di Francesca De Luca
Non ho letto nulla sulle giornate del 18 e 19 ottobre a Roma. Non ho voluto leggere nulla. Ero curiosa,certo, come non esserlo? Ma non volevo essere influenzata dalle parole degli altri, non volevo che i loro pensieri potessero diventare parte dei miei. Ciò che è avvenuto a Roma in quei giorni deve essere raccontato così, senza filtri, esattamente come lo si è vissuto.
Due giorni di lotta, approfondimento, divertimento, speranza.
Occhi scrutatori cercavano i protagonisti di quei giorni: ogni racconto ha i suoi protagonisti e i propri personaggi. Se li individui, hai la chiave di volta che ti consente di avvicinarti all’essenza di ciò che sta avvenendo. Allora chi sono i protagonisti ignari della manifestazione dei sindacati di base? Sono i pompieri, ovvio. Con le loro tute ed i cartelli dalle scritte sgargianti si posizionano quasi in testa al corteo. I pompieri, coloro che affollano l’immaginario di adulti e piccini: i sexy eroi, o coloro che salvano i gattini dagli alberi. Ma sono molto di più: sono uomini e donne che ogni giorno rischiano la vita. Sarebbe solo vuota ed inutile retorica se non fosse necessario ricordarlo. Rammentare a ognuno di noi che il governo ha pensato di tagliare i fondi proprio a loro, gli “eroi”. E se un barista, sul treno di ritorno, mi racconta di guadagnare quasi tremila euro per spinar birre mentre un pompiere percepisce un netto in busta che di poco supera i mille euro, abbiamo il senso di questa follia italiana.
I pompieri ma anche i disoccupati, gli inoccupati, gli sfruttati, i sena diritti, di varie età, di diverse origini, la bandiera dell’USB alla mano, non hanno temuto di chiedere i propri diritti. Un corteo colorato, persone diverse anche per provenienza e vissuto personale, accumunate dall’idea che l’essere umano non è in svendita, che la spending review è inaccettabile e così il patto di stabilità che strozza i comuni quando i comuni siamo noi.
Arrivati in piazza San Giovanni ci si appropria di uno spazio; un esercizio, la metafora del tentativo di riappropriarsi un po’ della propria vita. Cominciamo dalla piazza. Per alcuni folli, come la sottoscritta, la piazza è casa. Cosa c’è di più bello di una piazza affollata, nella quale le persone scambiano sguardi, opinioni, idee, ciao e grazie? Abbiamo perso il senso della normalità e il banale diventa improvvisamente straordinario: è così che il confronto diventa un evento.
Tende che coprono il verde del prato, i 99 posse e la Banda Bassotti che musicano la nostra rabbia: la rabbia dei giovani senza futuro, la rabbia dei numerosi rifugiati politici senza diritti. E siamo tutti lì, in catarsi dinanzi ad una musica che racconta di noi. Chi è avezzo di manifestazioni racconta agli altri: i ricordi del g8 di Genova causano ancora uno strano luccichio negli occhi di molti, un bagliore di amarezza e rimpianto ma anche di gioia per esser stati lì a scrivere un pezzo di storia.
E poi la notte in tenda ed infine il risveglio. Un po’ brusco, in realtà, visto che alla mia compagna di dormite hanno rubato gli anfibi e si è ritrovata scalza. Ma questa è un’altra storia.
Le chiacchiere da cornetto e cappuccino, lavarsi il viso con l’acqua della fontana, non sentire il peso di una notte passata a dormir per terra.
L’inizio del corteo, che non partiva mai. L’attesa. La decisione di percorrerlo di lato, risalirlo a partire dall’ultimo spezzone, per avere una panoramica più ampia, più reale. Lo stupore.
Gente, tantissima, molta più di quanto ci si aspettasse. In Italia non abbiamo avuto i grandi movimenti di massa che hanno caratterizzato le lotte anticapitaliste del resto di Europa e dell’occidente (includiamo anche Occupy Wall Street). In Italia il dissenso è stato volutamente incanalato verso reali o presunte caste di privilegiati, inibendo un dibattito più complesso e articolato che identificava il sistema capitalista come il vero responsabile della crisi che ci attanaglia. Ci hanno convinti che il mondo non si divida tra sfruttatori e sfruttati bensì tra italiani e stranieri, tra “gente” e politici e così via. Ciò che è avvenuto a Roma, però, ha il sapore della consapevolezza diffusa che questo trucco smetterà presto di funzionare.
Certo, i partecipanti sarebbero potuti e dovuti essere più numerosi, non vi è dubbio. Facebook è un cattivo consigliere: se tutte le persone che quotidianamente vomitano la loro rabbia e il loro sdegno verso le politiche economiche messe in campo dal governo, se tutti coloro che giorno dopo giorno ci investono del loro malcontento si fossero riversati nelle piazze, allora ci sarebbero stati milioni, e non migliaia, di manifestanti.
In sintesi i social network fungono da un lato da “sfogatoio” di plurime rabbie represse e dall’altro da narcotizzante. Siamo il paese che pensa di poter cambiare le cose a suon di slogan e petizioni, non dobbiamo dimenticarlo. Ma proprio per questo la massiccia partecipazione alla due giorni romana infonde speranza; partiamo da qui. Volutamente evito di distinguere, come invece tristemente stanno facendo in molti, tra la giornata del 18, indetta dai sindacati di base e quella del 19, che ha visto come protagonisti i movimenti di lotta per il diritto alla casa. Se il nemico, il capitalismo, il neoliberismo o dir si voglia, si muove compatto contro di noi, sottolineare le differenze interne tra chi lotta sul fronte opposto è un regalo che non voglio concedergli.
Alla due giorni hanno partecipato disoccupati, cassaintegrati, inoccupati, giovani, tantissimi giovani, studenti e non. Nei cortei sfilavano le aspettative disattese, i sogni infranti, i diritti negati. Ma anche la volontà di lottare, la forza della determinazione, la voglia di non chiedere più ciò che ci spetta di diritto. Ci hanno educati a ringraziare quando ci concedono un decimo di ciò che ci spetta; impariamo a essere maleducati! Non ringraziamo più, e appropriamoci di ciò che manca. Se le leggi sono ingiuste, disobbedire è un dovere: è il motto che mi ha ispirata per tanto tempo. Ora anche questa logica merita un’evoluzione: se il mondo è ingiusto, lottare per cambiarlo è un dovere. Gli indifferenti, gli ignavi, erano colpevoli già secondo Gramsci e continuano a esserlo ancor più oggi, in Italia.
I migranti e i giovani, sono loro i veri protagonisti di queste lotte. I migranti delle occupazioni delle case, i migranti senza diritti e senza futuro. E’ da lì che si è partiti a sfondare il pavimento dei diritti; e una volta distrutto per loro, questo crolla sotto i piedi di tutti. I migranti ci hanno dato una lezione di civiltà e dignità, a Roma. Ci hanno dimostrato cosa significhi combattere ogni giorno per la riappropriazione della propria vita e ci hanno mostrato come questo si possa fare urlando, cantando, sorridendo, occupando una casa vuota che nessuno usa. I loro volti raccontano il coraggio di chi sa che non ha nulla da perdere, di chi è stanco di chiedere e inizia a pretendere. Scendendo in piazza; non come chi si nasconde dietro il velo del ricatto o come i rivoluzionari da bar che pensano di cambiare il mondo a suon di frase fatte e spritz.
Non c’è più tempo per fare gli snob; non c’è più tempo per le rivoluzioni alla grappa.
Afferriamo con forza tra le mani ciò che questa manifestazione ci ha regalato: senso di comunità, speranza, voglia di cambiare, consapevolezza che godere dei propri diritti non è un privilegio. Non facciamoci scappare l’ennesima buona occasione.