di Mauro Baldrati
Caso abbastanza inusuale in Italia, Kill your darlings (italianizzato in Giovani ribelli) ha avuto alcune stroncature. Questo l’argomento principale: sono solo dei giuggioloni, i beat erano un’altra cosa. Altra merce.
Però Allen Ginsberg, in una intervista, ha detto: eravamo un gruppo di amici che volevano scrivere e pubblicare, tutto il resto è stato inventato dopo.
Dopo.
Quel gruppo di amici cercava soprattutto qualcosa. L’innocenza perduta, la libertà. Cercava la vita, in tutti suoi aspetti, con una intensità spinta fino all’autodistruzione. Se mai sono diventati un’entità sociale, un movimento letterario-esistenzialista, questo è avvenuto dopo. E il tutto è stato anche influenzato dalle esigenze editoriali, come spostare la scena del più grande testo beat, I sotterranei di Kerouac, da New York a San Francisco, diventata di gran moda.
Eppure alcuni difetti, peraltro non secondari, offrono il fianco a queste critiche. Soprattutto per la pessima scelta di due attori che interpretano personaggi niente affatto secondari.
Siamo nel 1944, Allen Ginsberg ha ricevuto la lettera di accettazione alla mitica Columbia University, con grande gioia del padre, un poeta molto conosciuto in patria. Quindi parte, lasciando Mr Ginsberg e la madre, che soffre di una grave forma di “esaurimento nervoso” (così si diceva una volta). E qui sorge il primo problema: Daniel Radcliffe è troppo gracile, imberbe, e per quanto ci provi non riesce a scrollarsi di dosso la body-mask di Harry Potter. Forse non è giusto obbligare qualcuno a farsi carico a oltranza dello stesso personaggio (avviene spesso anche in letteratura, con autori condannati a scrivere sempre nuove avventure del tale investigatore), ma che colpa abbiamo noi se Marketing Selvaggio ne ha fatto un cyborg col carapace del “maghetto” fissato a fuoco? Ci vorrà ancora tempo.
Arrivato al campus, dopo un periodo di assestamento, conosce i tipi giusti (almeno per lui, e soprattutto per noi): Lucien Carr, col quale dividerà la stanza, la contestazione ai parrucconi dell’università, la voglia di leggere i “testi proibiti”, Tropico del Cancro, Ulysses, Une Saison en enfer. Questo personaggio è perfetto: bello, perverso, privo di qualsiasi talento che non sia avvelenare l’anima di certi intellettuali tormentati da fantasmi interiori. I tipi come lui hanno fatto svalvolare tutte le rotelle di Gustav Aschenbach ne La morte a Venezia, del Narratore de La Recherche per Albertine (che nel romanzo ha il sesso cambiato, il modello reale principale era Alfred Agostinelli, autista e amante di Proust), di Paul Verlaine per Rimbaud, e ovviamente lo stesso Ginsberg, molto vulnerabile agli amori totalizzanti e devastanti.
Ginsberg-Potter, sempre un po’ troppo serio, equilibrato, narratore distaccato simil-naturalista, quasi un clone di Alice Toklas, conosce William Burroughs, e anche qui ci siamo: sempre dotato di droghe e droghette, imperturbabile, elegante come il perfetto rampollo wasp che era, con la battuta pronta che spiazza, è credibile e divertente.
Poi arriva Jack Kerouac, un’altra falla clamorosa. Ci si chiede come abbiano potuto il regista John Krokidas, il produttore, lo sceneggiatore, il direttore del casting, fare una scelta simile. Kerouac era massiccio, squadrato, qui è magrolino e rotondo. Era timido, fragile (fragilità che cercava di combattere con l’abuso di alcol), ne hanno fatto uno spaccatutto enfatico, una specie di parodia di Dean Moriatry-Neal Cassady, quando sappiamo che Dean-Neal gli è servito proprio per proiettare sul personaggio letterario ciò che lui non riusciva a essere.
Se il film fosse tutto qui sarebbe davvero insipiente e inutile. Tanto più che è unicamente al maschile, a parte una comparsa che interpreta la fidanzata trascurata di Kerouac. Si riscatta con la ricostruzione di una storia realmente accaduta. Lucien Carr, bello e maledetto, era insidiato da David Kammerer, intellettuale raffinato diventato bidello unicamente per stargli vicino. Oggi potremmo parlare di “stalking”. Lo segue ovunque, non accetta di essere lasciato, lo supplica, lo minaccia. Come non evocare il barone di Charlus, il “donzello di Francia” tracotante, aggressivo, che si umilia fino a ridursi polvere e sterco per correre dietro all’amante bugiardo e fedifrago. Ovviamente anche Ginsberg perde la trebisonda per Carr. Questo rapporto a tre, dominato dall’eroe rimbaldiano che tutto sregola, è gestito piuttosto bene. Il demonio tentatore, menzognero e senza scrupoli, scaraventa gli altri due nei loro inferni privati, incubi, gelosie feroci, illusioni, deliri erotici.
Il gruppetto cerca di fondare una cellula segreta di ribellione letteraria, organizza un blitz situazionista rischiando di finire il galera pur di sostituire i libri-simbolo della Columbia, (tipo la prima edizione di Amleto, cose così), coi testi proibiti; si drogano (ma sembra che facciano colazione), un po’ di sex tutto sommato abbastanza “normale” (sappiamo invece che erano predisposti per le ammucchiate abbastanza toste).
Fino al ras finale, un omicidio che fece discutere tutto il paese, con una sentenza ultra-soft in quanto la vittima fu giudicata un “predatore omosessuale”, elemento che poteva addirittura fare assolvere il suo assassino.
Giovani ribelli in definitiva approfitta dell’onda lunga del mito, riesce a sottrarsi al pericolo di fare di se stesso una nuova, stucchevole versione de L’attimo fuggente, è recitato bene ma anche malissimo, rilascia immagini forti nello spettatore e al contempo qualche imbarazzo per la sua superficialità.
C’è comunque un dettaglio interessante: la sala di proiezione bolognese era piena di giovani e giovanissimi, attenti, silenziosi e coi telefonini spenti. Potrebbe essere il segnale incoraggiante che la memoria storica, nel paese più teledipendente del mondo, non è ancora del tutto estinta.