di Sandro Moiso
E’ di questi giorni (19 novembre) la notizia della rottura delle trattative tra proprietà e sindacati sul destino di 1.400 lavoratori della Indesit, con l’apertura della procedura di mobilità, per gli stessi, da parte dell’azienda. In sé la notizia non rappresenterebbe una grossa novità, in un paese in cui chiusura di aziende, mobilità e cassa integrazione per i lavoratori e licenziamenti sono ormai all’ordine del giorno.
Ma, in questo caso, vale la pena di soffermarsi sul caso Indesit perché esso può ben rappresentare una sorta di modello per ciò che da anni, su queste pagine, si va denunciando ovvero la mentalità da autentico capitalismo da rapina (mordi fin che puoi e, poi, fuggi) che contraddistingue la classe dirigente italiana con la sua scarsa propensione agli investimenti produttivi, la sua attitudine alla fuga dalle responsabilità gestionali e dalle alleanze industriali e, per finire in bellezza, la sua assoluta mancanza di attenzione, per dirla ancora con un eufemismo, per il territorio e i cittadini che vi risiedono.
Atto I
L’Indesit, la Regina del bianco, la principale azienda produttrice di elettrodomestici in Italia, ha una storia piuttosto lunga. Fondata nel 1930 nelle Marche, a Fabriano, come Industrie Merloni, da Aristide Merloni, l’azienda si dedica inizialmente alla produzione di bilance, per arrivare agli inizi degli anni ‘50 ad avere una quota di mercato del 40% nel comparto. Pochi anni dopo è avviata la produzione di bombole per il gas liquido e di scaldabagno. Progressivamente entra nella produzione di elettrodomestici, e nel 1960 crea il marchio Ariston.
E questo cosa c’entra con i temi soliti di Carmilla? Cos’è una pubblicità indiretta, forse? Mugugnerà già qualche lettore, ma, c’è sempre un ma, state attenti: il settore degli elettrodomestici è uno dei settori trainanti del boom economico degli anni sessanta, insieme a quello dell’auto. Quindi stiamo parlando del cuore del capitalismo industriale italiano degli anni sessanta, settanta e successivi.
Infatti nel 1975 la Merloni viene riorganizzata in tre aziende autonome:
• Merloni Elettrodomestici S.p.A., la divisione elettrodomestici, dal 2005 Indesit Company
• Merloni Termosanitari S.p.A., la divisione termoidraulica, poi Ariston Thermo Group
• Antonio Merloni S.p.A., la divisione meccanica
La Merloni Elettrodomestici diviene rapidamente la più grossa azienda nazionale del settore e acquisisce varie società e marchi come Indesit, Scholtés e Hotpoint. L’azienda è specializzata nella produzione e commercializzazione di lavabiancheria, asciugabiancheria, lavasciuga, lavastoviglie, frigoriferi, congelatori, forni e piani cottura , mantenendo negli anni la struttura proprietaria famigliare tipica del capitalismo italiano.
Indesit Company diventa il primo produttore in Italia e terzo produttore in Europa per quote di mercato (rispettivamente 25% e 11%), mentre la Antonio Merloni S.p.A, specializzatasi nella produzione di frigoriferi, congelatori, lavastoviglie, lavatrici e asciugatrici, per conto terzi e con il marchio Ardo, nonostante avesse assorbito nel 2000 l’azienda svedese Asko, produttrice di elettrodomestici, e leader nella distribuzione del settore in Nord Europa, nel 2008 viene travolta dalla crisi, che porta alla chiusura di due stabilimenti, e al procedimento di amministrazione straordinaria perché dichiarata insolvente avendo debiti per 543,3 milioni di euro. Così, dal 2010, si sarebbe fatta avanti per l’acquisizione dell’impresa, la China Machi Holdings Group, holding finanziaria cinese anche se, nel settembre del 2011, viene approvata la vendita dell’intero perimetro industriale all’imprenditore Giovanni Porcarelli, titolare della QS Group di Cerreto d’Esi, che avrebbe dovuto riassumere 700 dei circa 2300 dipendenti. Tra le principali attività della nuova società ci sarebbero lo stampaggio di materie plastiche e metalliche nonché la produzione di elettrodomestici di nicchia o professionali.
Atto II
Oggi però, come si diceva all’inizio, è la Indesit Company ad essere in crisi. A gestirne le possibili soluzioni è stata chiamata, guarda caso, la Goldman Sachs International e l’opinione più diffusa è che la famiglia Merloni finirà per cedere il controllo del gruppo, magari restandone azionista. E anche in questo caso si sta verificando se esistono le condizioni per chiudere l’operazione con l’entrata nel capitale di un socio cinese.
I cinesi sono riusciti infatti, negli ultimi anni, a conquistare quote importanti di mercato nel settore degli elettrodomestici bianchi, a livello internazionale, mettendo in discussione la leadership della Bosch Siemens (Germania), Electrolux (Svezia), Whirlpool (U.S.A.) e dei produttori italiani. E hanno, inoltre, una disponibilità di capitali liquidi molto elevata derivante da una crescita annuale che continua ad essere, nonostante la crisi economica internazionale, intorno alle due cifre percentuali del Pil.
Mentre, a detta degli esperti, il destino dell’industria del bianco italiana sembra essere ormai segnato: “non siamo riusciti a creare un campione nazionale per la difficoltà, tipica degli imprenditori italiani, di dare spazio ad iniziative comuni o alleanze. Alla fine prevalgono sempre logiche di campanile, la propensione a difendere ad ogni costo e contro ogni evidenza la propria autonomia, rivalità radicate nel tempo e incomprensioni reciproche che hanno impedito di fare gli accordi necessari. Ma da soli era impossibile farcela. E infatti è andata proprio così.”1
In attesa dell’entrata trionfale dei cinesi nella produzione di elettrodomestici “italiani” c’è da registrare anche la ventilata chiusura di quattro stabilimenti italiani della svedese Electrolux e il loro, più che probabile, trasferimento in Polonia. “Il motivo è molto semplice: il costo del lavoro in Polonia è meno della metà di quello italiano […] E infatti l’industria polacca, ma anche quella cinese e turca, sta conquistando quote di mercato sempre più importanti, per tutti Indesit è una preda perfetta; il marchio è prestigioso, le posizioni di mercato in Europa sono importanti, il controllo di una sola famiglia non è più sufficiente a tener botta. I nuovi protagonisti, soprattutto cinesi come l’Haier group, hanno dimensioni difficili da contrastare che, tra l’altro, permettono investimenti massicci in ricerca e sviluppo”2
Siamo alle solite: pochi o scarsi investimenti e “necessità” di abbassare il costo del lavoro contraddistinguono, da molto tempo ormai, il capitalismo italiano come l’accordo mancato alla Indesit, tra l’altro, prevedeva: “L’azienda marchigiana, per venire incontro alle esigenze dei suoi lavoratori aveva aumentato gli investimenti da 70 a 83 milioni, riportando a Fabriano la produzione dei forni oggi realizzata in Spagna e a Caserta quella dei frigoriferi attualmente delocalizzata in Turchia. Ma anche il sacrificio chiesto ai lavoratori non era di poca cosa, perché ai dipendenti si chiedeva di rinunciare a parte dello stipendio per attivare le misure straordinarie previste, e continuare a lavorare tutti, ma a singhiozzo. Inoltre i due stabilimenti nelle Marche e i due siti nel casertano dovevano essere accorpati per minimizzare anche i costi di logistica”3
Atto III
Ma un particolare mancava ancora per completare il quadro: quello dei rifiuti tossici e dei rapporti con la criminalità organizzata. “Vittorio Merloni è stato presidente di Confindustria tra il 1980 e il 1984, anno in cui è diventato pure Cavaliere del Lavoro; oggi è membro del Consiglio per le relazioni tra Italia e Stati Uniti e siede nel cda della Telecom. – ma come “L’Espresso” e RE Inchieste hanno però rivelato, nonostante le smentite dell’azienda – la Indesit è anche l’unica grande azienda individuata «con certezza», si legge in una riga nell’ultima relazione della commissione parlamentare sui rifiuti del febbraio 2013, «come produttore dei rifiuti avvantaggiato dall’opera del cartello criminale» dei casalesi”.
“Il documento trovato è devastante: la polizia criminale scrive che nel periodo 1994-1996 (gli anni d’oro del traffico illecito di monnezza, ndr) era «in essere nel settore della raccolta e smaltimento dei rifiuti prodotti, verosimilmente anche tossico-nocivi data la natura stessa della produzione di questa struttura industriale, un rapporto esclusivo tra Chianese e i “manager” della Indesit Merloni».
Al telefono con l’avvocato considerato l’inventore dell’ecomafia e proprietario della discarica Resit ci sono «Ghirarducci» ed «Esposito», «probabilmente alti dirigenti della Indesit» (mai individuati né indagati, così come non risulta indagato nessuno dei dirigenti del gruppo che oggi si chiama Indesit Company) che avrebbero sfruttato i rapporti d’affari con il broker del gruppo criminale per far scomparire a poco prezzo gli scarti delle fabbriche dei Merloni.[…] Nella vicenda tragica della Terra dei Fuochi c’è sempre stato un convitato di pietra: dopo 25 anni di sversamenti illeciti le inchieste della magistratura (“Adelphi” e “Cassiopea” su tutte) hanno individuato in parte le responsabilità dei camorristi, ma nessuna luce è stata mai accesa sulle aziende che pagavano i clan. «Sono aziende del Nord, anche di altri paesi europei», hanno ripetuti i pentiti Carmine Schiavone e Gaetano Vassallo, senza fare nomi. Spesso le intercettazioni hanno registrato le voci dei mediatori del Centro e del Nord Italia, ma non sono mai state effettuate indagini esaustive sui clienti “finali” dei broker: gli industriali del Nord non incontravano mai gli emissari del casalesi. E, di fatto, l’hanno fatta franca.[…] La Criminalpol aveva sospetti pesanti, ma tutta l’attività di indagine è finita in una bolla di sapone. I dirigenti intercettati dell’Indesit non sono mai stati indagati, e neppure interrogati. E se le ipotesi investigative d’allora avessero avuto una rilevanza penale, oggi rischierebbero di essere prescritti. Roberto Mancini, l’ispettore che seguì le indagini, ora lotta contro il cancro: «Non è stato facile portare avanti l’indagine, ho avuto mille ostacoli» ricorda. Peccato: perché il sistema criminale messo in piedi dai Casalesi che ha avvelenato falde e terreni e avvantaggiato molte aziende del Nord si sarebbe forse potuto scoprire vent’anni fa. In troppi hanno ostacolato la ricerca della verità.”4.
La quadratura del cerchio di classe si conclude qui. La vicenda Merloni/Indesit deve insegnare, ancora una volta, che questo capitalismo e questa classe dirigente non hanno più né autorità né, tanto meno, alcuna dignità o merito. Hanno svenduto il lavoro e la salute dei cittadini così come gli asset proprietari delle loro miserabili aziende.
Oggi in Italia la lotta di classe deve unire lavoro e ambiente, come già sta facendo, e dovrà quindi sempre più svilupparsi sul territorio, unendo tra di loro realtà diverse, apparentemente, per esigenze e origini, ma unite dal comune denominatore della difesa dei bisogni primari. Inoltre pone all’ordine del giorno parole d’ordine che non prevedano la semplice richiesta o difesa di posti di lavoro, perché ciò può essere accontentato ormai solo attraverso la realizzazione di condizioni di lavoro e di salario sempre peggiori. Oggi si pone già la necessità del ribaltamento sociale in nome della specie e dell’ambiente in cui vive e con cui convive. Tutto il resto appartiene ormai al passato. E, come tale, è morto e sepolto.
“L’ora più buia è sempre quella prima dell’alba” (David Crosby)
Riccardo Monti in Fabio Tamburini, Faro cinese su Indesit. Il fronte orientale va all’attacco, Corriere della sera, inserto Economia, del 18 novembre 2013, pag. 11 ↩
F. Tamburini, art. cit. ↩
Sara Bennewitz, Indesit apre alla mobilità, La Repubblica, 19 novembre 2013,edizione on line ↩
Luca Ferrari, Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian, Rifiuti tossici in Campania. Spunta l’Indesit dei Merloni, L’Espresso, edizione on line, 22 novembre 2013 ↩