di Mauro Baldrati
Al di là dell’inevitabile can can mediatico con conseguente abuso di aggettivi superlativi, Gravity è un film onesto, equilibrato, ben fatto. Anche sincero, nella sua economia narrativa che non concede eccessi né incursioni nel fanta-thriller o negli effetti speciali fine a se stessi; o alle componenti esistenziali dei personaggi, che rappresentano un ingrediente obbligato nella filmografia industriale hollywoodiana. Cosa abbastanza inusuale, non esagera neanche con l’overdose di primissimi piani delle star.
Non che questi ingredienti siano assenti. Ci sono, stiamo parlando di un kolossal, ma ogni elemento ha uno spazio ben delimitato, e non sborda, non travalica. E’ un film tecnico, assemblato con rigore, sia nella parte tecnologica, sia in quella psicologica. Non ci si aspetti una indagine approfondita sulla solitudine dell’uomo (della donna in realtà, Sandra Bullock è praticamente l’unica attrice nell’ottanta per cento di tutto il film) nell’immensità dell’universo: però è una componente necessaria, presente quanto basta. Nella furia del movimento fisico, in tuta spaziale o in canottiera e pantaloncini, attaccata ai monitor o alle manopole delle navette dove cerca disperatamente rifugio, si interroga sulla vita terrena, sull’attaccamento alle cose materiali, sulla morte della figlia e sulla propria solitudine. Laggiù, sul pianeta che vediamo nelle immagini panoramiche, una bolla azzurra e marrone striata di nuvole e di luce, è una donna sola, che lotta col mondo e con se stessa. Ma queste riflessioni, veloci, eppure non superficiali, non accessorie, sono “spalmate” in un divenire tecnologico, avvincente, che scandisce il combattimento senza quartiere contro la mancanza di ossigeno, e la minaccia della deriva nello spazio.
Non ci sono alieni, creature cellulari ostili, non ci sono misteri. Alcuni satelliti sono andati in frantumi e le schegge arrivano a velocità pazzesca, migliaia di chilometri all’ora, colpiscono le stazioni spaziali, i moduli di atterraggio, lo space shuttle. I due astronauti superstiti, Ryan (Sandra) e Matt (George Clooney), sono sbalzati nell’abisso, cercano di restare saldi afferrandosi a qualsiasi sporgenza, a relitti, a cavi, per non sprofondare nel buio senza fine. Ryan, rimasta sola, galleggia in assenza di gravità nei tunnel caotici di stazioni abbandonate, cercando di mantenere il controllo, di capirne il funzionamento, di trovare una via possibile per il ritorno.
E’ tutto uno studiare codici, spingere pulsanti, uscire all’esterno per sganciare un modulo, tra le frecce che saettano e fanno esplodere ali, turbine, batterie, mentre il tempo vola, e l’ossigeno se ne va. E’ sempre sull’orlo della crisi finale, e quindi della sconfitta. La lotta è anche, o soprattutto, per non smettere di combattere, per non lasciarsi andare alla fine.
Gli effetti speciali sono l’ultima frontiera della tecnologia, realisti, quasi “normali” nella loro verosimiglianza, perché è proprio come dovrebbe essere nello spazio, come ce lo immaginiamo. Sono esagerati nella loro perfezione, ma non esagerano nella ridondanza. Ryan viene ripresa nella sua entità cyber di astronauta infilata in una tuta spaziale, ma anche nella sua fisicità, nel suo corpo atletico, volitivo, sospeso nel nulla. Qua e là alcuni primissimi piani ricordano maschere che evocano le mutazioni di Terminator 1, ma non vi è mai indugio nel voyeurismo da star-system.
Alla fine siamo stupiti dalla tranquillità con la quale il regista Cuaròn non cerca collegamenti o confronti con capolavori della science-fiction, dalla modestia, per così dire, con la quale ha elaborato un film che funziona proprio per la sua semplicità.
E’ consigliabile la visione in 3D ma non è affatto indispensabile, come minaccia certa “critica”. Fa la sua onesta figura anche in 2D, non si perde nulla.