di Fabrizio Lorusso
La fabbrica dei colpevoli messicana non si ferma mai e il professore Alberto Patishtán ne è vittima da 13 anni, accusato e sentenziato ingiustamente per omicidio. Il primo tribunale collegiale del ventesimo circuito del Chiapas ha dichiarato infondate le prove con cui gli avvocati di Alberto Patishtán, professore messicano d’etnia tzotzil detenuto ingiustamente da 13 anni e condannato a 60 anni di reclusione per omicidio, volevano ottenere il riconoscimento della sua innocenza (link notizia Desinformémonos). La “fabbrica” è una scure inarrestabile, la giustizia dei più forti contro i più deboli, l’ingiustizia perpetrata col sostegno della legge, anzi, ormai senza nemmeno quello. Anche quando sbaglia, anche quando è palese, anche quando un paese si mobilita contro i suoi meccanismi perversi e ne dimostra le nefandezze, fuori da ogni ideologia, la fabbrica dei colpevoli non torna indietro perché sarebbe un ammissione di colpa, un’azione culturalmente inaccettabile.
Dunque è meglio affondare la lama e scavare, punire chi alza la voce, beffarsi degli scioperi della fame e del mondo che ti osserva, incredulo. Patishtán è un detenuto politico, discriminato per la sua appartenenza a un gruppo etnico indigeno e per la sua militanza politica nella comunità de El Bosque, Chiapas, di cui è originario.
E proprio in questo territorio del Messico profondo e (para)militarizzato, comincia l’odissea dell’attivista che è stato accusato dell’omicidio di sette poliziotti federali, avvenuto il 12 giugno del 2000, nella cosiddetta “strage di Simojovel” (a questo link un racconto dettagliato in italiano). Il 19 giugno il Profe viene praticamente sequestrato mentre va al lavoro da quattro poliziotti in borghese sprovvisti del mandato di arresto. Il giorno dopo viene preso anche due militanti legati all’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, i fratelli Manuel e Salvador López González, anche loro accusato di aver preso parte all’imboscata-strage.
Patishtán è stato malmenato, umiliato, torturato e poi messo agli arresti domiciliari per 30 giorni mentre si “raccoglievano” le prove contro di lui. La presenza degli interpreti delle lingue indigene messicane è quasi un’utopia e “el Profe” non fa eccezione, quindi niente traduzione. Come spesso accade in questi casi, in pratica le condanne dell’attivista si basano sul racconto contraddittorio, nel senso che è stato cambiato in diverse occasioni, di un testimone che prima dice di “non aver riconosciuto nessun partecipante dell’imboscata” e poi sostiene di “aver visto il professore poco prima di perdere i sensi”.
Le prove presentate da Patishtán, che lo avrebbero scagionato dimostrando la sua NON partecipazione all’imboscata e il suo alibi, cioè la sua presenza a una riunione in un altra città chiamata Huitiupan, sono state rigettate. Alla fine non sono state “reperite” le prove contro i due attivisti zapatisti. Invece il Profe è rimasto in galera, ha affrontato processi viziati da numerose irregolaritò e da 13 anni la sua lotta contro l’ingiustizia e gli abusi è diventata un caso internazionale, una battaglia epica e disperata contro la fabbrica dei colpevoli e la burocrazia
Quindi il caso è chiuso in Messico e i motivi veri sono chiari, hanno poco a che vedere con il famigerato rispetto dello stato di diritto. Resta solo la possibilità di un ennesimo ricorso, presso la Corte Interamericana dei Diritti Umani (CIDH), che potrebbe esprimersi a favore de “el Profe”, come viene soprannominato l’attivista Patishtán, ed “obbligare” lo stato messicano a metterlo in libertà, sempre che le istituzioni decidano di ascoltare e applicare le risoluzioni della CIDH che spesso passano inosservate.
I tre magistrati del tribunale chiapaneco con sede a Tuxtla Gutiérrez, la capitale di questo martoriato stato meridionale del Messico, si sono espressi all’unanimità. Niente dubbi, niente perplessità. Fuori dal tribunale, già da vari giorni, c’era un picchetto di sostenitori e difensori della libertà di Patishtán che non si muoveranno da lì finché un funzionario non si sarà presentato per realizzare una chiara e dettagliata esposizione delle motivazioni della sentenza.
“Né Alberto Patishtán né noi come avvocati chiederemo un indulto all’esecutivo”, ha spiegato Lionel Rivero, avvocato difensore del Profe. “La decisione è una porcheria per tutti i messicani e non ci arrenderemo” sostiene senza mezzi termini Trinidad Ramírez, del Fronte dei Popoli in Difesa della Terra, che si trovava nell’accampamento di protesta allestito a Città del Messico l’11 settembre scorso. Il Comitato per la Libertà di Patishtán continuerà a lottare per la sua liberazione, rispettando la volontà del professore. Andrea Spotti, in un articolo su Globalist dell’aprile scorso ha ben descritto il contesto della regione in cui si svilupparono e si sviluppano queste vicende:
“Siamo nel Chiapas degli anni successivi all’insurrezione zapatista e la tensione politica e (para)militare nella regione, dove i conflitti locali si moltiplicano, é assai alta. Ad El Bosque, un imponente movimento chiede la destituzione del sindaco Manuel Gómez, priista (membro del PRI, Partido Revolucionario Institucional, al governo attualmente in Messico) accusato di corruzione, nepotismo e abuso di potere; e Patishtán, come spesso accade ai maestri rurali – in molti casi veri e propri intellettuali organici delle loro comunità -, é il portavoce della protesta. Il governo, timoroso che la situazione possa degenerare dando vita a nuove sollevazioni, manda sul posto rinforzi della polizia federale. Durante uno dei pattugliamenti delle forze poliziesche, nei pressi del villaggio di Las Limas, avviene l’imboscata, effettuata da una decina di uomini a volto coperto armati di R-15 e di AK-47.
Inizialmente, governo statale e federale puntano il dito contro le guerriglie dell’Ezln e dell’Epr (Esercito Popolare Rivoluzionario). Gli zapatisti, attraverso le parole del Subcomandante Marcos, rispondono invece indicando nei gruppi paramilitari legati al Pri i probabili autori della strage, la quale sarà utilizzata come pretesto per intensificare ulteriormente la militarizzazione della regione. Dopo l’arresto di Patishtán, che scatena immediatamente vivaci proteste nella sua comunità (si arriverà fino ad occupare il palazzo municipale), vengono coinvolti nelle indagini anche due basi d’appoggio dell’Ezln, uno dei quali, Salvador López, sarà arrestato”.
Nel marzo scorso anche la Suprema Corte messicana, che in altri casi s’era dimostrata sensibile a ingiustizie macroscopiche e disposta ad annullare sentenze in base a eventuali vizi di forma dei processi, ha voltato le spalle al Profe ha rigettato il ricorso dei suoi avvocati contro le decisioni dei tribunali del Chiapas. Una recente decisione della Corte Suprema di Giustizia messicana, la quale ha stabilito un orientamento giurisprudenziale in materia di diritti umani, ha aperto la strada all’applicazione interna, a livello costituzionale, dei trattati internazionali che siano considerati migliorativi per quanto riguarda la protezione dei diritti dell’uomo rispetto alle norme vigenti in Messico. Ciononostante l’applicazione di tale orientamento, che potrebbe forse servire a Patishtán una volta ottenuta, eventualmente, una sentenza favorevole della CIDH, è stato depotenziato dalla stessa Corte Suprema con la previsione di eccezioni, casistiche e limiti che hanno fatto parlare addirittura di un retrocesso sul fronte dei diritti.
In carcere l’attivista ha sempre cercato di rendersi utile, inegnando a leggere a a scrivere ai detenuti analfabeti o fungendo da interprete-traduttore per i compagni di cella che non parlano lo spagnolo. Progressivamente si avvicina agli zapatisti, partecipa alle mobilitazione per il miglioramento delle condizioni di vita in prigione, si fa portavoce degli altri detenuti e nel 2006 entra a far parte della Otra Campaña, l’offensiva politica dell’EZLN, basata sulla VI Dichiarazione della Selva Lacandona, che irrompe nella campagna elettorale e denuncia la corruzione del sistema politico e di tutti partiti che lottano per il potere politico e il controllo dello stato. Sempre in quell’anno fonda
Nel 2006 entra a far parte de La Otra Campaña e fonda, insieme agli altri reclusi aderenti alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona, il collettivo La Voz del Amate che, collegando tra loro le iniziative di resistenza delle carceri del Chiapas con movimenti sociali esterni, negli anni ha fatto ottenere il rilascio di 137 prigionieri. Nell’ottobre 2012 ha subito un intervento chirurgico per l’asportazione di un umore benigno al cervello e ha vinto la battaglia contro il cancro. In questa breve video-intervista del luglio scorso El Profe parla di un’altra dura battaglia, delle sue sofferenze e dell’allontanamento dalla sua famiglia, ma soprattutto ricorda con dignità al Messico e al mondo che “a volte uno deve passare da queste situazioni affinché altra gente si accorga di quello che viviamo” e che il suo caso è solo “uno dei tanti tra quelli di persone che sono detenute ingiustamente in qualunque prigione, molte volte per non saper parlare spagnolo, per non avere soldi o per non saper leggere e scrivere”.
Segnalo due raccolte di firme per la libertà di Patishtán: 1) qui LINK e 2) Appello e firme di Amnesty International “Nessun giorno in più senza giustizia”: LINK
Documentario sul caso di Alberto Patishtán: LINK
Hashtag Twitter: #LibertadPatishtan
Comitato Città del Messico Twitter @TodosxPatishtan