di Lucius Etruscus e Danilo Arona
Sono tantissime le citazioni e i rifacimenti della storia di Samarra. Nel 1975 il poeta iracheno Fadhil al-Azzawi raccoglie nell’antologia The Eastern Tree la poesia An Appointment in Samarra, in cui il servo riesce a sfuggire alla Morte rifugiandosi in una città in cui nessuno lo conosce e in cui nessuno sa della sua esistenza… non è anche questo morire?
Molte di queste citazioni, poi, sono ampiamente rimaneggiate. Quando per esempio nel 1969 venne portato sullo schermo il romanzo MacKenna’s Gold di Heck Wilson Allen con il celebre film western L’oro di Mackenna di John Lee Thompson, viene aggiunto un prologo in realtà assente nel romanzo.
«C’è una vecchia storiella che raccontano gli Apache, di un uomo che cavalcava per il deserto e incontrò un avvoltoio (quelli che chiamano corvi tacchini, qui nell’Arizona) appollaiato su una roccia. Dice l’uomo: «Ehi, corvo tacchino, cosa ci fai qui? T’ho visto che volavi sopra Hadleyburg e per non incontrarti ho cambiato strada e sono venuto qui”. E l’avvoltoio gli fa: “Ma guarda che strano: ci sono passato per caso là ad Hadleyburg. Io stavo venendo qui… ad aspettarti”.»
La storia di sapore persiano diventa leggenda apache! L’operazione “contagia” lo scrittore Stephen Gunn (pseudonimo di Stefano Di Marino) il quale in apertura del suo romanzo Il grande colpo del Marsigliese (1997) scrive:
«Sulla via per Nogales un cavaliere vede un avvoltoio. Allora cambia strada e compie un largo giro sino al Canyon del Muerto. Qui ritrova l’avvoltoio e gli domanda: “Cosa ci fai qui? Ti ho visto sulla strada per Nogales”… “Strano” risponde l’avvoltoio “perché io ero diretto proprio qui. Ad aspettarti”.» Il testo viene spacciato come “Un vecchio detto tarahumara”, in una deliziosa operazione di doppia citazione.
È mai esistita una favola orientale che trattasse della Morte inevitabile nei termini a noi noti? Malgrado non esistano prove al di là del Talmud Babilonese, sicuramente sarà esistita e magari esiste ancora. Quel che è certo è che in Occidente, dal Novecento in poi, qualsiasi vera favola orientale è stata soppiantata dall’Appuntamento a Samarra di John O’Hara, che si rifaceva al britannico Maugham e (forse) si rifaceva al francese Cocteau. A chi si rifaceva quest’ultimo? Non lo sappiamo.
Tutto ciò che sappiamo è che la storia della Morte inevitabile ha contagiato generazioni di scrittori e lettori, rimanendo viva e fertile dopo quasi due millenni di vita. Forse perché parla della più incurabile delle malattie, della più inevitabile delle sorti… o semplicemente perché è una bella storia. L’idea mia è non tanto, come ti dicevo, quella di andare a cercare qualcosa di nuovo – per quanto ci riguarda. Ma, al contrario, quello di scavare oltre lungo il percorso già intrapreso.
Tassello dell’ultima ora, suggerito a Lucio dal sommo Giulio Leoni. Nel 1950 il commediografo francese Jacques Deval scrive nel 1950 una pièce in tre atti dal titolo Ce soir à Samarcande, che viene subito trasformata in film televisivo italiano da Alessandro Brissoni, con Vivi Gioi e Giorgio Albertazzi come protagonisti: il titolo è chiaramente Stasera a Samarcanda in onda sulla RAI nel maggio 1954. Sebbene la pièce rimbalzi per tutta Europa – nel 1961 diventa il film televisivo tedesco Heute nacht in Samarkand e l’anno dopo lo show teatrale britannico Golden Showcase la usa per il quarto episodio, dal titolo Tonight in Samarkand (probabilmente l’unica versione anglofona che non usi Samarra!) -, non si sa nulla della pièce di Deval se non che uno dei personaggi dice: «Facciamo liberamente le cose che fatalmente avremmo dovuto fare».
La notizia su Deval va ad occupare quello spazio vacante prima del 1965, quando cioè la Fallaci tira fuori Samarcanda invece che Samarra, ispirando probabilmente Vecchioni: invece che una idea della Oriana, quindi, questo cambio di nome si deve prima a Deval con il suo “Samarcande” e poi alla RAI con la traduzione “Samarcanda”.
Sin qui Lucio. Che per molte volte ci propone il verbo “contagiare” in relazione al concetto di “morte inevitabile”. E qui temo di non sbagliare se affermo di trovarmi dalle parti di quell’Effetto Nocebo, del quale disquisimmo nella nostra rubrica durante la puntata dedicata al fenomeno del SUNDS (Sindrome da inaspettata e inattesa morte notturna, così si tradurrebbe l’acronimo anglosassione), applicato però in chiave “epiontica”. E ovviamente chi legge a questo punto richiede le dovute spiegazioni.
Intanto qualche chiarimento ulteriore sull’effetto Nocebo, al di fuori della sua originaria accezione medica. Va da sé che l’effetto Nocebo sia un’espressione di un pensiero negativo, che può essere negativo di per sé (ad esempio, l’elaborazione intellettuale di un grave trauma o di un lutto) o indirettamente negativo (un’informazione con un contenuto percepito come negativo). L’effetto Nocebo è notoriamente legato al fenomeno del contagio ed è ormai acclarato che esiste un Nocebo di massa, certo legato alla fenomenologia dei campi morfogenetici scoperti da Rupert Sheldrake. Improprio erede di quelle che un tempo si definivano “isterie collettive”, l’effetto Nocebo ha generato episodi a dir poco significativi. Nel 2005 in Cina, nella contea di Heishn, subito dopo la divulgazione delle notizie sull’epidemia di aviaria, il 100% della popolazione si ammalò, manifestando sintomi specifici quali febbre molto alta ed estrema debolezza. Ma le analisi stabilirono che non si trattava di aviaria e soprattutto esclusero la presenza di qualsivoglia organismo patogeno. Quel che poi colpiva era la percentuale di totalità di presunti ammalati, fattore statistico impossibile e improponibile. Si stabilì che si trattava di un contagio psichico di massa.
Se il Nocebo resta disancorato da effetti fisici condivisi ma limitato alle sole funzioni del pensiero, possiamo servirci allora del concetto di “epiontica”, rifacendosi al termine “Epionticity”, usato forse per la prima volta dal fisico quantistico Wojciech H. Zurek per tentare di definire la natura delle funzioni d’onda quantica, partendo dall’annoso dibattito conflittuale tra filosofi e fisici quantistici se le funzioni d’onda descrivano uno stato di conoscenza (epistemico) oppure uno stato di realtà (ontico). Con evidenza Zurek sostiene la contemporanea presenza dei due stati: il concetto di Epionticty rappresenta infatti l’idea che esistenza e conoscenza (o informazione) siano profondamente connesse. Più di quanto abitualmente si pensi. Per fare un esempio che riguarda molto da vicino il Racconto della morte inevitabile, si è portati a pensare nella pratica quotidiana che le cose portino informazioni, quando il punto di vista epiontico sostiene che le cose sono informazioni.
Ovvero, semplificando di molto: non è che solo la mente può avere effetti materiali e concreti sul mondo, ma ci spingiamo oltre, ovvero il mondo è ciò che gli uomini sanno del mondo. E qui giungiamo al nodo: la morte è inevitabile. Come quel che la rappresenta. Basta un codice informativo che funzioni da potente innesto – in questo caso una parola particolare che “risuona” in maniera altrettanto particolare, parola destinata nei secoli a modificarsi – e il contagio informativo diviene inarrestabile. Anzi, di più: inevitabile. Espandendo ancor di più il concetto: il mondo cambia, perché non è affatto un costrutto stabile, che le menti umane esplorano e scoprono, ma perché è il prodotto dell’interazione con le menti umane, ovvero esse lo generano, in un continuo processo di autocorrezione.
Allora avanziamo un’ulteriore ipotesi sul contagio attuatosi nei secoli fra generazioni di lettori e scrittori. Come per i 117 membri della comunità Hmong emigrati in America dopo la fine della guerra in Vietnam e morti misteriosamente nel sonno durante gli anni Ottanta possiamo ipotizzare l’esistenza di una risonanza morfica (sull’onda dei campi morfici” o morfogenetici indagati da Sheldrake), si può immaginare qualcosa di analogo tra i “trasmettitori” e i “recettori” del fatale “appuntamento a Samarra”. Una risonanza morfica, spostata essenzialmente a livello del pensiero – come la famosa “perversione logica” studiata da Giovanni Carlo Zapparoli – che fornisce al contempo un meccanismo di funzionamento dell’immaginario collettivo e che si attiva in funzione proprio della “sostanza” di cui si nutre l’informazione. Se attraverso la risonanza morfica si condivide ciò che maggiormente tormenta gli individui nel profondo (come nel caso dei Hmong), si può ben capire come generazioni di individui abbiano, ognuno a proprio modo, esorcizzato la massima ossessione culturale di sempre, la morte inevitabile, tramite una sorta di contagio virale informativo che assomiglia molto al meccanismo propagativo delle cosiddette “maledizioni”.
Se in certi contesti, all’apparenza borderline tra reale e immaginario, la maledizione pare inalienabile, allo stesso modo sono incancellabili nel meccanismo virale tanto la sostanza che la parola che la rappresenta (Samarra, che tutt’al più subisce qualche modifica). E’ una sorta di perpetua trasmissione memetica attraverso i millenni che non apporta cambiamento sostanziale, ma proprio il suo contrario: l’invariabilità.
Perché la morte è un archetipo non intaccabile dalle diversità culturali e temporali. Uguale per tutti, anche se la modernità vorrebbe convincerci del contrario.
Da qui potrebbe iniziare un’ulteriore riflessione sull’eternità “incurabile” di Samarra e Samarcanda.