di Emanuele Manco
Una canzone per Marion (Song for Marion) di Paul Andrew Williams, Gran Bretagna/Germania 2012
L’inquadratura iniziale vale tutto il film. La faccia stanca ma ancora dura di Terence Stamp riflessa allo specchio preannuncia l’atteggiamento del personaggio e rappresenta il tema principale di Una canzone per Marion.
C’è chi sostiene che se non apprezzi un film dalla prima inquadratura non lo apprezzerai per niente. Non sempre questa regola è valida ma lo è sicuramente nel caso di questo film firmato da Paul Andrew Williams, regista con precedenti di piccole produzioni thriller, come il pluripremiato London to Brighton.
Questa volta il giovane autore inglese narra una storia di anziani. Arthur (Stamp) è un pensionato la cui moglie Marion, (Vanessa Redgrave) frequenta un coro amatoriale, diretto da Elizabeth (Gemma Artenton). Arthur ha un rapporto difficile con il figlio James (Christopher Eccleston) e neanche la notizia del male incurabile che affligge Marion riesce a riavvicinarli.
Quello che accadrà è in parte prevedibile, in parte no. Dapprima Arthur si avvicina al coro per aiutare Marion a concentrarsi su qualcosa di diverso dal male. Il coro si qualificherà per un concorso canoro ma Marion non potrà parteciparvi, mancando poco dopo la prova selettiva. Arthur allora stringerà con Elizabeth un rapporto mentore-allievo, nel quale è lui l’allievo e la ragazza, che pure ha problemi irrisolti, il mentore; si unirà al coro per partecipare al concorso, cercando inoltre una via di riconciliazione con il figlio, allontanatosi ulteriormente dopo la morte della madre.
L’enfatico titolo italiano che aggiunge un articolo all’originale non funziona come quello per il mercato USA, Unfinished Song, un film che ha molti meriti. Il primo è quello di raccontarci una storia di drammi e conflitti con senso della misura. Strano a dirsi per un regista che ha sempre narrato di personaggi sopra le righe. Eppure è così. Se ci fossero stati di mezzo gli statunitensi il film sarebbe stato strappalacrime e melenso, con tutti i classici trucchetti ricattatori.
Invece Williams non mette in scena trucchi, bensì una storia che ha dialoghi che suonano autentici, recitati da buoni attori, capaci anch’essi di trasformarsi rispetto alle maschere con cui sono noti.
Inoltre dobbiamo abituarci a pensare che i film sugli anziani, sulla loro vita quotidiana e sul rapporto con la gioventù, non siano delle eccezioni, ma una regola.
Stamp ha 75 anni ma sembra più giovane dei cinquantenni di quando ero bambino io. E quindi è possibile che un uomo giunto a un’età che solo una generazione fa era considerata veneranda, possa evolversi ancora, accumulare nuove esperienze e cambiare la percezione del mondo e del sé. La risposta di Song for Marion è affermativa.
Certo problemi ce ne saranno. Soprattutto materiali. La perfetta ricostruzione d’ambiente del film ci mostra la modestia della lower class inglese, piegata dal liberismo thatcheriano anni Ottanta ma anche dallo spregiudicato New Labour blairiano degli anni Novanta e oltre.
Non è l’esplicita condanna del cinema di Loach, ma è chiaro che parlando di sentimenti, e volendo cogliere la verità delle cose, l’ambiente riesce a essere protagonista. Soprattutto nella fase in cui il coro degli anziani si presenta al concorso e suscita perplessità perché non restituisce l’immagine “comune” che degli anziani hanno “i giovani”.
Anni di modestie, di vampirizzanti sacrifici avrebbero dovuto ingrigire e incattivire chi è attempato, acuendo il conflitto tra generazioni? Il regista sembra dirci di no: gli anziani si divertono, si incontrano e parlano anche di sesso, e si fanno delle grasse risate.
Il personaggio di Elizabeth, interpretato anch’esso con senso della misura da Gemma Artenton, è per esempio il simbolo del disagio che provano molti giovani, che non riescono a rapportarsi con i propri coetanei e che scoprono quanto sia vitale il mondo di chi ha più anni di loro.
Stamp d’altra parte rende perfettamente l’idea di un vecchio che non può e non vuole sentirsi chiamare così, e riesce a reggere il peso di un film in cui appare quasi in ogni scena.
Viceversa Christopher Eccleston, seppur non presente in molte scene, buca sempre lo schermo. E non lo fa con eccessi, bensì con l’efficace caratterizzazione di un personaggio conflittuale, cresciuto in un clima sociale gelido che ha portato a rapporti tra padri e figli privi di intimità e affettività.
Vanessa Redgrave interpreta metà del film e il suo personaggio è soprattutto un catalizzatore. Anche la sua interpretazione è misurata, pur con un personaggio consapevole della fine imminente della propria vita. Non fa sfoggio di bravura: non ne ha bisogno perché brava lo è davvero.
Una citazione infine per la musica, colonna portante del film: i coristi – in parte attori, in parte veri cantanti – si sono trovati ad affrontare una sfida non da poco. Ossia il particolare arrangiamento di canzoni rap, pop o heavy metal. Difficile immaginare Ace Of Spades dei Motörhead o Love Shack dei B52 prive di ogni arrangiamento, ridotte all’essenza della melodia, praticamente riscritte ma ancora riconoscibili, impresa in cui è riuscito l’arrangiatore musicale del film Richard Scott.