di Roberto Sturm
Noemi Cuffia, Il metodo della bomba atomica, Liber Aria Editrice, Bari, 2013, 151 pp., 15 €
Leggere un romanzo in cui forma e contenuto trovino il giusto equilibrio non è facile, soprattutto se si parla di opere prime. Il metodo della bomba atomica, di Noemi Cuffia – blogger molto seguita (Tazzina-di-caffè) ed esordiente per la giovane casa editrice Liber Aria – è un romanzo straordinario, uno dei migliori esordi che abbia mai letto: un romanzo disperato, crudele e struggente, dove sentimenti apparentemente agli antipodi come l’amore e la solitudine disegnano le trame estreme che percorrono le vite ordinarie di Celeste, Leone e Umberto.
Il minimalismo stilistico della Cuffia non deraglia mai nello scontato e i dettagli sono pennellate che rendono realistico il contesto. Come, per esempio, i cuori di Leone e Celeste: bradicardico il primo e tachicardico il secondo, che trovano un equilibrio quando i due corrono per i parchi di una Torino insolita.
E nella quotidianità ordinaria della vicenda – un insolito triangolo – l’amore non rappresenta sempre una redenzione certa e forse – sembra volerci dire Noemi –, la solitudine è un punto d’arrivo obbligato per ascoltarsi.
Il metodo della bomba atomica non è un testo facilmente classificabile. Sei d’accordo con chi l’ha definito noir?
In effetti è un romanzo atipico. Esula volutamente da una definizione di genere. Il lettore è chiamato ad aspettare, ad esempio, fino alla fine per capire (forse) “chi è l’assassino” e questo enigma ci avvicina al concetto di giallo. Ma non si può definire tale e nemmeno noir in senso stretto, ovvero poliziesco. Le atmosfere sono senz’altro cupe, in certi momenti, ma mai circoscrivibili e, soprattutto, cambiano molto spesso nel corso della storia, come in un caleidoscopio di colori.
Due dei temi più importanti affrontati sono l’amore e la solitudine. I tre personaggi principali, Celeste, Leone e Umberto, li vivono in modo differente: Celeste è la costante, Leone e Umberto le variabili (ma fino a un certo punto) di questo triangolo…
Amore e solitudine: è proprio questo il binomio del romanzo. C’è un grande equivoco legato all’amore: ovvero che serva, sia utile, a sconfiggere la solitudine. Qualche volta siamo allora in balia del tremendo (in alcuni casi distruttivo) senso di deserto, del vuoto d’amore e facciamo l’impossibile per colmarlo. Si arriva a costruire intere famiglie solo sulla spinta di questa fame, che in alcuni casi è proprio un’inedia. Il segreto invece è ascoltare la solitudine, capirne il senso, saperci fare i conti. Solo così si crea lo spazio per l’amore. Che non è il soddisfacimento di una necessità, non solo almeno, ma anche una gioia “in più” che la vita, se vuole, ci regala. Nel libro ho cercato di spiegare cosa succede quando invece quella fame d’amore e quell’incapacità di stare da soli prendono il sopravvento.
Una delle caratteristiche del romanzo è l’essenzialità dello stile e della vicenda, che spesso sconfina nel minimalismo. Una scelta coraggiosa che rischia di far scadere il testo nell’ordinarietà…
Se ho evitato o meno la trappola non lo so, ma sono contenta che l’impegno si sia notato, è una soddisfazione, perché la parte stilistica in un romanzo è decisiva. Sì: è stata una scelta ponderata e meditata nel tempo. Di natura sarei meno essenziale, dunque è stata una sfida con me stessa, prima di tutto. Al tempo stesso, ho voluto inserire anche sezioni più espressionistiche e immaginifiche, per spezzare il ritmo. All’inizio non ne ero consapevole ma, verso la fine del lavoro, mi sono resa conto che puntavo ad assomigliare anche un po’ a Murakami. Perché secondo me è bello sempre continuare a sognare nella vita come nella scrittura.
L’essenzialità di cui abbiamo parlato fa da sottofondo a un’introspezione psicologica molto curata. Hai trovato questa strada dopo aver cominciato a scrivere il romanzo o sei già partita con questa idea in testa?
Ho trovato il mondo interiore dei personaggi strada facendo. All’inizio erano più stilizzati e c’è stato un consistente lavoro di riscrittura. Anzi, di riscritture. Un po’ come nella vita, in effetti: per capire bene le cose a volte è meglio aspettare del tempo e riflettere molto, e rifare, rifare, rifare. Così è avvenuto per questi personaggi. Si è trattato proprio di un percorso di conoscenza lento, fatto di illuminazioni e delusioni, strategie e disarmanti prove d’amore, senza rete di protezione.
Hai lavorato con un editor?
Sì: questo romanzo è il frutto di un lavoro meticoloso anche da parte della editor Alessandra Minervini, una professionista di grande valore, anche umano. Sono convinta che il lavoro dell’editor sia alla base di un serio progetto editoriale, che valorizzi e dia respiro a un romanzo. Sono, d’altro canto, favorevole al self-publishing, ma solo nella misura in cui possa diventare un utile strumento per gli esordienti al fine di farsi notare da un editore.
Scrittrice, blogger e fotografa. L’arte, nella tua vita, non sembra un aspetto secondario…
Le mie attività ruotano soltanto intorno alla scrittura. Nella mia vita l’arte è molto importante. Ed è una conquista quotidiana: nulla è scontato per me, come per moltissime altre persone. Scegliere questo tipo di strada, tutti i giorni, può avere un prezzo altissimo, da qualsiasi punto di vista, ma lo pago volentieri e soprattutto non posso farne a meno: dunque forse non è proprio una scelta, ma un destino, al di là dei risultati, perché, chi si mette a scrivere lo fa per risponde a una chiamata ben precisa, come i religiosi.
Perché un blog come Tazzina-di-caffè, tra l’altro molto seguito? Ti è servito anche come palestra per la tua avventura letteraria?
Spesso le motivazioni di un blog, della sua apertura e della sua esistenza in Rete, sono sottovalutate, considerate alla stregua di operazioni di marketing: è un grosso equivoco. Non si tiene conto del fatto che spesso un blog nasce da un’esigenza profonda, di comunicazione con il mondo di parte di sé e dei propri saperi. Quella della “palestra” è una metafora calzante: il blog è una palestra molto efficace, di scrittura e, azzardo a dire, anche di vita. Spesso chi scrive si sente forte soltanto della propria penna (o tastiera!), come se questa bastasse. E qualche volta è così, ed è sensato, specie se si è professionisti. Altre volte invece non basta, soprattutto agli esordi, anche se mi si dovrà perdonare questa generalizzazione. Quando si decide di gestire un blog, diventa necessario saper rispettare modi e tempi dettati da esigenze altrui, che sono quelle di chi legge, che si affeziona e si aspetta una certa periodicità, un ritmo più o meno serrato, una coerenza e un’etica. Si diventa responsabili, insomma. Questo meccanismo assomiglia proprio a un lavoro, nella migliore delle ipotesi o comunque fa parte dello stare al mondo, dell’imparare i rapporti umani. Non è un mestiere, almeno non nel mio caso, ma è un metodo per imparare a rispettare i lettori. E non sempre è così facile come sembra.
E-book, Rete, cartaceo. Una modalità non esclude l’altra, no?
Sono d’accordo. Sono tutte forme di diffusione di contenuti, veicoli. L’ebook è una nuova (ormai neanche più tanto) tecnologia. Ed è arrivato nelle nostre vite perché questo è ciò che fa l’essere umano: inventare soluzioni. C’è un problema anche ecologico legato alla carta e bisogna trovare un metodo per risolverlo. Anche se non sappiamo se il digitale sia realmente più sostenibile da quel punto di vista, ci sono studi in corso, tocca ingegnarsi. Tuttavia, i dispositivi sono una ricchezza, secondo me, e non una penalizzazione del cartaceo. La varietà è una risorsa bellissima, sempre.
In un momento di crisi globale, economica, di rappresentatività politica e sindacale, quale può essere la funzione dell’arte?
Una funzione vitale: rappresenta proprio la spinta alla vita, è un atto creativo, come mettere al mondo i bambini o come cucinare il cibo. Ed è proprio nei momenti di maggiore crisi che si incontrano le forme d’arte più struggenti, incisive e più deflagranti. L’arte ha un compito civile nella società. Svelare ai lettori parti di mondi, interiori o fisici o immaginari, fa parte di un processo di evoluzione dell’umanità. Anche quando gli artisti mostrano i lati deteriori dell’esperienza, c’è una crescita che consiste nella presa di coscienza del male, del dolore ed eventualmente delle sue cause. Una tappa fondamentale della maturazione sia dei singoli che della collettività.
Prima hai detto che hai cercato di assomigliare, più o meno coscientemente, a Murakami. Quali altri autori stimi?
Vorrei assomigliare a Calvino. Lo dico così, con sfrontatezza e amore sincero, anche perché so che è un’impresa impossibile. Tra gli italiani stimo molto Andrea Canobbio, Elena Varvello, Valeria Parrella, Dario Voltolini, Luca Raganin, Diego De Silva, Domenico Starnone e Michela Murgia. Ma non solo questi: siamo in un momento molto florido in Italia, nonostante la devastante crisi dell’editoria. La mia casa editrice, Liber Aria, ha visto in me alcune somiglianze con la scrittura di Anna Maria Ortese: questo è un paragone così lusinghiero che quasi ho pudore a riportarlo.
E autori stranieri?
Sono la mia grande passione! Sono laureata in letteratura anglo-americana, con una tesi su Experience, di Martin Amis e la scrittura autobiografica, i memoir. Nominare tutti i miei preferiti sarebbe impossibile, anche perché la lista cambia man mano che se ne aggiungono di nuovi. Però, per essere concisa, universale e dirne solo tre, menzionerei Jonathan Franzen, Alice Munro e Don De Lillo.