di Franco Ricciardiello
“So bene che una metafora organica della società è una metafora fascista; ma i problemi che abbiamo possono essere descritti in maniera fascista. Abbiamo problemi di ordine, di sangue, di suolo, problemi di violenza, problemi di potenza e di uso della forza.” Dopo il premio Goncourt 2006 a un lungo romanzo di guerra (“Le benevole” di Jonathan Littell), la giuria del maggiore premio letterario francese si ripete nel 2011 con “L’art français de la guerre” dell’esordiente Alexis Jenni. Il libro, in traduzione presso Mondadori, è un viaggio di 775 pagine attraverso la decolonizzazione: la Francia in guerra per vent’anni ininterrottamente, dalla resistenza contro il nazismo all’indipendenza dell’Indocina, per finire con l’interminabile battaglia di Algeri.
Punto d’arrivo è la violenza oramai endemica con cui oggi nelle periferie urbane si riduce a un problema di ordine pubblico la questione dei francesi d’origine coloniale, e che per l’autore ha le sue radici nella resistenza alla perdita delle colonie: “Vent’anni, le guerre si succedevano, e ciascuna lavava con un colpo di spugna la precedente, gli assassini di una sparivano nella seguente. Perché ne produceva di assassini, ciascuna guerra, a partire da gente che non avrebbe picchiato il proprio cane, che nemmeno sognava di combattere, alla quale si consegnava una moltitudine di uomini legati e nudi, li si faceva regnare su greggi di uomini mutilati dalla colonizzazione, masse di cui neppure si conosceva il numero, della quale era necessario abbattere una parte per salvare il resto, come si fa con le bestie per prevenire l’afta epizootica.”
Alexis Jenni, professore di liceo di Lione alla sua prima pubblicazione assoluta (l’ed. Gallimard ha accettato il manoscritto dopo averne rifiutato anni prima un precedente), afferma che il romanzo si inserisce nel dibattito nazionale sull’identità francese sviluppato sotto la presidenza Sarkozy. La trama è divisa in due parti, a capitoli alterni: inizia nel gennaio 1991 quando la voce narrante (non ha un nome, ma per alcuni spunti autobiografici possiamo immaginarlo come alter-ego dell’autore) osserva in televisione i preparativi della coalizione internazionale contro l’Iraq, all’indomani dell’invasione del Kuwait. Comincia a interrogarsi su un’ingiustizia, la differenza con cui vengono considerate le perdite occidentali ricordate per nome e cognome e i caduti degli “altri”, non solo senza identità ma persino senza numero.
Durante una crisi personale che lo porta al licenziamento sul lavoro, incontra in una brasserie della periferia di Lione un ex paracadutista in pensione, circondato dalla fama di combattente delle guerre coloniali. L’uomo, Victorien Salagnon, è un pittore a tempo perso che la domenica vende al Marché aux Artistes le chine disegnate in anni e anni di guerra oltremare. Il narratore ne rimane così colpito da domandare all’ex ufficiale di insegnargli a disegnare. Non è naturalmente solo l’arte del pennello che impara durante le sedute nell’appartamento di una periferia desolata, perché la trama alterna i capitoli “Commentari” ai “Romanzi”, nel quali il punto di vista è di Victorien Salagnon.
I Romanzi diventano da subito autonomi dalla narrazione, lunghi flashback che seguono la vita del protagonista da quando è adolescente e dai campi di lavoro per la gioventù passa direttamente alla Resistenza. Dopo la cacciata dei nazisti, pur di non tornare in una famiglia che disprezza, sceglie di continuare l’unica cosa che ha imparato finora: la guerra. La sua formazione sul campo avviene in Indocina, dove la Francia è tornata per riprendersi le ex colonie che si sono scrollate di dosso gli occupanti giapponesi. Qui però si ritrova in una tragica distorsione della resistenza contro il nazismo, dalla parte di chi somministra il terrore: “Il terrore è uno strumento elaborato, consiste nel crearci intorno il panico che sgombra la strada. Allora avanziamo tranquillamente e i nostri nemici perdono sostegno.”
In convalescenza per una ferita riportata durante una ritirata dalle montagne, Salagnon diventa allievo di un anziano annamita che gli insegna l’arte orientale del pennello, la stessa che molti anni dopo impressionerà il narratore al Marché aux Artistes di Lione. Sconfitta militarmente dal Việtminh, la Francia evacua il sudest asiatico, e quasi subito si trova impantanata in una nuova guerra d’indipendenza molto più vicina, sulla sponda meridionale del Mediterraneo: la sollevazione dell’Algeria, che viene considerata territorio metropolitano. Ad Algeri vive anche Eurydice Kaloyannis, l’infermiera conosciuta in Francia della quale Victorien è innamorato. E la città diventa il campo di una furibonda battaglia con tre attori tragici: gli arabi, i coloni detti Pieds Noirs e i reparti speciali dell’esercito che di nuovo ricorrono a arresti illegali, tortura, esecuzioni sommarie. Nella spietata battaglia di Algeri affondano le radici della violenza urbana della Francia di oggi, che considera “nemico” chi è riconoscibile in base a una pretesa differenza di razza, “gli altri”. Forse l’interesse di Victorien per l’arte lo salva dal coinvolgimento ideologico nella repressione, ma rimane sempre in un angolo della sua coscienza il timore di trasformarsi in un nazista: “Vedi, nei fascisti oltre alla semplice brutalità, alla portata di tutti, c’è una sorta di romanticismo mortuario che gli fa dire addio alla vita nel momento in cui è più forte, una gioia cupa e esaltata che gli fa disprezzare la vita, la propria come l’altrui. C’è nei fascisti un divenire-macchina malinconico che si esprime nel minimo gesto, nella minima parola, si vede negli occhi che hanno uno scintillio metallico.”
Il valore vero, tragico di questo premio Goncourt sono i Commentari, perché è lì che assistiamo agli effetti perversi delle guerre coloniali sulla Francia di oggi. L’odio e il risentimento di una lotta senza quartiere vengono importati insieme ai Pieds Noirs evacuati con la fine dell’Impero coloniale. “La razza sopravvive a tutte le confutazioni, perché è il risultato di un’abitudine di pensiero anteriore alla ragione. La razza non esiste, ma la realtà non le dà mai torto. […] La razza è un concetto idiota ed eterno. Non c’è affatto bisogno di sapere ‘cosa’ si classifica, l’importante è classificare. Il pensiero razziale non richiede né disprezzo né odio, si applica semplicemente con la febbrile minuzia dello psicotico, che sistema in scatole differenti e ben etichettate le ali della mosca, le zampe e il corpo. […] Afferrano il vento e tutti credono che il vento esista. Il vento si deduce dai suoi effetti, come la razza si desume dal razzismo. Hanno già vinto, tutti pensano come loro, a favore o contrari poco importa: si crede di nuovo a una divisione dell’umanità.”
Non è quindi una forzatura letteraria che quando il narratore domanda a Victorien, nell’ultimo capitolo, se anch’egli sia stato uno di coloro che hanno torturato i sospetti, si senta rispondere: “Non si pensa a altro che a questo. Non è questo il problema.” “Io le parlo di tortura, e lei mi dice che è un dettaglio?” “Non parlo di dettagli. Dico che abbiamo fatto di peggio.” “E cosa allora? Cosa di peggiore?” “Abbiamo mancato nei confronti dell’umanità. L’abbiamo separata, mentre non c’era ragione perché lo fosse. Abbiamo creato un mondo in cui secondo la forma del viso, il modo di pronunciare il proprio nome, secondo la maniera di modulare la lingua che era comune, si è sudditi o cittadini.”