di Danilo Arona
Quando un noir ambientato nella provincia degli anni quaranta riesce al contempo a immergersi nella mota politica mantenendo un’accezione a dir poco metafisica, non si può che esclamare: chapeau! Sono miracoli non della fede, ma del DNA del grande narratore. Di chi conosce le periferie e il loro grigiore esistenziale, di chi coltiva un’idea umile e per questo vincente della letteratura di genere e di chi sa elevare un contesto localistico a respiro universale.
Non è da oggi che si sostiene che il noir, nella sua più ampia declinazione, sia il vero filone in grado di parlarci dell’uomo oggi, ma pure dell’uomo di ieri nella prospettiva della decadenza contemporanea. Quando si va oltre il genere per raccontare quello che fermenta “aldilà”, siamo dalle parti di Paco Taibo II, di Laura Grimaldi e di Luigi Bernardi. Insomma, abbiamo appena messo il naso e gli occhi in un fottutissimo capolavoro.
Titolo, L’uomo dei temporali (Rizzoli) di Angelo Marenzana, mio conterraneo in quel di Bassavilla/ Alessandria. Il libro ci introduce alla terza avventura del commissario Augusto Bendicò (la major per ovvie motivazioni di marketing la spaccia per prima, ma non è vero…), funzionario di polizia triste e cinico suo malgrado, che opera negli anni del regime e della guerra. L’indagine che lo riguarda non è particolarmente complicata o ricca di fastidiosi colpi di scena ogni due pagine però ti prende alla gola. Soprattutto se ami la provincia inquieta. La Città Grigia – che qui assurge a mitologema per tutte le altre in un’Italia Grigia – che Marenzana restituisce, alla vista e alla coscienza (e alla memoria), con affilata e nitida scrittura è autentica culla del seme inquieto dalla quale poi è scaturita la nostra generazione, quella degli anni Cinquanta. Si “vede”, si annusa una “bassavilla” che io non ho mai potuto vedere e l’autore, anche lui logicamente privo di testimonianza diretta, me la fa “toccare” con l’abilità straordinaria di chi se ne porta l’essenza nell’anima. Marenzana dunque compie un’operazione, che presumo proprio non essere a tavolino ma che nasce da un profondo “de palea” – le origini paludose di Alessandria… – antropologicamente remoto e inalienabile dal suo DNA , a mia memoria paragonabile a certi racconti , sempre più rari purtroppo, delle nostre sopravvissute madri quando si lasciano andare con straordinaria lucidità agli anni Quaranta, ai terrori notturni di Pippo, alle odiose vessazioni delle squadracce e ai tristi destini delle famiglie ebraiche. Capirete che non è poco. Perché le nostre madri, laggiù e in quel tempo, ci sono transitate e i traumi di quegli anni stanno ancora tutti lì, dentro di loro, a germinare e a produrre ammonimenti preziosi per ogni generazione a venire. Tutto ciò diviene possibile e fruibile per quella “stoffa del grande narratore” di cui dicevamo, quella dell’autore che si lascia invadere dallo psichismo collettivo, passato e presente, di una città (e solo qui rubo qualche parola alle note ufficiali…) in bianco e nero dal cielo sempre velato che attende sospesa.
Che attende chi o che cosa? Citando Bradbury, Qualcosa di Sinistro che sta per accadere, ma soprattutto l’Uomo dei Temporali. Un fantasma, chissà di quale mente, che aleggia come metafora di un’umanità che vuole sopravvivere anche pagando costi troppo alti e/o sottobanco. Alessandria, 1940, non così troppo lontana.
E, capisco, non ho detto una parola sulla trama. Ma per consigliarvi il fottutissimo capolavoro non serve. Resterebbe poi da approfondire, ma l’appuntamento è solo rimandato di poco, perché da questa città, ma non solo da questa, sta nascendo un filone grigio (anche noir e pure horror) con nomi di rango quali Massobrio, Bona, Morbelli, Candida e non pochi altri. Il fatto è che la Grey City nasconde centinaia di scheletri in altrettanti armadi.