di Elena Ritondale
Diego Enrique Osorno, Z La guerra dei narcos, La Nuova Frontiera, Roma 2013, pp. 377, € 15,00
“La violenza messicana richiede un coinvolgimento personale per essere compresa”. Diego Enrique Osorno, svela il proprio coinvolgimento e suscita empatia anche nel lettore più assopito fin dalle prime pagine di Z La guerra dei narcos, uno dei momenti più avvincenti della nuova crónica messicana. Il genere, i cui albori risalgono ai diari di bordo dei primi conquistatori, ha vissuto alterni momenti di fortuna e oggi è uno dei canali privilegiati dagli scrittori messicani per raccontare l’orrore del narcotraffico e della guerra che lo Stato ha dichiarato alle principali organizzazioni criminali. E questo grazie alla capacità degli autori di coniugare i propositi più alti del giornalismo con l’espressività della letteratura di finzione.
Osorno, giornalista trentatreenne già vincitore del Premio Internacional de Periodismo, riesce con Z in un’impresa non facile: rovescia sul lettore nomi, date, cifre, cartine geografiche, retroscena e ipotesi, senza mai cedere alla fredda didascalia. Ingaggia una battaglia contro il silenzio, come ad esempio quello sulle fosse comuni nel deserto: molte delle persone scomparse durante le fasi più cruente del conflitto, non sono mai state dichiarate. Alcune non hanno neppure avuto diritto a un certificato di morte. L’autore sottolinea la raucedine dei mezzi di informazione di massa, quando riflette sul legame fra cronaca e memoria: “E mi chiedo, come sarà possibile tra cinquant’anni denunciare quello che sta succedendo nel Tamaulipas se già il giorno dopo non esiste nessun tipo di testimonianza degli scontri che avvengono quotidianamente? So che il silenzio che oggi regna nel Tamaulipas non è sorto dal nulla. Per funzionare il silenzio ha bisogno di uno scrupoloso apparato di repressione. Ha bisogno di fosse clandestine, di governanti illegittimi, della forza dei mitra cuernos de chivo, del degrado economico, di una polizia corrotta e di una società civile in letargo”.
Con un linguaggio semplice e diretto, di chi è cresciuto professionalmente nelle redazioni dei quotidiani, lo scrittore lamenta tuttavia l’inadeguatezza dell’informazione di massa nel contesto della guerra al narcotraffico. Le notizie sui quotidiani, brevi, sempre uguali e con formule stereotipate, non arrivano veramente a nessuno. Sono scritte sulla sabbia.
Osorno invece sceglie per il suo racconto un respiro ampio. Alle dichiarazioni lampo preferisce citazioni estese, talvolta interi brani tratti da interviste o dialoghi.
Il suo focus si stringe sulla dimensione locale quando riporta le opinioni della gente comune, i nomi delle strade in cui hanno luogo gli scontri, le storie delle vittime e dei testimoni più sconosciuti. Si allarga quando suggerisce i nessi fra l’attuale traffico di droga in Messico e il contesto caraibico, svelando ad esempio i legami fra boss messicani e cartelli colombiani. Diventa ancora più ampio quando inserisce la guerra messicana nell’ambito di un conflitto neoliberale, citando l’accordo Nafta di libero commercio fra Messico, Stati Uniti e Canada.
Ciò che stordisce, in Z La guerra dei narcos, è la molteplicità di informazioni, punti di vista, voci. Per essere sicuro di rompere definitivamente il silenzio, Osorno alterna l’ufficialità del racconto giornalistico alle voci confuse della strada, ai brani hip hop e ai corridos che esaltano le gesta di qualche capo del narco. Include l’agghiacciante comunicazione visiva dei comunicati su YouTube e le scritte dei manifesti che gli Zetas lasciano in autostrada per reclutare soldati sottopagati dell’esercito messicano, invitandoli a disertare.
Il testo di Osorno è soprattutto eterogeneo: parla la lingua di una moltitudine riflettendo sulla lingua di questa moltitudine. Così apprendiamo che un bambino messicano a cui, per prudenza, i genitori hanno vietato di pronunciare alcune parole riconducibili ai narcotrafficanti, usa “fiocco di neve” ogni volta che vuole dire qualcosa al riguardo. Veniamo a conoscenza di termini come “prelevamento”, “aquile” e di espressioni quali “quelli dell’ultima lettera”, “quelli delle molte lettere”, “quelli che non sono nessuno”. Formule che conducono a un universo saturo di terrore, costretto all’utilizzo di metafore e iperboli per descriversi.
Il racconto di questo cosmo passa sempre per l’udito e per la voce dell’autore. Fedele a una tendenza consolidata del periodismo literario, Osorno rende se stesso narratore, parte della narrazione. Non omette di contestualizzare l’informazione che fornisce. Il particolare è qui al servizio del generale. L’oggettività della narrazione si fonda sul rigore nella verifica dell’informazione, mai sull’esclusione del punto di vista soggettivo dell’autore.
Così, ad esempio, riporta anche appunti di lavoro personali e, nella seconda parte del libro, diversi capitoli tratti dal diario di un boss.
Fatto e contesto si fondono, perché il secondo è la chiave per comprendere il primo.
L’autore non fornisce risposte definitive ma è molto abile a suggerire al lettore alcune domande. Agisce così, ad esempio, quando racconta l’accanimento dei sicari contro i lavoratori della Pemex, l’industria petrolifera messicana. I morti delle fabbriche e quelli della frontiera, i migranti centroamericani uccisi dai narcotrafficanti, sembrano avere la stessa spiegazione: agli Zetas non interessa il traffico di droga ma il controllo del territorio, un territorio di passaggio ricchissimo di giacimenti minerari e pozzi di petrolio.
Quando ci troviamo di fronte a questa rivelazione, sussultiamo. Perché Osorno lo svela dopo averci tirato per le orecchie da Monterrey a Matamoros, passando per Ciudad Mier, San Fernando e decine di inferni diversi.
Talvolta si rischia di perdere il filo: l’ambizione giornalistica del racconto esauriente disorienta il lettore, spesso costretto a recuperare un nome perso chissà quante pagine e fatti prima. Si tratta di uno dei pochi limiti del testo.
Chi legge però perdona questa piccola debolezza, per due ragioni. In primo luogo perché l’empatia del lettore non è rivolta solo ai protagonisti delle storie che Osorno racconta ma in primo luogo a lui. Inoltre perché, nella mole possente di informazioni, ciascuno può individuare facilmente un filo rosso, un certo numero di fatti salienti che conducono alla tesi dell’autore: ciò che accade in Messico non può essere liquidato come “esplosione di cieca violenza”, proprio perché gli autori di quelle violenze hanno un’ottima vista e hanno individuato da tempo obiettivi e strategie.