di Filippo Casaccia
Then I Saw Black, And My Face Splashed In The Sky (Neil Young, Powderfinger)
La premessa è irrituale ma doverosa: vi invito, amabili lettori, – chi può – a procedere nella lettura di questo pezzo con una mano sulle palle, esattamente come sto facendo io che arranco sulla tastiera con la sola destra. Il fatto è che la storia dei Lynyrd Skynyrd, magnifico gruppo rock della metà degli anni 70, è costellata di sfighe inimmaginabili.
Ed è la storia di una band che avrebbe potuto dominare le classifiche e gli stadi per molti anni a venire e che nel momento del salto verso lo stardom assoluto è stata decimata da una tragedia che nella storia del rock ha il solo precedente della morte di Buddy Holly: il 20 ottobre 1977 li ferma infatti un incidente aereo che mena gran strage tra le fila del gruppo, privandolo soprattutto del leader Ronnie Van Zant, i Lynyrd Skynyrd fatti persona.
Era appena uscito il disco della consacrazione, Street Survivors, uno dei loro migliori. Il futuro gli sorrideva, la band era ripulita da dipendenze varie e girava di nuovo a mille. Per arrivare a quel momento aveva lottato a lungo e più che una band era una gang, legata da affetto viscerale, rissosa ma unitissima, la classifica famigliola disfunzionale e orgogliosa del Sud degli States che crede nell’etica del lavoro e vuole farcela decidendo di testa propria. I Lynyrd Skynyrd nascono a inizio decennio con negli occhi il successo degli inarrivabili Allman Brothers (altri che hanno resistito a disgrazie a non finire e sono ancora in giro con onore) e nelle orecchie il sound della terza British Invasion, specialmente quello dei rocciosi Free: un incedere blues che sa di bootleg whiskey, ma con una sensibilità pop. Attorno a Van Zant si coagulano i loser della parte sbagliata di Jacksonville, Florida. Non li fermano i loro capelli lunghi, l’atteggiamento hippie e l’ostilità dei redneck che li vedono troppo in confidenza coi neri del luogo, quelli che gli insegnano il blues. L’apprendistato è lungo e faticoso (il nucleo era nato addirittura alla high school, nel 1965), in locali che avete visto satireggiati nei Blues Brothers ma che nella realtà sono anche peggio e dove gli oggetti tirati sul palco sono la norma. La leggenda vuole che il chitarrista Allen Collins, una volta colpito in testa da una bottigliata, sia sceso in mezzo al pubblico per calmare a ceffoni l’esuberante spettatore. Tornò sul palco con tempismo perfetto, esattamente dopo dodici battute, in tempo per pigliarsi il suo assolo. (Con una Gibson Firebird; Gary Rossington, invece, suonava una Les Paul; questo per riconoscerli nelle foto e per dare soddisfazione ai guitar addicted).
Il gruppo si esercita nella comunitaria Hell House, il cui nome dice già tutto: una cabina in legno e lamiera confortevole come una fornace, poco fuori Jacksonville. Lì, diventano presto una formazione che beve benzina, mastica tabacco e caca fulmini, suonando da dio, unita, dinamica e travolgente. Li guida con pugno di ferro Ronnie Van Zant. Voleva essere pugile, poteva essere camionista (come il padre), era diventato un frontman eccezionale: pancetta da bevitore, berretto da cowboy e un’inquietante somiglianza con l’attuale Zucchero. Ronnie canta sul palco a piedi nudi, per chiamare gli assoli fischia come Trapattoni e sprona i suoi uomini puntandogli contro l’asta del microfono, come se fossero una mandria di puledri da domare. Si dice che diriga la band come Stalin l’Unione Sovietica: esige disciplina assoluta e il pianista Billy Powell lo capisce perfettamente dopo aver perso due incisivi.
Però per sfondare serve una botta di culo, che arriva personificata in un borghese ebreo di New York, già nel pantheon rock assieme a Bob Dylan (suona l’organo in Like A Rolling Stone su Highway 61 Revisited), Mike Bloomfield (Super Sessions), Stones (su Let It Bleed), Hendrix (su Electric Ladyland) e i suoi Blood, Sweat & Tears: si chiama Al Kooper.
La gavetta dei Lynyrd finisce quando Al li vede esibirsi in una bettola di Atlanta dal nome che sembra un insulto omofobico siculo, il Funocchio’s. Kooper capisce che ha davanti qualcosa di unico e provvede subito a contrattare la band che – prodotta da lui – esordisce nel 1973 con Pronounced Leh-nerd Skin-nerd, giusto per chiarire quel nome che è una presa per il culo dell’insegnante di ginnastica che tiranneggiava i ragazzi alla high school (e immagino che lo Skinner dei Simpson, preside della scuola di Springfield, sia un omaggio di Matt Groening).
L’album è splendido e mescola blues, hard rock e un pizzico di country, e – assieme alle commoventi Simple Man e Tuesday’s Gone (ma se comincio con gli elenchi non la smetto più) – c’è un brano che spicca e nel tempo diverrà un inno universale, repertorio obbligatorio per qualunque cover band USA: Free Bird, ballatona strazzacore dedicata a Duane Allman e che parte dolente e melanconica e poi si trasforma in una maratona feroce della sei corde, con assoli a profusione in un crescendo inarrestabile e maestoso. Del resto, sul palco la formazione diventa presto a tre chitarre (con Ed King, Fender Stratocaster) e vi assicuro che c’è da goderne e molto. Se ne accorgono in diversi e i Lynyrd ottengono di aprire per gli Who in tour con Quadrophenia: il loro comportamento on the road fa sembrare Keith Moon & company dei boy scout (e parliamo di gente che ha devastato cittadine). Ma il consueto repertorio di stanze d’albergo sfasciate e di liti sul palco o nei camerini, porta anche la grande stampa americana a giocare con una immagine degli Skynyrd sempliciotta e aggressiva, di inurbati rurali un po’ tonti.
Le vendite non sono granché e ci si gioca il futuro col classico difficile secondo album. Che è l’ottimo Second Helping del 1974, con la consueta formula che mescola tutti gli umori del Sud. E dove c’è anche il pezzo che consegna gli Skynyrd alla storia: Sweet Home Alabama, dal riff inconfondibile e dagli assoli iconici che – parole sue – il chitarrista Ed King avrebbe appreso in sogno. Un pezzo che anche il più schifosamente giovane tra voi conosce, grazie al furbetto Kid Rock che l’ha ripresa qualche estate fa in All Summer Long.
Come tanti successi, la nascita del brano è un po’ casuale e il testo vuole essere una risposta a Neil Young che aveva attaccato lo stato dell’Alabama nell’omonima canzone e in Southern Man. I ragazzi non ci stanno: qui non siamo tutti razzisti. E allora gliela cantano e non mancano di far sentire il coro “Booo Booo Booo” al governatore segregazionista George Wallace. Però il verso, prima, dice: “A Birmingham tutti amano il governatore” e non tutti colgono l’ironia.
I Lynyrd suoneranno pure al concerto per la candidatura definitiva di “Nocciolina” Jimmy Carter (più democratici di così, eccheccazzo) ma è più facile far passare la canzone come un inno sciovinista, orgoglioso della propria burinaggine, tanto più che la casa discografica MCA li fa esibire con un bandierone confederato alle spalle. E così, anche qui da noi, per molti gli Skynyrd passano per dei razzisti bifolchi e a nulla varranno le spiegazioni negli anni a seguire o il fatto che spesso Ronnie si esibisca indossando magliette con foto di Neil Young e che il vecchio canadese scriva Powderfinger proprio per loro (che non la incideranno mai).
Il mercato preferisce il sudista che non si arrende e si definisce addirittura un genere di cui malvolentieri il gruppo di Jacksonville diventa la punta di diamante, quel Southern Rock di cui gli Allman sono i nobili progenitori. È il boom, dalla Florida fino al Texas, e da fenomeno regionale si passa al successo nazionale, con Marshall Tucker Band, Charlie Daniels Band, Outlaws, Wet Willie, Grinderswitch, Black Oak Arkansas, Molly Hatchet, ZZ Top, Blackfoot e tanti altri, in un ideale arco parlamentare che va dal country all’heavy, passando dal soul al jazz, tra cascami hippie e qualche avvisaglia reazionaria.
Il successo ha un sapore particolare. I cafoni assaporano il senso della rivincita su chiunque li avesse ostacolati e si esibisce la ricchezza ottenuta, si beve whiskey migliore e si accettano date a non finire. Ovviamente scoppiano scazzi feroci e cominciano le defezioni: Ed King scappa letteralmente una notte, a metà del cosiddetto Torture Tour (61 date in 90 giorni), mentre il batterista Bob Burns viene rimandato a casa dall’Inghilterra, dove, esauritissimo, ha gettato un gatto dalla finestra della sua camera d’albergo perché lo riteneva posseduto dal demonio (aveva appena visto L’esorcista… il cinema, alle volte).
Si arriva al terzo album incattiviti ed esausti e, al grido che il Sud ce la farà ancora, si procede, anche se le performance sono meno buone e talvolta ci si esibisce con la mani fasciate o gli occhiali da sole per nascondere gli occhi neri frutto di reciproci pestaggi in camerino. Nuthin’ Fancy (niente di divertente, emblematico) fa fatica e l’inno contro l’uso delle pistole, Saturday Night Special, viene trattato come se le esaltasse. Non ha miglior fortuna il quarto album, del 1976, il pur bello Gimme Back My Bullets. Anche qui polemiche: i “proiettili” che Ronnie vuole indietro sono quelli che scalano le classifiche, come Sweet Home Alabama o Free Bird. Finisce che invece ad ogni concerto il palco venga invaso da una gragnuolata di cartucce vuote o da esplodere. Sembra una commedia degli equivoci.
Tra i pezzi memorabili dell’album c’è Double Trouble che racconta degli undici arresti di Van Zant. Il disco non fa in tempo ad uscire che gli arresti diventano dodici. Ma si distingue anche il nuovo batterista Artimus Pyle che finisce sotto processo perché dopo un concerto viene spintonato da un poliziotto: ovviamente reagisce e lo fa nero. Accorrono rinforzi e lo fanno nero: arrestato.
Il momento di crisi viene superato assoldando una nuova terza chitarra. Dopo tanto cercare, una delle Honkettes (le coriste che accompagnano il gruppo) propone timidamente il fratello, Steve Gaines, che lascia tutti a bocca aperta e mette il pepe ar culo alla band. Il ritrovato smalto sul palco (a Knebworth rubano lo show agli headliner e Ronnie si esibisce con una maglietta che chiede: “Ma chi cazzo sono questi Rolling Stones, dopotutto?”) e il successo imprevedibile di Frampton Comes Alive convincono tutti della necessità di un doppio dal vivo. A fine 1976 ne esce uno di quelli monumentali, One More From The Road, dalla scaletta perfetta e dalle esecuzioni fulmicotoniche, che vende benissimo e rilancia la band.
Il 1977 è l’anno cruciale e il nuovo album Street Survivors nasce sotto cattivi auspici: nello stesso giorno del settembre 1976 (Labor Day, il 6) i chitarristi Allen Collins e Gary Rossington, a causa di droghe e alcol, centrano degli alberi con le loro macchine, separatamente. Van Zant scrive allora la profetica That Smell, sente cioè puzza di morte e non sa quanto ha ragione. Ma l’album è vitale, gioioso, ricco dell’energia portata da Gaines. Il tour parte in contemporanea all’uscita del disco e dopo cinque date, nella serata del 20 ottobre 1977, c’è da viaggiare sul Convair 240 del gruppo, da Greenville, South Carolina, fino a Baton Rouge, Louisiana.
La benzina finisce troppo presto e i motori vanno in vacca uno dopo l’altro: si va in picchiata libera sulle paludi del Mississippi, infestate da serpenti e alligatori. L’impatto è devastante, l’aereo a pezzi. Muoiono sul colpo pilota e copilota, il road manager, Steve Gaines e la sorella corista Cassie.
Van Zant viene sbalzato fuori dalla carlinga e prende un albero con la testa. Per una volta ha la peggio lui.
I sopravvissuti brancolano nel buio in uno scenario da incubo. Artimus Pyle, con sterno rotto e tre costole che gli escono dal petto, cerca soccorso e incontra un bifolco stile Tranquillo week end di paura che lo accoglie – non scherzo – a fucilate ma poi gli dà retta e fa partire i soccorsi che scatenano anche fan (o presunti tali): in mezzo ai soccorritori e ai superstiti urlanti si mescolano avvoltoi che recuperano vestiti, strumenti, gioielli, soldi e qualunque memorabilia sia possibile raccattare dal pantano.
Una volta ricoverato, Artimus ce la farà. Come il bassista Leon Wilkeson che ha la mascella rotta, il torace a pezzi e varie emorragie interne, tanto che viene dichiarato morto ben tre volte. Powell se la cava semplicemente col naso staccato dal volto. Glielo riattaccano. Rossington ha braccia, gambe, polsi, anca e bacino fratturati. Collins due vertebre del collo rotte e il braccio destro ridotto da consigliarne l’amputazione. Che rifiuta.
Cala il sipario e il terribile incidente pone significativamente fine al periodo migliore del Southern Rock. La band si riunisce dieci anni dopo per un tour di tributo e – visto l’enorme successo – non si ferma più: dischi non memorabili seppur dignitosi e una line up che perde i pezzi pian piano. Allen Collins rimane su una sedia a rotelle dopo un incidente d’auto in cui muore la fidanzata. La moglie ci aveva già lasciato nel 1981, incinta, per improvvisa emorragia interna. Lui muore nel 1991 per polmonite cronica. Billy Powell muore il gennaio 2009 per un probabile attacco cardiaco, mentre stava chiamando con intuito il medico. A Leon Wilkeson qualcuno taglia la gola nel sonno nel 1990, mentre è a bordo del tour bus del gruppo (!). Non schiatta ma mai s’è saputo chi fosse il colpevole (la fidanzata e il chitarrista Ed King – all’epoca di nuovo nella band – si accusano reciprocamente: bell’ambientino). Muore nel 2001, a 49 anni, per cause più o meno naturali: cirrosi ed enfisema cronici.
Dal 1987 il nuovo cantante è il fratellino Johnnie Van Zant (voce identica a Ronnie, carisma molto inferiore), che però salta solo alcune date nel 2006 per una banale appendicite, il pivello. Ed King rientra nella band dall’’87 al ’96 quando molla per ripetuti collassi cardiaci. È felicemente ritirato, e lo credo bene: è vivo. Gli subentra Hughie Thomasson, già chitarra rovente degli Outlaws. Che poi lascia per morire nel 2007 causa infarto. Bob Burns è ancora incredibilmente tra noi (e, infatti, non suona più).
I Lynyrd Skynyrd di oggi sono un’esemplare tribute band, diventata reazionaria, musicalmente e politicamente. Non c’è più alcuna contestazione dell’establishment, anzi si moltiplicano le iniziative per appoggiare “i nostri ragazzi” in Afghanistan e Iraq. Ogni tanto viene pubblicato qualche disco che – per forza di cose – non ha alcuna forza propulsiva o inventività. La band suona bene, come sempre, ed è perfetta per le convention dei bikers o per raduni di nostalgici in tutto il mondo. Il solo membro originale è il povero Gary Rossington, uno che convive con 5 bypass cardiaci e diverse placche metalliche disseminate sullo scheletro, cosa che farà la gioia sua e dei controllori ad ogni metal detector aeroportuale.
Insomma, dopo 40 anni, alla band è purtroppo subentrato il brand.
Detto questo: potete levare la mano.
Amen.
(Questo post è stato pubblicato diversi anni fa su Carmilla; lo ripubblichiamo nella speranza che nessuno caschi nell’equivoco su chi siano i Lynyrd Skynyrd oggi).