di Alexik
Credeva di aver curato in ogni minimo dettaglio il servizio di scorta dell’ambasciatore israeliano. Sembrava tutto perfetto. I colleghi in borghese lungo via Indipendenza non segnalavano imprevisti, e quelli del VII reparto mobile, dietro l’angolo del Grand Hotel Baglioni, gli davano una calda sensazione di sicurezza. Ogni minimo dettaglio … tranne la fermata dell’autobus piazzata lì, proprio davanti all’ingresso dell’albergo. Una vetrina di lusso riflesse il suo stupore e l’improvvisa sensazione di panico quando il vecchio scassone della linea 11 spalancò le portiere, scodellandogli sotto il portico un centinaio di attivisti dei collettivi con tanto di kufie e striscioni inneggianti all’Intifada. Nessuno li aveva visti passare, accucciati all’altezza dei sedili, e ora dilagavano nella hall del Baglioni bersagliando la delegazione israeliana con una mitragliata di uova marce e vernice rossa. Si riprese in fretta, aiutando i colleghi a spintonarli fuori. Ma ormai il danno era fatto: il suo debutto sulla scena bolognese irrimediabilmente segnato dal ridicolo.
ll vicequestore aggiunto Giovanni Preziosa ancora non sapeva che il ridicolo lo avrebbe accompagnato spesso nel corso della sua lunga “carriera” poliziesca e politica, assieme al fanatismo securitario e a quell’aura sinistra che circonda chiunque abbia come humus di provenienza la questura della Uno bianca.
L’humus di provenienza
Ai tempi in cui Preziosa ricopriva il ruolo di dirigente della sezione rapine e omicidi della squadra mobile (1988/1995), la questura di Bologna poteva vantare personale di eccezione: Roberto Savi era assistente capo alle volanti e alla centrale operativa/ufficio controllo del territorio assieme a Pietro Gugliotta (operatore radio), mentre Marino Occhipinti era in servizio alla sezione narcotici della mobile. Più della metà dell’organico della Uno bianca stava sotto il culo di chi, in teoria, avrebbe dovuto trovarla.
Ma qual era, all’epoca il clima che si respirava negli uffici di piazza Galilei ? Ce lo racconta Fernando Bottiglieri, fermato per un tentativo di furto d’auto:
“…. arrivò la volante con Roberto Savi capopattuglia. Mi vide, scese dall’ auto, mi afferrò per i capelli e mi ammanettò immediatamente….Poi mi portarono in questura, un giro di 300 metri. [Sulla volante] mi bloccarono la testa col manganello e cominciarono a pestarmi. Schiaffi, gomitate, insulti. Ero terrorizzato”.,, [Alla Centrale operativa]“non mi tolsero mai le manette e continuarono a picchiare. Ero molto confuso, ma ricordo bene che ogni tanto arrivavano altri agenti e partecipavano al pestaggio. Senza motivo. Poi mi portarono in cella, al piano di sotto. Roberto e i due del suo equipaggio mi ammanettarono alle sbarre. Non toccavo terra con i piedi. Uno mi teneva per le gambe e gli altri due, a turno, continuavano a picchiare. Poi saltò fuori quella macchinetta per tagliare i capelli…. [Savi] Rideva come un pazzo. ‘ Stai zitto o ti ammazziamo’ , diceva. Mi lasciò solo una striscia orizzontale dietro la testa… mi tagliò i capelli in quel modo per sfregio. Sarò rimasto appeso alle sbarre almeno due ore, una tortura”. (1)
Era il 17 settembre del 1992 quando Bottiglieri finì nelle mani dei suoi aguzzini. La sua storia, però, venne pubblicata solo due anni più tardi, in seguito all’arresto di Roberto Savi. Se non fosse stato lui il capopattuglia della volante, della storia di Fernando non sarebbe fregato a nessuno degli opinion makers cittadini.
Eppure è emblematica, perché smonta la tesi della “mela marcia” evidenziando la partecipazione anche degli altri agenti della pattuglia, e di quelli presenti nella Centrale operativa, al brutale pestaggio di un fermato. Nessuno di loro dimostrava dubbi, nessuno interveniva per fermare Savi, tutto sembrava una tranquilla e ‘divertente’ routine.
A detta di un agente delle volanti (2) “atteggiamenti verso certi balordi ci sono sempre stati. Tagliare a zero i capelli o portarli in montagna e lasciarli lì senza scarpe al buio, è sempre stata una forma di giustizia privata” (3). Le sevizie agli inermi erano quindi un’attività ricorrente, oltre che partecipata.
Il dirigente del reparto, Antonio Pezzano, trasferito lì dalla mobile per conflitti col superiore, per rivalsa aveva organizzato i suoi come una squadra mobile parallela, in competizione con quella vera. Premeva per effettuare arresti a tutti i costi, trasmetteva ai sottoposti una forte tensione ed eccitazione. Sotto il suo comando gli equipaggi delle volanti aggiunsero all’uniforme un cinturone nero, adatto, dicevano, a “dimostrare possanza” (4). Il contesto fascistoide veniva quindi promosso dai livelli superiori. Né obiezioni in merito potevano venire dal questore Unmarino, tenuto per le palle dal SAP (il sindacato maggioritario alle volanti) che aveva scoperto la sua presenza in un motel in una situazione imbarazzante (5).
Preziosa non era alle volanti, anzi, prestava servizio nel settore “concorrente”, in un contesto generale dove tutti tentavano di farsi le scarpe fra loro ai fini di carriera. Le forti conflittualità interne non scalfivano, però, il muro di omertà su ciò che succedeva nei sotterranei della questura.
Alla mobile, la sezione rapine e omicidi doveva essere oberata dal lavoro, con 34 rapine, 17 morti e 71 feriti lasciati in terra in sei anni di attività dei Savi solo a Bologna e dintorni (6). Con tutto quel da fare, non si capisce proprio dove Preziosa trovasse il tempo per venire a bastonarci nei cortei. Forse era l’unico modo che aveva per mettersi in vista e dimostrare quell’efficienza repressiva che non riusciva ad esprimere sul fronte investigativo.
Toccò a lui controllare l’AR70 di Roberto Savi, che per l’occasione gliene rifilò uno pulito pulito e nuovo di zecca (non quello vecchio, usato per gli assalti ai nomadi e ai carabinieri).
La foto che nell’ottobre ‘94 ritrasse Preziosa durante l’arresto del capo della Uno bianca non deve trarre in inganno. Come è noto, la soluzione del caso venne da ambienti completamente esterni alla città , e i questurini bolognesi furono coinvolti solo all’ultimo momento.
Il capitolo Uno bianca si chiuse in questura con un balletto di trasferimenti (il modo migliore per spargere individui inetti o pericolosi a fare danni altrove), e Preziosa non ne fu esente. Ma qualcosa di quel periodo e di quell’ambiente doveva essergli rimasto dentro. Sicuramente il disprezzo e la mano pesante verso i soggetti marginali della città, l’esempio di un modello organizzativo (quello di Pezzano) che presto applicherà anche ai suoi “vigili Rambo”, l’ambizione, il senso di onnipotenza e di impunità che probabilmente, lo guideranno anche nelle imprese più recenti .
A passo di carica
Per alcuni anni al capo della omicidi fu affidata anche la gestione della piazza bolognese. Secondo me gli piaceva particolarmente e riusciva anche ad essere “innovativo”. L’esordio fu il 5 giugno 1989, in occasione di un blocco stradale degli studenti contro la repressione a Tien an men. Fu lì che inaugurò la stagione delle “cariche amminkia e senza preavviso in mezzo alla folla dello shopping”. Quel giorno il vicequestore aggiunto saltò di pari passo tutti i riti abituali a cui, all’epoca, eravamo ancora avvezzi (fronteggiamento, avvertimento, eventuale trattativa). Ricordo che osservammo perplessi l’arrivo delle camionette, lanciate contromano in via Rizzoli. Le vedemmo frenare con un mezzo testacoda e scaricare il reparto mobile, che cominciò ad inseguirci sotto i portici incurante di travolgere anche le mamme col passeggino all’uscita della Standa o le vecchiette terrorizzate, aggrappate alle buste della spesa. La carica era tanto più assurda se si pensa che si trattava di un presidio poco più che simbolico, che presto si sarebbe sciolto da solo.
Fu la prima di una lunga serie di scariche di mazzate che ci riservò il nostro eroe. L’ultima, se la memoria non mi inganna, avvenne il 12 dicembre 1994, al corteo per l’anniversario di Piazza Fontana. Considerammo come uno sfregio particolare l’attacco ad un corteo antifascista da parte di una questura screditata, dopo sei anni di strategia della tensione. La celere partì mentre stavamo bloccando l’entrata della Standa (allora di proprietà di Berlusconi) contro un governo che accoglieva, per la prima volta dopo Tambroni (7), formazioni post fasciste e xenofobe.
Si stava concludendo un’epoca e se ne apriva un’altra: la fabbrica della paura riponeva l’AR70 nella custodia e puntava agli scranni del Parlamento, conquistando l’egemonia del discorso politico istituzionale. Un nuovo contesto dove anche Giovanni Preziosa avrebbe trovato ben presto collocazione e ruolo.
(Continua)
Note:
1) Carlo Gullotta, Mi picchiarono a sangue e poi mi raparono a zero, in “La Repubblica”, 6/12/’94.
2) Dichiarazione riportata in: Raffaele Magni, La devianza delle forze dell’ordine e la teoria del sospetto .
3) La dichiarazione è singolare, visto quello che successe a Bottiglieri dopo la denuncia delle sevizie: “Una notte, sotto casa mia, vidi un’ Alfa 33 rossa. C’erano tre persone a bordo, avevano la pistola alla cintura. Scesero, mi costrinsero a salire sull’ auto e mi portarono in collina. Mi picchiarono a sangue e mi lasciarono in mezzo alla strada”.
4) Commissione Stragi, Senato della Repubblica, Inchiesta sulle vicende connesse ai delitti della banda della Uno bianca. Audizione del vice Capo della Polizia, prefetto Achille Serra, pp. 140/141.
5) Luigi Spezia, Ricattato per una notte in motel, in “La Repubblica”, 16/02/’95.
6) Antonella Beccaria, Uno bianca, trame nere. Cronaca di un periodo di terrore, Stampa Alternativa, 2007, pp. 151/156.
(7) Tambroni, in verità, si era limitato all’appoggio esterno.