di Filippo Casaccia
A fine agosto 2001 son finito a Barbados perché un amico di Riccardo aveva trovato una casetta a Saint James, sulla costa ovest, a un quarto d’ora di macchina dalla capitale Bridgetown. Non avendo precedenti esperienze caraibiche, a cose fatte, è stata una vacanza abbastanza straniante.
L’isola è bella e le spiagge sono spettacolari, ma la popolazione non è particolarmente gioviale. I pochi austeri rasta non ti degnano neanche di uno sguardo, mentre tutti gli altri si fan dei grandi cazzi propri, anche perché il tipico turista caucasico di solito si rinchiude in un albergone a distribuire biglietti verdi e l’isola manco la visita.
Noi del turista bianco abbiamo solo il colore, perché soldi, pochini, e il vivere in mezzo ai locali desta più sospetti che simpatie, anche se alla fine della vacanza qualcuno che ci offre il pugno dicendo “respect and dignity” lo troviamo.
L’architettura è peculiare: linde casette in legno costruite su piattaforme di cemento, nel caso che passi l’ennesimo uragano. Possibilità sempre presente, come il pomeriggio che vediamo tutti i nostri vicini inchiodare le imposte. Uno incatena addirittura la macchina a un albero enorme. Veniamo invitati a raggiungere tutti una chiesetta lì vicino, poi per fortuna l’allarme rientra: l’uragano ha svoltato e ci ha risparmiati.
Ci ambientiamo: sole, sabbia, biglie, libri, mare e qualcosa da mangiare, non serve altro. E qui viene il problema, perché a Barbados si mangia letteralmente da schifo. Oltre tre secoli di colonizzazione britannica hanno lasciato nella popolazione un senso critico culinario vicino allo zero. Oggi l’isola sembra una colonia statunitense: la valuta locale è agganciata al dollaro e i prezzi altissimi e i consumi riflettono la scelta monetaria; e sul deserto gastronomico britannico è calato un bombardamento di salsine. Tolta la frutta, non c’è grande scelta: o pesce (cattivo) o pollo. Godardianamente, direte, un pollo è un pollo… e invece qui, lo sbagliano il pollo.
Vabbeh: si mangerà male, ma ci sarà una vita locale, no? No. La prima sera partecipiamo a una festa al Boat Yard, un localaccio di Bridgetown sul mare. La scelta culinaria è ristretta a un panino poroso con petto di pollo, asciutto come velluto e pure senza la benedizione di una qualsiasi salsina lubrificante. Gli indigeni, rigidi e in piedi, ascoltano un raggamuffin ossessivo e aspro, guardando l’enorme amplificatore da cui fuoriesce. A metà tra la scena del monolito di 2001 e Ho camminato con uno zombie. Non ci resta che sbronzarci con la birra Banks, secca e leggera, o con il famoso rum Mount Gay, pregiato, antico e nobile.
I giorni passano indolenti, spiaggiati come leoni marini, in attesa della temutissima ora di cena, quando di frutta non ne puoi più. Il regime gastronomico punitivo ci induce a racimolare i nostri pochi soldi e optare per un ristorante lussuoso. A differenza delle altre sere mangiamo comunque di merda, ma spendendo un capitale.
Il giorno dopo, senza soldi, mi arrangio con della pressatella in scatola stesa su del pan carré, mentre i miei compagni d’avventura hanno la faccia tosta di intrufolarsi in un club Med per razziare il buffet.
Una visita culturale all’unico monumento storico, una chiesa devastata dal passaggio di diversi uragani e ricostruita a fine ‘700, sembra un pellegrinaggio devoto per chiedere di mangiare qualcosa di commestibile e con un vago sapore. Funziona, perché una sera avviene il miracolo. Affamato e avvilito, approccio un umile chioschetto sulla spiaggia vicino a casa nostra, il Bomba’s Beach Bar. E, sarà stata la dieta forzata dei giorni precedenti, ma mangio un panino che non dimenticherò mai e che nei giorni seguenti diventa pasto e cena, più volte al giorno.
Il Bomba Burger sarebbe il classico hamburger se non fosse per qualche tocco di genio locale: al pane col sesamo e alla carne, si accompagnano papaya, bacon croccante e una goccia di chili sauce, in un mix esaltante per il vostro palato e mortificante per il tasso di colesterolo.
Non so se la precaria struttura del Bomba’s sia ancora in piedi ma è lì che dovete andare, se vi trovate a Barbados e non alloggiate in uno dei resort da miliardari dove probabilmente vi servono pasti fatti arrivare direttamente dall’Europa continentale.
Nei giorni seguenti, accompagnato alla succitata Banks, il Bomba Burger diventa un succulento pranzetto e il nostro umore cambia. Cominciamo a passeggiare per le spiagge della costa ovest con più curiosità, verificando con mano i danni della colonizzazione culturale ed economica. Sinché una sera – a pochi centinaia di metri da dove dormiamo – incontro un curioso cippo piramidale.
Mi avvicino e leggo.
Nomi di origine spagnola.
Tanti.
Il 6 ottobre 1976, lì davanti, è caduto un DC8.
Una bomba.
Un attentato organizzato da uomini pagati dalla CIA, che hanno poi tranquillamente ammesso il fatto.
L’aereo era cubano, 73 i morti.
Dei principali responsabili, Luis Posada Carriles è oggi – dopo processi ridicoli, amnistie e la concessione dell’asilo politico – libero e impunito a Miami. Il venezuelano Orlando Bosch – dopo la grazia personale di Bush padre nel 1990 – è stato al sicuro in Florida sino alla morte, nel 2011.
Qualche giorno dopo Riccardo e io siamo in Italia, davanti a un televisore acceso.
È il primo pomeriggio dell’11 settembre.
(Questo post, oggi aggiornato, è stato pubblicato su Carmilla una prima volta nel 2008. Le vittime dell’attentato aspettano giustizia da 37 anni).