di Mauro Baldrati
[Riassunto della puntata precedente (qui): Jimi Hendrix e Dennis Hopper dopo un lungo viaggio in autostop sono arrivati nella “terra promessa”, Amsterdam, Piazza Dam , una delle capitali mondiali dell’underground. E’ il luglio 1970. Ma ciò che trovano li lascia senza parole: la piazza è deserta, occupata solo da spacciatori di eroina. Depressi e delusi, per fortuna vengono “salvati” da un pusher italiano, Gino, che li porta dove c’è “la gente”, il Vondel Park. E qui scoprono che Gino è attirato, ma anche spaventato, dal “rito”.]
Nuvole in viaggio
Jimi scrutò il cielo. Nuvole scure, minacciose. Nuvole in viaggio. In caso di temporale dovevano correre al ponte, per trovare un posto sotto l’arcata. Oppure dovevano procurarsi dei grandi fogli di plastica, come tutti. Intanto le parole di Gino gli ronzavano in testa.
“Gino, il rito. Non capisco. Quale rito?”
D’un tratto Gino balzò in piedi e iniziò a correre sul posto, furiosamente, gridando. Si fermò quando non aveva più fiato. Crollò di nuovo seduto, ansimando.
“Devo farcela! Voglio farcela! Perché sono così vigliacco? Voglio marciare verso il futuro. Voglio trovare la mia strada. Tutti dobbiamo trovarla.”
Trovare la strada? Jimi non era convinto. Lui voleva essere come una piuma, volare nel vento, poi trasformarsi in aquila, per controllarlo, il vento. Ma Gino sembrava travolto dal suo progetto. E questo era interessante.
Pura intensità.
Solo questo contava.
“Ma in cosa consiste il rito? A che serve? Dove ti porterà?”
“Non posso spiegartelo. Non capiresti. Però posso dirti dove mi porterà. E’ una iniziazione. Porta all’innocenza. La suprema innocenza. E quindi alla pace. Alla poesia pura.”
“Io non ho capito un cazzo” disse Dennis.
Una perfetta battuta degna di Dennis Hopper.
“Lo so” disse Gino. “E’ normale. Bisogna esserci. Bisogna vedere gli iniziati, parlare con loro. Sentire la loro pace. Condividere la loro felicità. Stasera c’è una iniziazione. Io sono invitato. Stanno valutando se sono pronto per il corso di preparazione. Io voglio essere pronto. Voglio andare.”
“Stasera?” disse Jimi. “Beh, Gino, saremo felici di accompagnarti.”
I Prankster-bus, la città della colpa
Jimi Hendrix, Dennis Hopper e Gino camminavano spediti per le strade che fiancheggiavano i canali. Le biciclette sfrecciavano, le auto procedevano lente. Rispetto alle altre città che avevano attraversato, Zurigo, Basilea, dove erano rimasti bloccati cinque giorni e quattro notti prima di trovare un passaggio, il traffico era modesto. Musiche di ogni tipo uscivano dalle finestre, dalle porte. Musiche amplificate debordavano dai pub e dai coffee-shop. Jimi riconobbe più volte White Rabbit, With a little help from my friends, Purple Haze, Willie the Pimp, Almost Cut My Hair, On The Road Again, Dear Mr Fantasy, White Room, altri pezzi che non conosceva. Più volte socchiusero delle porte e si affacciarono su stanze gremite, con gente che fumava, rideva, ballava. In una entrarono, si servirono di joint già preparati in una cassetta da frutta, li accesero tra i sorrisi di ragazze che li invitarono a restare.
In pochi minuti il tempo era cambiato. Ora splendeva un sole discretamente caldo. Jimi si sentiva euforico, pieno di energie e di aspettative. Finalmente si era lasciato alle spalle Mezzaluna. Non avrebbe passato il resto della sua vita in quel deserto. Poteva accadere di tutto, sarebbe finito in strada, nella miseria, piuttosto che sprofondare in quella palude. Non sapeva quali prospettive lo aspettavano. Non sapeva di quali risorse disponeva. Ma non importava. Avrebbe abbattuto i muri a calci. Lui era una happy rock, come il suo scrittore preferito, Henry Miller.
All’inferno, all’inferno.
Voglio essere scatenato, scatenato.
Così aveva scritto Anaïs Nin a Henry.
Arrivarono a Leidse Plein. Si fermarono in contemplazione di due vecchi, grandi autobus completamente ricoperti di ghirigori sgargianti. Intorno ai due automezzi si affaccendavano ragazze e ragazzi con grandi borse e zaini. Molti ridevano, altri sembravano in attesa, taciturni e assorti.
“Questi sono gli autobus per Kathmandu” disse Gino.
Jimi e Dennis li guardarono strabiliati. Quei vecchi scassoni fino a Kathmandu? Ma quanto tempo impiegavano?
“Una settimana, circa, di viaggio ininterrotto. Con tre autisti che si alternano. Guardateli: molti di loro, secondo me quasi tutti, vanno a morire di eroina. Vanno a Kathmandu per questo. Oppure si illudono di andare per un altro motivo. Invece è la città della fine. E’ la città della colpa.”
Jimi e Dennis guardavano impietriti i ragazzi coi capelli lunghissimi, le barbe, le ragazze coi sandali, le gonne lunghe a fiori e stelline. Quella ragazza bionda, con la pelle nivea, bellissima: sarebbe morta nella antica città decrepita e lurida?
“Io non ci andrò mai. Io voglio spazzare via la colpa” disse Gino. “Io voglio ritrovare la bellezza. Voglio ritrovare la fiducia. Voglio ritrovare l’amore.” Un gesto brusco, definitivo. “Ma andiamo ora. Si sta facendo tardi.”
Il barcone sul canale
Arrivarono a un grande barcone ormeggiato sul canale Keizer. Sul ponte sventolava una bandiera bianca con un simbolo che a Jimi sembrò una fontana zampillante. Di fianco alla passerella un ragazzo con un completo di foggia orientale, di cotone bianco, controllava le persone che chiedevano di entrare. Sulla testa portava un voluminoso turbante bianco. Alcuni, che erano vestiti in maniera identica, venivano fatti passare senza controlli, gli altri esibivano un cartoncino, oppure passavano perché riconosciuti a vista. Regnava un’atmosfera rilassata, sulle facce erano stampati larghi sorrisi, gli sguardi sembravano ispirati. I ragazzi col turbante, che a Jimi pareva una grande pentola rovesciata, facevano inchini giungendo le mani. Erano soprattutto maschi, ma non mancava qualche ragazza. Sotto ai turbanti si intuivano le teste rapate a zero.
Quando toccò a loro Gino scambiò alcune battute in olandese. Il ragazzo sorrise, guardò Jimi e Dennis, annuì, poi stese un braccio invitandoli a passare.
Entrarono in una sala insolitamente vasta. Sulle sedie allineate erano sedute varie persone, in prima fila c’erano i ragazzi coi turbanti. Di fronte alle sedie era posizionato un piccolo palcoscenico con una robusta sedia al centro, vuota.
Presero posto nella terzultima fila, che era ancora libera. Jimi osservava i presenti. Era interessato soprattutto ai ragazzi col turbante. Sedevano ordinati, con la schiena eretta, e si muovevano con grande lentezza, con solennità. Anche se si alzavano in piedi non flettevano mai la schiena, non facevano gesti bruschi. Se dovevano guardare di lato, o alle spalle, torcevano il busto, non il collo. Le loro facce erano sempre sorridenti, anche quando stavano in silenzio, immobili. Anche Gino sorrideva, sembrava pervaso dalla stessa ispirazione che coinvolgeva tutti.
Dopo una breve attesa sul palco salì un ragazzo col turbante, che salutò e diede il benvenuto ai presenti, augurando a tutti “luce e pace”. Poi, dopo un breve mantra recitato in gruppo, che consisteva in tre sillabe: ah in crescendo, seguita da oh in calando e di nuovo ah in crescendo, presentò il Maestro.
Il Maestro irato
Entrò un orientale di età indefinibile, forse sui 50-60, di corporatura robusta, vestito con lo stesso completo bianco di cotone, ma senza turbante. La testa era rapata a zero. Prese posto su una sedia massiccia, coi braccioli, posizionata di fianco al palco. Il viso era privo di una espressione definita. Non rideva, ma non era neanche serio. Sembrava immerso in riflessioni lontane, su tematiche remote, in un altro tempo e in un altro spazio. Restò in silenzio per un paio di minuti, al centro di tutti gli sguardi, poi iniziò a parlare. Con una cadenza lenta, sommessa. In una lingua incomprensibile.
Jimi e Dennis ascoltavano, sembrava cinese, o tailandese. Nessuno traduceva. Tutti ascoltavano immobili, rapiti. Ma chi capiva?
“Gino, ma cosa dice?” chiese Jimi, sottovoce.
“Non lo so” rispose Gino, in un sussurro. “E’ tibetano.”
“Ma?! Nessuno traduce?”
“Non serve”.
“Come non serve?”
Una pausa. “Non è necessario. Basta ascoltare la voce. La sua modulazione. Senti la calma che infonde? La pace? L’amore?”
Jimi provò a sentire. A capire. Ma continuava a udire soprattutto una lingua incomprensibile.
Il discorso andò avanti per una ventina di minuti, nel silenzio più assoluto. Poi il Maestro tacque, e il ragazzo tornò sul palco.
“Ora il Maestro entrerà in uno stato di particolare concentrazione: Il Maestro irato!”
Tutti gli sguardi si concentrarono di nuovo sul Maestro. Che sedeva immobile, con lo sguardo fisso su un punto lontano. Poi, d’un tratto, avvenne un fenomeno straordinario: iniziò a rimbalzare sulla sedia. Mentre i ragazzi col turbante intonavano il mantra ah-oh-ah.
Jimi, incredulo, guardava quel corpo massiccio che sobbalzava. Si abbassò, per cercare di capire se sotto le natiche aveva delle molle. Come faceva a sollevarsi in quel modo? Non usava le gambe. Non saltava. A un certo punto spalancò la bocca e continuò a rimbalzare così, con la bocca spalancata. La faccia era una maschera furiosa.
[Continua. La terza e ultima puntata sarà pubblicata nella notte tra mercoledì 24 e giovedì 25 luglio]