di Sandro Moiso
La riscoperta delle registrazioni realizzate tra il 1968 e il 1971 da Keith Jarrett, negli studi della Atlantic da solo, in trio, quartetto e quintetto, non costituisce solamente una piacevole sorpresa per gli appassionati del pianista statunitense, ma aiuta anche a chiarire quanto le composizioni di Bob Dylan abbiano influito sulla maturazione e lo stile del jazzista.
Fino ad ora l’unica testimonianza discografica “dylaniana” di Jarrett era costituita dalla versione di “My Back Pages” comparsa nel terzo disco del jazzista: “Somewhere Before” del 1969.
Nella edizione, appena uscita, degli inediti tale brano apre la scaletta e la chiude, approfittando di un’alternate track in cui il classico trio composto da Jarrett stesso al piano e da Charlie Haden al contrabbasso e Paul Motian alla batteria viene sostituito da un quartetto formato sempre dallo stesso Jarrett in compagnia di Gary Burton al vibrafono, Steve Swallow al basso elettrico e Sam Brown alla chitarra elettrica.
L’assenza delle percussioni fa sì che “My Back Pages” si trasformi in un brano ancora più malinconico, mentre l’intricato gioco dei due strumenti elettrici accompagna un pianoforte che sembra raddoppiare il vibrafono di Burton in una dimensione quasi eterea. La novità è costituita dal fatto che, nella alternate track che chiude l’album, Jarrett suona il piano elettrico, strumento inusuale in quasi tutte le sue incisioni soliste.
Durante l’ascolto, che sicuramente potà fare storcere il naso agli amanti del Jarrett più sperimentale, quello che sicuramente colpisce è che tra le principali influenze delle composizioni e del pianismo di Jarrett, oltre che quelle di Bill Evans e Ornette Coleman, vi sia forse da annoverare anche quella di Bob Dylan, come aveva già suggerito la stessa “My Back Pages” nell’edizione del 1969 . E’ infatti possibile riconoscere qui, attraverso i dodici brani scelti, quanto Dylan abbia influenzato lo stile del Jarrett maturo: quello che, soprattutto nel Koln Concert, ha poi saputo felicemente riunire jazz, folk e musica europea per pianoforte del tardo ottocento, tenendosi sempre lontano dalla fusion peggiore che ha invece influenzato, almeno per un periodo, anche l’opera di altri due grandi pianisti della sua generazione: Chick Corea e Herbie Hancock.
Gli altri brani, quasi tutti suonati in trio con Haden e Motian, sono: “Lay Lady Lay”, “Girl From The North Country ” (con un duetto di contrabbasso e pianoforte che sembra rievocare quello tra le voci di Johnny Cash e di Dylan contenuto in “Nashville Skyline”), “Just Like a Woman” (con qualche passaggio honky tonk), “Ballad of a Thin Man”, “Gates of Eden” (dal lunghissimo e liquido assolo di pianoforte), “Boots of Spanish Leather” (che Jarrett si diverte a trasformare in un quasi-bolero), “I Am a Lonesome Hobo”, “With God On Our Side” (uno dei brani migliori con una vibrante tastiera ricorda all’ascoltatore la voce del giovane Dylan, mentre Haden e Motian accompagnano il tutto con grande delicatezza), “The Lonesome Death Of Hattie Carroll” ( l’esecuzione più breve e l’unica per pianoforte solo) e, infine, “Blowin’ In The Wind” in cui al trio si aggiungono Sam Brown alla chitarra elettrica e Dewey Redman al sax tenore mentre Jarrett si alterna al pianoforte e all’organo Hammond, dando vita ad una versione sostanzialmente gospel del classico dylaniano con un assolo coltraniano straziante di Redman che ne accompagna il finale in crescendo.
C’è da dire, infine, che la scelta dei brani operata da Jarrett, tutti tratti dai primi nove LP di Dylan, sembra stabilire una sorta di personalissimo song book dylaniano che non sempre segue la traccia del canone generalmente definito per l’autore poiché, anche se molti dei brani appartengono al Dylan più conosciuto, gli altri sono opera di un’accurata selezione tra quelli meno noti.
Quando Jarrett tentò per la prima volta una “via dylaniana” al jazz , con l’album “Restoration Ruin” del 1968, critica e pubblico accolsero male il tentativo, anche per le scarse doti canore del musicista, che presentava una serie di composizioni e canzoni originali in stile folk-jazz, sicuramente debitrici dell’opera del menestrello di Duluth, ma troppo incerte nell’esecuzione. Le registrazioni riportate invece alla luce dalla edizione attuale confermano, come si è già detto, il debito di Jarrett nei confronti del grande cantautore, ne confermano non solo l’eclettismo, ma anche la grande capacità di fondere generi e sonorità diverse fino a trasformare gli stessi brani in un’opera tipicamente jarrettiana (obliquamente anticipatrice di opere come “Facing You”(1971) e “Expectations” (1972)) e, sicuramente, imperdibile, per ogni appassionato dei due autori messi qui, magnificamente, a confronto.
Avvertenza
Da amatore e collezionista di album di musica rock, jazz, blues e folk mi trovo a fare un sogno ricorrente: quello di entrare in un negozio di dischi e cd sconosciuto e di trovare lì, tra gli scaffali, qualche straordinaria e sconosciuta incisione dei gruppi e dei musicisti da me più amati. Nel corso degli anni non so quanti introvabili dischi dei Byrds, di John Coltrane e di Dylan ho rintracciato nei miei sogni. Peccato che ad ogni risveglio mi trovassi a vivere un doppio trauma: quello di sapere di non avere tra le mani quel certo disco e di sapere, allo stesso tempo, che quel disco era introvabile poiché, semplicemente, non esisteva. Era solo il frutto delle mie ossessioni musicali notturne. Così, sulle orme di Jorge Luis Borges e Roberto Bolaño, che nella loro scrittura hanno fatto vivere credibilmente opere, autori e correnti letterarie assolutamente inventate, ho deciso di dar vita ai miei sogni. Perciò fate attenzione: non andate a cercare in rete o presso i vostri abituali pusher musicali l’album in questione…non esiste! Anche se esistono gli altri album citati, così come anche la versione del 1969 di “My Back Pages”.