intercettarne le derive e orientarle su piattaforme politiche condivise. Infine, non ricadere nell’appello alla “politica” che deve “fare la sua parte”: perché questa protesta è il frutto non dell’assenza di politica, ma di una politica ben precisa che estrae ricchezza dal sociale impoverendolo, e finanziarizza questa ricchezza senza che nulla di essa ritorni su chi ne ha subito l’espropriazione. Solo con la concretizzazione di lotte contro la crisi e i suoi amministratori si potrà togliere linfa alla deriva rancorosa della moltitudine.
Un compito lungo e faticoso. Di certo preferibile al Risiko messo in atto da alcune realtà organizzate di movimento, che hanno letto questo tema come un reciproco terreno di accumulo di carrarmatini, per un gioco nel quale nessuno vince – perché la vera partita si sta giocando altrove.
Valerio Evangelisti
Non so bene che dire, salvo sintetiche notazioni. I cosiddetti “forconi” sono sintomo di malessere sociale, e fin qui siamo d’accordo tutti. Manca una direzione politica della sinistra, e anche su questo concordiamo grosso modo: è una carenza, che non dipende però solo da una sinistra frantumata, ma dall’ambiguità intrinseca di questo movimento di protesta. Non sto parlando del colore delle bandiere, delle infiltrazioni di fascisti o mafiosi. A me sembra una rivolta “di pancia”, senza ideali né obiettivi distinguibili. Un tipico moto della piccola borghesia che si sta impoverendo, e che chiama a raccolta chi sia disposto a sostenerla: fasce di precariato, di marginalità senza volto, di scontenti e di delusi. Un magma, differenziato tra città e città (Torino non è Roma). Senza che nessun segmento abbia una reale egemonia.
Per quali finalità? A me pare che sia un’estensione militante del grillismo parlamentare. Come se Grillo, dopo avere radunato folle pronte a marciare su Montecitorio e sul Quirinale, non le avesse a suo tempo richiamate indietro (e dirottate assurdamente sul Colosseo), bensì le avesse incitate a proseguire. Avrebbe avuto i “forconi” di oggi. Privi di scopo, di bandiera – incluso il labaro fascista – e di rivendicazioni decifrabili. L’unica è quella di miglioramenti fiscali o di depenalizzazione di danni ambientali.
Ma badate. Parliamo di quattro gatti. Un conto è uno sciopero dei trasporti che paralizza mezza Italia, un altro sono padroncini che, mettendo i loro mezzi di traverso, ne bloccano le arterie. In piazza, i “forconi” fanno ridere. Un qualsiasi collettivo studentesco sa mobilitare forze maggiori. Certo non hanno i TIR (magari con dipendente extracomunitario alla guida, pagato in nero), però sanno dove andare a parare.
Non serve, agli antagonisti, stare in mezzo a tutte le rivolte, quali che siano. La lotta di classe è guerra di posizione: si conquista un caposaldo, vi si instaura un contropotere e si passa oltre. Con un uso della forza adeguato al momento. Ma soprattutto con un’intelligenza politica complessiva capace di progettualità. Dai “forconi” va tratto un solo insegnamento. Una minoranza attiva può fare danni, se individua gli snodi del sistema (vedi gli scioperi nel settore strategico della logistica). Bisogna però che ogni passo avanti lasci bastioni conquistati e adeguatamente difesi. Dalla loro somma nascerà il profilo di una società diversa.
Insomma, il colore della bandiera conta. Eccome se conta. Nelle sue sfumature rosse e nere sta il progetto di un’alternativa. Nei tricolori sbiaditi è il progetto acefalo di un’insorgenza fiacca che, prima o poi, scenderà a compromessi vergognosi. La caricatura di rivoluzione dei piccolo-borghesi, fin dai tempi dei girondini.
Fabrizio Lorusso
Mentre leggevo le prime analisi e testimonianze sui forconi e sul 9 dicembre, ho preso qualche appunto e le ho associate quasi subito a un momento specifico delle proteste brasiliane di giugno-luglio. Quelle manifestazioni scossero il paese durante l’ultima Confederation Cup con milioni di persone in piazza. Fatte salve le grosse differenze d’impatto reale e di partecipazione numerica, al netto delle distorsioni mediatiche, ci sono differenze e somiglianze, secondo me utili da ricordare.
Nei movimenti brasiliani, soprattutto nell’orizzontale e autonomo MPL (Mov. Passe Livre), c’è stato un dibattito a un certo punto sull’opportunità di continuare a scendere in piazza, eventualmente insieme a decine di migliaia di persone con valori e motivi diversi tra loro e slegati dai movimenti. Erano le nuove classi medie, tendenzialmente consumiste e individualiste, in lotta contro le tasse, il rincaro dei trasporti, l’inflazione, la corruzione, le spese per i mondiali. C’erano pure le vecchie classi medie e alte, settori di borghesia nazionale e della gioventù privilegiata delle città. Un mix inedito. Gente che usciva, forse per la prima volta, dall’attivismo edulcorato dei social network per marciare nelle strade, impugnando però la bandiera nazionale come referente universale e storpiando il senso originario delle iniziative convocate dai movimenti, invase da una lunga serie di rivendicazioni generiche.
Il rischio era quello di diluire una lotta preesistente sulla mobilità gratuita nelle metropoli per combattere la storica segregazione razziale e di classe del Brasile, un fenomeno amplificatosi con le opere per gli eventi sportivi dei prossimi anni. In quella situazione l’MPL ha deciso di non ritirarsi, la sua battaglia veniva da lontano, era organizzata e solida, proiettava immaginari di cambiamento sociale radicale.
Non era vero il motto che si leggeva sui giornali: “Il Brasile s’è risvegliato”, ma era invece azzeccato quello degli striscioni: “Il Brasile che non ha mai dormito, accoglie chi s’è appena svegliato”. È diverso lottare contro i rincari avendo in mente l’integrazione sociale nelle città, oppure farlo perché si hanno meno soldi e il governo è corrotto, ma poi finisce lì.
Riguardo all’Italia una somiglianza sta nel fatto che c’è stato un iniziale (breve) smarrimento e un dibattito sulla composizione e interpretazione “dei forconi”, mentre le differenze, forse più profonde a questo punto, stanno negli interessi e la provenienza dei manifestanti italiani rispetto alla “classe media brasiliana” che per un po’ accompagnò e, in parte, si contrappose ai movimenti organizzati rischiando pure di escluderli. La piega presa dalle proteste stava diventando reazionaria e la situazione è stata lentamente invertita perché s’era comunque inserita su un piano di mobilitazioni precedenti e valeva la pena mantenerle. In Italia si tratta di un moto di ripudio e di un grido di rabbia di varie categorie sociali come i trasportatori (o ex), i venditori dei mercati, gli agricoltori, i commercianti, i piccoli imprenditori,le “partite Iva”.
Un’altra differenza è che i forconi italiani rivendicano (fin troppo) la loro identità nazionale e ottengono un trattamento compiacente da parte della polizia. Inoltre sono gruppi poco numerosi, magnificati dai mass media, salvo forse a Torino, e si rifanno alla protesta dei forconi siciliani del 2011, pur essendo in parte cambiata la loro composizione, e cercano di porsi aldilà di destra e sinistra, di partiti, politici e movimenti.
Non si sono sovrapposti a un movimento già attivo né rappresentano un blocco unitario, ma nemmeno una protesta spontanea orientata al cambiamento, per cui non si percepisce una visione del mondo differente, una battaglia per “qualcosa”, aldilà dell’enorme disagio e rabbia per la crisi, quanto piuttosto la decadenza di quell’immaginario leghista-berlusconiano, e ormai anche grillino, arrivato a fine corsa.
Le loro rivendicazioni incorporano un discorso dai presupposti individualisti, un’ideologia di fondo privatista e proprietaria che è espropriata dei propri aneliti e delle proprie condizioni materiali, ma non volta al riscatto generale. Si tende a un appiattimento delle differenze in nome di un nemico comune identificato nell’Europa, nella politica e nelle tasse, così com’era successo con la “corruzione” o “l’inflazione” in Brasile.
Lì l’adesione decisa dell’MPL alle giornate di protesta e la continuazione delle sue azioni fu una scelta positiva, alla lunga. In Italia, però, i forconi sono portatori di disagi (e valori) differenti e non si muovono su una piattaforma o su delle iniziative preesistenti né le hanno create. Che possano farlo pare improbabile e resta da vedere, ma per ora sono divisi e in questa fase la loro “intercettazione”, pur tentata da varie anime della destra per opportunismo o per parziale affinità, può diventare una chimera.
Nico Macce
1. Il fatto che questo “movimento” si sia spaccato sul “rischio di violenze” e le componenti riferite a Ferro abbiano disdetto la manifestazione di Roma, non credo che riveli una volontà di uscita dalle ambiguità e dalle collusioni con i neonazi. Ma anche se fosse, tricolori oppure no, occorrerebbe andare oltre le ragioni di superficie nel definire questo movimento, la sua direzione principale come reazionari. Ed occorre. Le componenti che hanno dato vita al movimento (non parlo quindi delle aggiunte successive, studentesche e più proletarie), non puntano a una sollevazione in senso collettivistico, ma a una restaurazione delle precedenti condizioni, quando fare piccolo commercio, essere padroncini e artigiani dava margini di profitto adeguati a una vita di benessere. Ora che questi settori sociali, di lavoro autonomo e piccola imprenditoria sono massacrati dall’economia del debito e dalle politiche dell’austerità , non accettano l’impoverimento e rispondono con tutto l’egoismo di parte che hanno sempre avuto e che esiste sottotraccia. Non lo sanno, ma si stanno proletarizzando, ossia stanno diventando funzionali al grande capitale, agli oligopoli industriali e finanziari che hanno bisogno di una massa precaria da utilizzare alla bisogna e alle condizioni salariali imposte. Bisogna spiegarglielo, ma a monte, nei luoghi di lavoro, sul territorio, piuttosto nel bar. Non nelle piazze forcaiole. Bisogna spiegarlo, certo, ma non a tutti, questo si è capito, perché le condizioni d’esistenza e di lavoro e le ricadute di questo attacco capitalista non sono uguali per tutti, non siamo di fronte a un operaio massa omogeneo per condizioni.
2. Tutta l’architettura del cognitariato come soggetto rivoluzionario centrale, va a farsi benedire (non ci volevano i forconi per capirlo, bastava vedere meglio nelle nostre periferie). Molti degli studenti in piazza a Torino, per esempio, non accederanno mai all’università, il proletariato giovanile, gli elementi da stadio, i soggetti che vivono il degrado delle nostre banlieu usano il cellulare solo per parlare della Juve. In Italia viviamo un analfabetismo di ritorno, perché così come sono stati attaccati i cicli produttivi in cui l’operaio massa esercitava tutta la sua rigidità, è stata attaccata anche l’università e tutto il sistema dell’istruzione, anche, non solo, ma anche per gli stessi motivi. Quindi possiamo dire non di vivere proprio un post-cognitivismo (il quale c’è ed è parte della classe), ma comunque un’allargamento della base sociale frammentata e scomposta nei cicli della riproduzione sociale del capitale.
Sandro Moiso
Sinceramente lo sviluppo del cosiddetto Movimento dei forconi e il suo rapido dilagare sulle strade e nelle piazze italiane, con il conseguente tentativo della destra di ogni colore (Forza Nuova, Casa Pound, Lega, Fratelli d’Italia, Berlusconi medesimo) di cavalcarlo e dirigerlo, non mi ha stupito. Per niente. E, tanto meno, mi ha sorpreso.
Poiché sono convinto, da decenni, che il compito dei rivoluzionari sia non tanto quello di giocare ai soldatini o ai burocratini o ancor peggio agli intellettuali nelle fila di partitini o organizzazioni autoreferenziali che nessuno conosce, se non gli addetti ai lavori della sinistra sedicente antagonista, ma piuttosto sia, tale compito, quello di individuare e indicare per tempo le possibili linee di faglia destinate ad incrinare gli attuali rapporti sociali di produzione, da molto tempo seguo con attenzione, e ho avuto modo di parlarne spesso nei miei interventi ed editoriali su Carmilla, non solo gli sviluppi delle lotte con un chiaro indirizzo anti-capitalista, ma anche lo scontento delle mezze classi causato dall’attuale catastrofica crisi economica e politica.
Per questo motivo la mia attenzione è spesso stata rivolta anche a ciò che poteva succedere nell’ambito delle mezze classi (piccola imprenditoria, aristocrazia operaia, ceto medio impoverito) a seguito della totale perdita di capacità egemonica da parte di quella che dovrebbe essere ancora la classe dirigente (sia nelle sue componenti di governo che in quelle di “sinistra”). Da qui l’attenzione per i 5 stelle e lo spostamento di voto verso “altro” da parte di quella che una volta sarebbe stata la maggioranza silenziosa e che oggi è diventata rumorosa. Molto. Da qui anche la convinzione che il progetto centrista (Casini, Alfano, SC) sia nato morto, perché non adeguato ai tempi. Che sono invece di radicalizzazione delle istanze e delle posizioni politiche.
Da qui sorge anche la mia convinzione che oggi le condizioni oggettive per un ribaltamento sociale dell’attuale sistema di rapporti di produzione esistano già tutte (crisi economica di portata epocale, crisi del modello sociale di sviluppo, perdita di capacità egemonica della classe dirigente, malcontento diffuso tra quelle classi sociali che del consenso al governo dovrebbero costituire l’asse portante).
Amadeo Bordiga, scusate se lo cito spesso ma, al di là delle leggende diffuse su di lui, è stato uno dei più attenti esploratori del futuro del capitalismo e del divenire sociale, sosteneva già 50 anni fa che la rovina delle mezze classi sarebbe stato il segnale definitivo dell’inizio della fine del sistema.
Questo, certo, non per sostenerne le rivendicazioni, ma per leggere in quella rovina un sintomo di cui i rivoluzionari del futuro, ovvero di oggi, avrebbero dovuto tener conto.
Tra il dire e il fare, recita il proverbio, c’è di mezzo il mare, certo. Ma una delle difficoltà o, meglio, la sorpresa, che ha colto gran parte del movimento antagonista è dovuta proprio a questa mancata assunzione di compiti. Che avrebbero dovuto consistere non tanto nell’organizzare manifestazioni ed assemblee per contarsi, ma utilizzare gli strumenti che ci sarebbero già in abbondanza per anticipare il divenire, prevederlo e, ove possibile, dirigerlo. E per fare ciò non è tanto necessaria l’organizzazione formale da subito (nelle sue varie forme autonome, combattentistiche o lottacomunistiche tutte figlie, in quanto tali, dell’orrenda bolscevizzazione dei partiti dell’Internazionale dopo la svolta staliniana della fine degli anni ’20) quanto piuttosto la capacità di diffusione tra le masse, tutte, di un altro e preciso punto di vista che della crisi attuale del capitalismo sappia spiegarne le cause e coglierne conseguenze e gli sviluppi. Sia in negativo che in positivo. Questa sarebbe l’opera di egemonizzazione politica, e non culturale come l’intendevano Gramsci e poi il PCI-PD, che occorrerebbe portare avanti, prima ancora di parlare di condizioni soggettive che oggi sicuramente mancano, così come la chiarezza necessaria a costruirle.
La rovina delle mezze classi è oggi sicuramente commista ad un fatto che 50 anni fa non si poteva prevedere: la progressiva sparizione in Italia (in altre parti del mondo è tutt’altra faccenda e la classe operaia non è mai stata così numerosa, ma noi siamo chiamati a giocare la nostra partita qui, in Italia) della classe operaia delle grandi fabbriche e soprattutto di una classe operaia organizzata. Ciò è dovuto a ragioni oggettive (le trasformazioni del capitalismo italiano e la crisi che l’ha travolto) e soggettive (le politiche sindacali e della sinistra istituzionale, ma sia chiaro che oggi sinistra in quei termini non vuol più dire un beneamato cazzo) che hanno fatto sì che tale classe sia stata dispersa economicamente, territorialmente e anche ideologicamente.
Se non capiamo che i passati trionfi della Lega sono stati legati anche ad un voto operaio (certo al Nord) deluso da CGIL, FIOM e PCI-PD (alle penultime elezioni politiche la Lega, ad esempio, si affermò come primo partito negli stabilimenti FIAT d Mirafiori), non possiamo neanche capire come una fascia consistente di senza lavoro, partite IVA più o meno precarizzate, orridi piccoli commercianti in via d’estinzione, padroncini, operai ed imprenditori delle piccole e piccolissime aziende che costellano i territori del Nord Italia (soprattutto) possa essere diretta o cavalcata o indirizzata dalla destra anche più estrema.
Non si tratta di sposarne le posizioni (imbecilli, egoistiche, razziste, nazionaliste ed autoritaristiche) ma di cogliere e mostrare loro che la loro progressiva proletarizzazione è scontata ed irreversibile e che il loro disagio non può trovare soddisfazione in altro che nell’accettazione di tale fatto attraverso l’unione con le lotte che sui luoghi di lavoro e sul territorio sono portatrici di un altro tipo di cambiamento sociale. Quello rivoluzionario.
Non si tratta di appoggiare la loro lotta o di non usare con loro gli strumenti adottati dalla Comune di Parigi, ma di far diventare la loro lotta, falsata dal fascismo che la percorre, uno strumento in più per approfondire la crisi della direzione politica borghese. Negli anni settanta un po’ di militanti giovani di destra passarono ad altre posizioni: era stata la forza (fisica e politica) del movimento a convincerli. Gli strumenti nelle e verso le lotte sono sempre gli stessi, si tratta di recuperarli. Così come Lotta Continua e i situazionisti italiani seppero riconoscere nei moti di Reggio Calabria una componente proletaria, completamente tradita allora dai vertici sindacali e politici.
Capire questo significa anche capire il senso di “siamo il 99%”. D’altra parte le condizioni per una rottura rivoluzionaria non si presenteranno mai pure, tanto meno oggi. Sia dal punto di vista della composizione di classe, sia dal punto di vista delle sue iniziative politiche. Il Pope Gapon ne fu un esempio nel 1905, ma nello stesso tempo in quell’anno sorsero spontaneamente i primi consigli operai (verso i quali inizialmente Lenin non dimostrò troppo entusiasmo). Oggi certo nulla di ciò che è prodotto dalle attuali proteste ha, anche solo lontanamente, una valenza rivoluzionaria o di classe, ma ciò non vuol dire che le si possa ignorare o abbandonare totalmente nelle mani del fascismo.
Un ultimo appunto: in questi giorni c’è stata anche una ripresa di lotte studentesche sia nelle Università che nelle scuole superiori. Il tutto ha fatto sì che i media nazionali tendessero ad unire in un solo fascio studenti, collettivi, forconi e fascisti. Sappiamo che non è così, anche se gli studenti per forza di cose appartengono anch’essi alle mezze classi come composizione sociale. Le lotte, come da tempo vado segnalando su Carmilla, stanno riprendendo con un segno che non è più quello voluto dal PD e dai suoi accoliti. Soprattutto quelle legate ai territori e all’ambiente. L’operaismo, anch’esso di stampo bolscevico, è superato nei fatti e una nuova occupazione delle fabbriche servirebbe ancor meno che nel biennio rosso. Per questo occorre più che mai, oggi, lavorare seriamente, a partire dai programmi e non dalle idee che ci siamo fatti di noi stessi e del ruolo di piccole nicchie politiche insignificanrti.
Per non abbandonare tutto ciò che verrà nei prossimi mesi ad uno stretto cammino tra forconi (fascisti) e forcaioli (istituzionali e perbenisti di sinistra). Soprattutto in un momento in cui l’abbandono alle destre (anti-europeiste) potrà essere sempre più dettato dalle posizioni di una “sinistra” sempre più di governo ed europeista. Sinistra istituzionale sempre più strettamente intrecciata agli interessi della finanza e sempre meno vicina alle condizioni reali di vita della gran parte dei cittadini. E sempre più propensa all’uso del manganello e della repressione per difendere gli interessi dell’1%.
Su Torino,infine, dove lunedì si sono svolti numerosi cortei e dove la lotta dei dipendenti dei Trasporti Torinesi contro al loro privatizzazione parziale (49%) potrebbe prendere spunto dalle recenti lotte dei colleghi di Genova, va ribadito che la città operaia per eccellenza è diventata la città con il più alto tasso di povertà (e, badate, bene è stato Maurizio Landini a ribadirlo recentemente) con una infame giunta di sinistra che sotto la sigla di Torino Bene Comune continua a svendere i servizi e la qualità della vita di un milione di abitanti. Abbiamo da dire qualcosa a tutte le fasce sociali toccate da questi problemi o dobbiamo per forza stare rinchiusi tra le pareti dei centri sociali, dei sindacati e dei sindacatini, dei partiti e dei partitini in attesa che venga il gran momento della nostra entrata in campo?
La voce del padrone, prima e seconda parte
“Dopo Grillo C’è il sangue!“
Dove stiamo andando
Bussole impazzite
Un’aspra stagione
L’assenza della lotta di classe e i disastri che ne derivano
Cassandra Velicogna
“La storia si fa in modo tale che il risultato finale scaturisce sempre dai conflitti di molte volontà singole, ognuna delle quali a sua volta è resa quel che è da una gran quantità di particolari condizioni di vita; sono perciò innumerevoli forze che si intersecano tra loro, un gruppo infinito di parallelogrammi di forze, da cui scaturisce una risultante – l’avvenimento storico – che a sua volta può esser considerata come il prodotto di una potenza che agisce come totalità, in modo non cosciente e non volontario. Infatti quel che ogni singolo vuole è ostacolato da ogni altro, e quel che ne viene fuori è qualcosa che nessuno ha voluto.” [F. Engels a J. Bloch, qui]
Lunedì 9, per puro caso avevo un po di tempo liberato dal lavoro e mi sono fatta due passi. Avevo sentito per radio che alcuni nodi nevralgici di Bologna erano stati chiusi al traffico causa manifestazione del movimento dei forconi. Allora sapendo che sarebbero tornati in centro, li ho cercati. Nonostante la delusione nel vedere quattro gatti ho voluto informarmi a fondo, quotidianamente su cosa stesse accadendo.
Ritengo che siamo in un periodo di movimentazione fluida e che il tempo chiarirà molte cose. Ritengo che la rincorsa all’etichetta che i sempre più disertati grandi giornali italiani stanno facendo non rispecchi che una proiezione lontana dalla realtà. Ma se è possibile pensare dei prolegomeni alla frase di Wittgenstein su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere allora:
Da una parte la paura di una risoluzione destrorsa dell’attuale crisi italiana laddove le litigiose sinistre e le sinistre scelte riformiste (comunque ancora fallimentari) la fa da padrona. Sintomi di una malattia profonda delle rivendicazioni autorganizzate (o organizzate) di classe mi terrorizzano. Cosa vorranno le masse? Si può stare dalla parte delle jacqueries fini a sé stesse, semplicemente perché tutto merita di essere distrutto (economia, banche, unione europea, istituzioni), ma chi poi si ritrova a ricreare dalle ceneri una società nuova, un mondo differente deve far i conti con i volti di chi, finita la foga di distruggere, si trova al suo fianco. E potrebbe non essere il compagno di collettivo né quello di banco. A contarsi, guardarsi in faccia, rimboccarsi le maniche dopo il blocco e lo sfogo chi ci sarà? A questo non posso rispondere e credo che prevenire che questo sia il preludio a una società dai tratti fascisti, populisti, peronisti devessere l’intento principe di ogni manifestazione e ogni parola spesa. Se i forconi ci hanno spiazzato, non possiamo come antifascisti ignorare i segnali di internità del movimento dei forconi alle strategie dei nostri nemici.
Detto questo ho però un sospetto.
Alla presa della Bastiglia tutti avevano la casacca dello stesso colore? Tutti conoscevano la prossima mossa? Nelle primavere arabe non c’erano forse avvocati e disoccupati, islamici e comunisti, persone con un’idea di società differente? Se disertiamo quelle piazze, snobbiamo e stigmatizziamo da sinistra non sono forse i fascisti più legittimati a creare realmente una protesta monocolore?
Stimo tutti i compagni che quotidianamente si sporcano le mani con i problemi di un imprenditore diventato lumpen o di un agricoltore che non ce la fa più, o di una partita IVA subissata dalle tasse. Sono al fianco di coloro che inseriscono i book block con riferimenti chiari nelle piazze chiamate indistintamente dei forconi.
Inoltre ritengo che il problema politico è andato oltre oramai al problema di tirare acqua al mulino di un qualsivoglia partito: la posta politica è l’eterodirezione di un partito (Grillo stesso è una banderuola che sta a sentire la pancia del paese per sopravvivere) o la creazione di strutture differenti di organizzazione. I partiti come li abbiamo conosciuti sono finiti e D’Alema che strizza locchio a Renzi ne è una delle più chiare dimostrazioni. Berlusconi che diceva che tutti stiamo bene fino a due anni fa ora, da oppositore, si prodiga per dare voce a chi è colpito dalla crisi e scende in piazza per lamentarsi: sono i partiti che rincorrono i forconi, non viceversa. La situazione è fertile, le cose cambiano e se vogliamo lo facciano veramente e in meglio dobbiamo chiederci: abbiamo indossato il vestito migliore?
I link di alcuni interventi sullo stesso tema:
Osservatorio Democratico sulle nuove destre – L’ultimo travestimento di Forza Nuova – 2 dicembre
Contropiano – Forza Nuova si camuffa e cerca confusioni “rosso-brune” – 4 dicembre
INFOaut – Quando Millennium People è sotto casa – 9 dicembre
connessioni precarie – I Forconi e qualcosa di più? – 10 dicembre
Giovani Comunisti Torino 2.0 – La Vandea dei forconi invade Torino. Un’interpretazione dell’attuale protesta sociale “dei forconi” – 10 dicembre
Militant – Rivolte tossiche o contraddizioni in seno al popolo? – 10 dicembre
Reattivamente – “L’inizio della fine” – 10 dicembre
Aldo Bonomi – “Sono l’Italia che non c’è più, travolta dalla crisi” – 11 dicembre
Vilma Mazza/GlobalProject – Dire la verità. Cercare il bandolo nella matassa della crisi – 11 dicembre
INFOaut – Dai diamanti dell’ideologia non nasce niente… – 11 dicembre
INFOaut – Da Piazza Statuto a Piazza Castello – 11 dicembre
Roberto Ciccarelli/La furia dei cervelli – Il forcone poujadista – 11 dicembre
Guido Viale/il manifesto – Siamo un po’ più uguali ai movimenti globali – 11 dicembre
Marco Revelli/il manifesto – L’invisibile popolo dei nuovi poveri – 12 dicembre
Salvatore Cominu/Effimera – I nodi vengono al pettine: i “Forconi” a Torino – 12 dicembre
Paolo Ferrero/PRC – Nota sul movimento dei forconi – 14 dicembre
Franco “Bifo” Berardi/Effimera – I forconi e la deflagrazione dell’Europa – 15 dicembre