di Luisa Catanese
A chi cantò l’inno del Bund
A chi lavorò per Oyneg Shabbos
Il rabbino Moishe è sul letto di morte. La sua breve storia sta per finire. Respira a fatica. Il mondo gli preme il petto. Non vuole lasciare soli i vivi; non vuole andarsene perché gli sembra di lasciare a metà una Storia che non prevede il lieto fine.
Attorno a sé, nel suo villaggio e lì a Varsavia, nel mondo intero e in sogno, nel presente e nel futuro, ha visto uomini prigionieri o in fuga. Ha visto la guerra, la fame, la distruzione. Ha visto uomini e donne ridotti a servi, strumenti, merci, rifiuti. Vede soffrire i figli di Israele e tutta la progenie di Noè. Sua moglie, i suoi figli, i suoi nipoti sono scomparsi. Moishe, a lungo malato, sta per finire i suoi giorni in una cantina. Il suo unico compagno, in quella cantina di Varsavia, è Shmuel.
Solerte nel raggiro, tenace nell’opportunismo; dicono che Shmuel non sia mai stato un uomo pio. Ma Shmuel divide il pane e l’acqua con il vecchio. Shmuel non crede in Dio, ma prova rimorso: lui resterà vivo, forse; quell’uomo onesto invece morirà come già sono morti tutti i loro cari. Che cosa dice il vecchio? Moishe delira, borbotta, forse prega. Me’erets Mitsrayim mibeyt avadim… Quel povero vecchio è fuori di sé.
Shmuel vorrebbe fare qualcosa per confortare il rabbino. Vede che Moishe sta per chiudere gli occhi e si avvicina al capezzale.
«Rabbi Moishe, ha udito? Sono tutti fuori, liberi per le vie. Ha suonato lo shofar… Sta per arrivare il Messia».
Il rabbino raccoglie le ultime forze: «Già qui, Shmuel… Proprio ora?»
«Sì, ci siamo».
«Non era l’altoparlante?»
«No, Rebbe. Non era il Fracassone del Purim».
«Ma allora è vero?»
«Certo, Rebbe. Quelli marciano ancora, ma sono diventati delle oche».
«L’epoca messianica?»
«Sì…».
«Non avrei mai creduto che sarebbe arrivato questo giorno».
«Ma come, Rabbi, lei non credeva che sarebbe arrivato il giorno del Giudizio?»
«Non credevo che tu avresti osservato due Shabbat di seguito».
Moishe non ha più fiato: «È ora… Non temere, ragazzo, ci vediamo presto».
-o-O-o-
Vengono a farmi visita e mi svegliano, nel silenzio, verso la fine della notte. Al buio prendo un foglio, traccio qualche loro parola per ritrovarla alla luce del sole. A volte invece parlano o cantano nel mio dormiveglia. O forse sono io che scendo nel sonno fino ai teatri profondi dove essi abitano.
Chi mi ha narrato questa storia non aveva un nome; era uno sconosciuto che parlava con voce familiare. Non era una storia mia, ma sentivo che mi riguardava. Non era una storia vera; era una finzione, una finzione meno involontaria di un sogno. Era uno scongiuro, un amuleto contro la morte.
Decisi che l’avrei scritta: sarebbe stato un apocrifo, un manoscritto nascosto in un bidone del latte sotto le macerie di Varsavia e poi sotto gli edifici del dopoguerra; o magari la trascrizione di un racconto orale, la trascrizione di qualcuno che abitava dall’Altra parte. Poi mi venne in mente un nome. La storia poteva avermela raccontata un certo Shmuel… Un uomo che si inventa una storia e la racconta ai suoi compagni per resistere alla morte che li attende. Decisi che l’avrei trascritta, ma non lo feci subito perché ancora non conoscevo chi fossero gli Shmuel della Resistenza.
Rilessi alcuni libri e decisi che il narratore notturno, uno dei tanti Shmuel del ghetto di Varsavia, aveva lasciato ai vivi un fucile e questa breve storia. Era lui l’uomo di cui racconta Emmanuel Ringelblum, proprio quell’uomo che in via Nalewski aveva strappato un fucile dalle mani di una guardia ucraina. Aveva combattuto a gennaio, e poi tra l’aprile e il maggio del 1943. Era sopravvissuto alla distruzione del ghetto, era fuggito dalle fogne, come Marek Edelman, o forse da una minuscola breccia del muro; e con il fucile della guardia ucraina aveva continuato a combattere finché non era stato ucciso, nell’estate del 1944, ancora a Varsavia ma fuori dal ghetto.
Shmuel non aveva il vizio di scrivere, ma inventava storielle, raccontava aneddoti. Aveva suonato la fisarmonica e cantato al caffè Pszczolka. Era un attore dilettante; aveva interpretato il becchino dell’Amleto, nella versione intitolata Principe danese. Dramma rivisto e corretto dal signor Jacob Eks, poiché Shakespeare faceva errori.
Scherzava perché la vita si faceva seria. Ma nella notte tra il 29 e il 30 ottobre del 1942, Shmuel era tra quelli che affissero manifesti sui muri del ghetto: «Informiamo la popolazione che, in seguito alla sentenza emanata a carico degli ufficiali superiori e del personale del servizio d’ordine ebraico di Varsavia, è stato giustiziato Jacob Lejkin, vicecomandante dei poliziotti ebrei».
Shmuel diceva di non credere in Dio, ma lo nominava di continuo e ripeteva: «Dio non esiste, il comunismo nemmeno, dunque nulla è permesso».
Riguardo all’avvocato Lejkin, ucciso dall’Organizzazione ebraica di combattimento lo stesso giorno in cui solo a Pinsk i nazisti avevano trucidato migliaia di ebrei, Shmuel aveva detto a un amico: «Chi vende l’anima al diavolo dimentica il passato e il futuro. Dio chiede molto, ma rende sempre di più. Jacob Lejkin era un uomo di legge, ma non ha seguito l’esempio di Abramo».
Erano parole di Shmuel? Non possiamo saperlo. Erano parole ammutolite nell’aria di Varsavia, parole che Shmuel mi aveva sussurrato nel sonno. Chiunque avesse proferito queste parole, intendeva dire che Lejkin da quando era diventato padre forse si illudeva, collaborando con i nazisti, di salvare il suo bambino a costo di sacrificare i figli degli altri. Non salvò il suo bambino né quelli degli altri. Non aveva creduto abbastanza all’insegnamento dei padri.
Shmuel, pensai, era stato contrabbandiere, poi poliziotto del ghetto e informatore della Resistenza. Era stato poliziotto fino alle deportazioni dell’estate del 1942. Restare poliziotto diventava sempre più inutile, sempre più ignobile. Pochissime informazioni e solo un bastone come arma; o peggio: rimandare la propria morte in cambio della morte altrui. Shmuel non voleva morire, voleva vivere e combattere. Voleva morire da vecchio, ma non dimenticava che tutti dobbiamo morire. Era senz’armi, ma avrebbe combattuto anche a morsi. Dunque trovò più ragionevole strappare un fucile dalle mani di una guardia ucraina. E poi si nascose, si preparò a combattere; forse per scongiurare la morte raccontò una delle sue storie… Chi racconta una storia non è mai solo.
Forse l’aveva inventata nelle fogne del ghetto, dopo la rivolta, attendendo il momento giusto per fuggire. Si dice che l’avesse raccontata una notte a Ludek, l’amico dell’Altra parte. Si dice che in sua memoria Ludek l’abbia trascritta e consegnata a un altro amico, un ragazzo fuggito dal ghetto e nascosto in un appartamento della riva destra della Vistola, un giovane studioso che l’autunno precedente aveva fornito materiale per l’archivio di Emmanuel Ringelblum. Ma è possibile che la storiella non sia di Shmuel; è possibile che Ludek sia un nome falso; è possibile che Ludek e il giovane studioso siano la stessa persona; o anche è possibile che Ludek e il giovane studioso e magari anche Shmuel siano lontani parenti.
Di certo Shmuel fu ucciso a Varsavia come parecchi altri Shmuel. Non era un uomo disonesto, non era un ladro: aveva rubato ai ladri, aveva ingannato gli impostori. Non era vecchio come il fornaio Shmuel David Bursztyn, padre di otto figli, ucciso nell’aprile 1942. Non era giovane come Shmuel Breslaw, arrestato e ucciso nel settembre del 1942. Non aveva il ruolo politico di Shmuel Zygielbojm, rappresentante del Bund nel Consiglio nazionale polacco, che poco prima di morire a Londra il 12 maggio del 1943, quando ormai il ghetto di Varsavia era una distesa di macerie, in una lettera aveva scritto: «La responsabilità per l’assassinio dell’intera nazione ebraica in Polonia ricade prima di tutto su coloro che l’hanno eseguito, ma indirettamente coinvolge l’intera umanità, i popoli delle nazioni Alleate e i loro governi che non hanno fatto niente per fermarlo… Con la mia morte voglio esprimere la mia protesta contro la passività con cui il mondo intero ha assistito alla distruzione del popolo ebraico».
Il piccolo Shmuel era uno dei tanti Shmuel del ghetto. Rispettava gli uomini devoti, anche se non celebrava il Sabato. Osava scherzare perché non aveva intenzione di far ridere nessuno e perché come tutti i suoi compagni conosceva la misura sconfinata della tragedia. Nell’oceano salato di lacrime umane ci sono anche le sue lacrime.
Questo oceano, cantava Shmuel, noi lo svuoteremo…