di Girolamo De Michele
Carlotta Susca, David Foster Wallace nella Casa Stregata. Una scrittura tra Postmoderno e Nuovo Realismo, Stilo Editrice, Bari 2012, pp. 218, € 18.00
“Infinite Jest, seppur ambientato nell’Anno del Pannolone per Adulti Depend, dice molto più sulla realtà di quanto faccia un saggio sulla crisi economica o il manuale per l’esame di Teoria delle comunicazioni di massa. E in più è scritto dannatamente bene.” (p. 163)
Il destino di David Foster Wallace in Italia è stato bizzarro. L’Italia è uno dei primi paesi in cui DFW è stato tradotto, uno dei primi in cui si è creata quella rete di howling fantods che contrassegna ovunque la diffusione delle sue opere. Nondimeno, i critici laureati hanno reagito con fastidio e/o indifferenza al “fenomeno DFW”, e in particolare alla produzione di critica letteraria autonoma, dal basso o dal web, che abbatteva la distinzione – e soprattutto le gerarchie, oh, le gerarchie! – tra narratore e critico, o tra lettore e critico. Se ogni scrittore, ogni lettore si crede legittimato a fare il critico, dove andremo a finire, signora mia?
E così, mentre libri, saggi, racconti e reportage di DFW circolavano, si diffondevano leggende sul conto del loro autore: in realtà DFW è un autore di cui tutti parlano, ma che nessuno legge; in fondo DFW coincide col suo opus magnum, cioè Infinite Jest, che è il-leg-gi-bi-le; peggio, è un collage di cut© da blog altrui di cui DFW non indica la fonte; e poi si sa che non è scritto per essere letto, per cui non importa leggerlo.
È davvero spassoso (e, se perdonate l’assonanza, penoso) l’effetto-specchio che producono queste (pseudo-)critiche. Il tal risaputo inner circle critico-letterario non ammette l’esistenza di una critica post oppidum: quelli che la tenterebbero sono non-critici, dunque non-persone, dunque nessuno legge DFW, giacché i soli che esistono, cioè noi, non lo leggono. I talaltri pigiatoro di tastiere, adusi a copincollare dal web piuttosto che millantare letture non fatte (o non capite: perché bisogna anche capirli, i libri letti), vedono in opere di cui parlano senza leggerle il riflesso dei propri pezzulli, e s’inventano il libro copiato dal web o scritto per non essere letto: inutile negarlo, in questa critica c’è del metodo.
Del resto anche in USA, dove i critici i libri li leggono davvero, può capitare che Michiko Kakutani [a sinistra], la temutissima e severissima critica del NYT (“a very charming Japanese lady from the New York Times… ” la definì DFW nella intervista a “Salon”) concluda la propria recensione a Infinite Jest lamentando, in quanto «lettore old-fashioned che nutre la vaga speranza di connessioni narrative e un inizio, un centro e una conclusione» [maddai!, il triangolo di Freitag! Ma allora ditelo…] di essere rimasta «sospesa a mezz’aria», insomma di non averci capito molto «in quel mucchio caotico di dettagli e incidenti che è Infinite Jest»1. Ma capita pure che un semplice laureando, l’howling fantod Christopher Hagen spieghi nella propria tesi di laurea che IJ «inscrive una curva parabolica su un vertice collocato all’esatto centro matematico del romanzo. La conclusione, della quale secondo alcuni critici il libro è privo, non è nel testo, ma è cronologicamente e spazialmente giusto davanti al romanzo, che come un’antenna satellitare fa convergere una miriade di raggi di luci, voci o informazioni su quella soluzione centrale senza mai toccarla»2. Detto altrimenti, IJ non è un libro per critici old-fashioned – ma questo è un problema loro. IJ è un libro che, come il suo autore, si rivolge a un lettore in grado di trovare quelle connessioni, quel punto di convergenza che la macchine dell’oggetto narrativo produce: la macchina pigra, in questo caso, è il critico, non il libro.
Questa lunga premessa serve a introdurci nel saggio di Carlotta Susca, una di quelle lettrici-howl.fan. che si dedicano con una certa sfrontatezza alla critica letteraria senza chiedere permesso. E che ci ha dato, assieme al saggio del matematico di professione e critico per passione Roberto Natalini Verso l’infinito e oltre. David Foster Wallace e la Matematica ( qui), una delle migliori letture italiane di DFW.
Non è una mappa equivalente all’impero, questo saggio critico: Carlotta Susca ha delimitato il territorio entro confini tracciati con chiarezza dal sottotitolo – salvo che… ma ne parliamo tra un po’.
Postmoderno Vs Nuovo Realismo, dunque. In apparenza. Per ora, diciamo. Non solo in IJ, ma nel complesso dell’opera di DFW. Dell’opera: perché Susca ha ben chiaro che è dell’opera che si deve parlare, non dell’autore, non delle insignificanti minuzie di cui si occupava durante la stesura di questo o quel testo, men che meno di quale persona “reale” abbia fornito lo spunto per questo o quel personaggio “fittizio”. Un antidoto, questo DFW nella Casa Stregata, a quel regressivo ritorno alla biografia come chiave interpretativa che è Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi. Vita di David Foster Wallace di D.T. Max, libro cui bisognerebbe apporre come epigrafe il motto hegeliano “Nessuno è eroe per il proprio cameriere”3.
La questione del postmodernismo, e del ritorno al realismo, dunque. Che, a volerla dir tutta, sarebbe più complessa: DFW ha avuto come obiettivo polemico non solo i postmoderni (tra i quali John Barth), ma anche i minimalisti epigoni di Carver (i “Carver Malriusciti”) e il Brat Pack degli yuppie nichilisti come McInernery e, soprattutto, Bret Easton Ellis e il suo American Psycho. In tutti i casi, è questione dei rapporti tra il reale e il linguaggio che non riesce a descriverlo.
Il postmodernismo risolve la questione col trucco di dire che tutto è finzione: sia lo strumento che descrive, che l’oggetto descritto.
Gli “ultraminimalisti” usano un trucco diverso: fanno aderire linguaggio e reale al prezzo di una radicale mutilazione tanto dell’uno quanto dell’altro – cosa che, se non hai il dono carveriano di far star tutto nel frammento, suona di nuovo artificiale.
I “nichilisti dagli stipendi a sei cifre”, infine, replicano con maestria l’orrore del mondo in cui viviamo, senza mai porsi il problema etico di quale sia l’utilità di una duplicazione dell’orrore da parte di chi dovrebbe invece chiedersi come sopravvivere all’oscurità del tempo presente, cosa significa essere «un fottuto essere umano» – qualcosa che ha a che fare con l’immaginazione di un diverso stato di cose presente, e con le cause della «times’ darkness»4.
Cosa che invece fa la letteratura sperimentale (Pynchon e DeLillo, per rimanere ai gusti di DFW): «C’è una serie di magie che la letteratura può compiere per noi […] una ha a che fare con la sensazione di […] cogliere l’effetto che ha su di noi il mondo circostante in una maniera in cui al lettore viene da dire: “Allora un’altra sensibilità come la mia esiste!. […] E così il lettore si sente meno solo. […] E sono le cose avanguardistiche o sperimentali che hanno ala possibilità di portare avanti questa impresa. Ecco perché sono preziose». Sono preziose, ma spesso «fanno cacare»: perché a volte «parlano di che effetto fa stare al mondo, invece di offrire un sollievo all’effetto che fa stare al mondo»5.
Ed eccoci al punto: se lo sperimentalismo è una sorta di post- o iper- postmodernismo, del quale continua ad usare gli strumenti formali, il problema, piuttosto che di etichette o categorie, non sarà di come inserire il contenuto, cioè l’etica, all’interno del postmoderno? Cogliendo la centralità della questione Susca può bypassare la critica agli ultraminimalisti o al Brat Pack letterario, fregarsene della presunta questione del “Ritorno al Realismo” (e di definizioni tipo “Realismo Isterico” o “Realismo Grunge”, che vi prego di credere non mi sto inventando), e chiedersi cosa è davvero il “Realismo”. E, dopo aver smontato il gioco di specchi e rimandi tra Perso nella casa stregata di John Barth e Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso di DFW (facendo del confronto una sorta di chiave di lettura generale dei rapporti tra DFW e il postmoderno), arrivare, grazie alla mediazione di John Barth6 (e del Perec di La vita, istruzioni per l’uso), al confronto tra DFW e Italo Calvino.
Carlotta Susca, beata gioventù!, non aveva l’età quando una lettura, che pareva scaturita dalle pagine del Vernacoliere più che dall’Università di Pisa, faceva di Calvino la fonte di tutte le nequizie e i disimpegni. Invece è proprio in Calvino che troviamo il tema-chiave di DFW: l’inserzione dell’etica e dell’impegno nella perfezione stilistica di una letteratura il cui “eroe” ha abdicato alla responsabilità etica, sostituendola con quella forma di distacco ironico mediato dalla televisione, che fa dell’ironia un innocuo e impotente strumento espressivo. Il risultato, scrive Susca citando Rovatti, è di «buttare via il bambino insieme all’acqua sporca: peggio, di buttare nella spazzatura il cosiddetto bambino e tenerci l’acqua sporca». E magari, aggiungerebbe il don Florestano Pizzarro di Corrado Guzzanti, usarla per cuocerci la pasta.
A cosa porta il parallelismo tra DFW e le celebri Lezioni americane di Calvino? A enucleare, attraverso la presenza di leggerezza, esattezza, molteplicità, visibilità e rapidità nella scrittura dfwallaciana, la presenza di nuclei calviniani: la peste del linguaggio originata dalla pervasività della comunicazione televisiva; la quantità crescente di informazioni inutili (i “fattoidi” di DFW) che ci assediano, e dai quali dobbiamo discernere le informazioni davvero utili e rilevanti; la presa di coscienza della perdita d’innocenza del linguaggio «tutt’altro che innocuo, che è in grado di creare mondi. In effetti le parole cambiano la realtà e modificano la relazione tra gli eventi» (pp. 167-168).
Nuclei che si condensano nella definizione di immaginazione come «repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere». Definizione che apre un intero mondo: perché se l’immaginazione è repertorio del potenziale, potenziale, cioè in fieri, in divenire, non pre-formattato né sottomesso alla fatalità è anche quel fatturo essere umano che tanto stava a cuore a DFW. E potenziale è il mondo stesso in cui viviamo, cioè il “reale”: tanto quello che sta “al di fuori” del libro, quanto quello che vi sta dentro – il reale tout court. Potenziale, dunque costituito: e dunque è importante scoprire cosa costituisce il mondo, e gli essere umani che lo abitano, e l’oscurità, la times’ darkness che lo avvolge: è anche di questo che parla Infinite Jest.
«Non c’è lieto fine nella storia del dolore per quelli nati con la predisposizione alla disperazione. Il mondo è, dopo tutto, un posto rude, brutale e crudele. Si tratta solo di sapere quanto a lungo puoi viverci», ha scritto Elizabeth Wurtzel ricordando DFW7. Riuscire a mostrare quantomeno le scaglie del Leviatano è qualcosa che ha a che fare col procurare sollievo all’effetto che fa stare al mondo; creare la magia di far sentire meno solo il lettore ha a che fare con le cause, gli apparati, le istituzioni che usano solitudine e tristezza come forme di governo; rompere la crosta di consuetudine e rassegnazione della rappresentazione dello stato di cose esistente ha a che fare col compito del narratore: che è oggi (p. 164) «l’opposto di quello che era un tempo: non più rendere familiare ciò che è strano ma rendere nuovamente strano ciò che è familiare».
Michiko Kakutani, A Country Dying of Laughter. In 1,079 Pages, “The New York Times”, 13 feb. 1996, qui: «At the end, that word machine is simply turned off, leaving the reader — at least the old-fashioned reader who harbors the vaguest expectations of narrative connections and beginnings, middles and ends — suspended in midair and reeling from the random muchness of detail and incident that is “Infinite Jest”». ↩
«Infinite Jest’s structure does internalize something of late twentieth-century technological energy, but something remarkably ‘centering.’ The text inscribes a parabolic curve (diving into an engaging world & plot, then turning and pulling out of that world and lumbering towards a close as gradual as any novel’s beginning), oriented symmetrically about a vertex (a crucial point, though different from a climax) located at the novel’s precise mathematical center. And, as with most parabolic curves nowadays, Infinite Jest’s text functions rather like a satellite dish: the resolution that reviewers complain the novel lacks isn’t in the text, but sits chronologically & spatially in front of the novel proper, which, as a satellite dish, serves to focus myriad rays of light, or voices, or information, on that central resolution without actually touching it», qui. ↩
“Non perché quello non sia un eroe, ma perché questi è un cameriere”, chiariva Hegel. È davvero irritante il modo in cui D.T. Max ci conduce in una visita guidata della vita di DFW, indicandoci ora il ramo del primo supposto tentato suicidio, ora il divano sul quale giaceva depresso, o la poltrona nella quale si rincoglioniva davanti alla televisione, e le calze e gli asciugamani appesi ad asciugare proprio lì, e wow!, le sue bandane sudate!, per poi introdurci nel Garage, sì, proprio quel Garage. E che dire il modo voyeuristico con quale spia dal buco della serratura le avventure sessuali di DFW, ammiccando (senza conoscenre il monito del cantautore milanese: tanto che importa a chi [ti] ascolta se lei c’è stata o non c’è stata, e lei chi è?), all’allora-giovane-scrittrice-famosa-un-tempo-depressa? In cosa la nostra comprensione dei testi di DFW migliora, una volta che abbiamo appreso che il tal personaggio sarebbe la trasposizione di un Edipo irrisolto (niente male per un autore che stigmatizzava gli scrittori da «niente personaggi senza traumi freudiani in un passato accessibile»), il talaltro una trasfigurazione per vendetta (tipo: «nun me l’hai data e io te distruggo»), e così via? A cosa ci serve sapere che sì, DFW si nascondeva dietro piccole bugie che l’impietoso biografo svela una per una – se non a chiederci, una volta imparato che DFW dissimulava o anche mentiva, come si possa fondare su lettere e conversazioni di un timido insincero una biografia verosimile? ↩
La vera risposta di Ellis a DFW (non il famoso tweet stile “la corazzata Potemkin è una cagata pazzesca”), e cioè Lunar Park (=”che cosa credevate di aver capito di American Psycho? È tutta una finzione, è persino postmoderno – non crederete che io sia davvero così cinico e gelido: è che mi ci vestono così…”), nella sua debolezza, dice già tutto su quanto a fondo sia andata la critica dfwallaceana. ↩
David Lipsky, Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta, minimum fax, Roma 2011, citato in DFW nella Casa Stregata, p. 199. ↩
Che DFW fa bene a criticare e superare, ma che resta uno scrittore di racconti di un nitore e una perfezione encomiabili, vi assicuro. ↩
Elizabeth Wurtzel, Beyond the Trouble, More Trouble. Depression in the best of us, “New York Magazine”, 21 sept. 2008, qui. ↩