di Dziga Cacace
Liberate i cani! (Shakespeare… e Mr.Burns)
504 – Prigioniero di What Women Want di Nancy Meyers, USA 2000
Succede ancora, talvolta. Bollito come un nasello, comatoso sul divano, indugio col telecomando sull’offerta televisiva e vengo catturato nella rete. Senza difese razionali, bastano una scena, una battuta o una faccia e non ho la forza per ribellarmi. Ed è così che ci vediamo questo What Women Want che non era stato ricevuto neanche tanto male, se non sbaglio. Probabilmente ricordo male o più probabilmente avranno sbagliato i critici, ma siccome stasera ci casco anch’io non starò a rampognare, anche perché lo spunto è astuto. Io me la vedo così: un gruppo di executive in riunione al piano più alto di un grattacielo di L.A. Il più intelligentone fa sfoggio di cultura e annuncia che ha visto il film di un nebuloso regista tedesco, un film dove gli angeli possono sentire i pensieri della gente. “E vabbeh, ne faremo un remake”, dice il praticone della compagnia. Poi interviene il creativo (cioè il ladro della congrega): “E se usassimo l’idea del sentire i pensieri attribuendola a un uomo che può ascoltare cosa pensano le donne?”. Mmh, brusio in sala, rotelle che girano. Poi si fa avanti con prepotenza il maschilista della riunione, con voce gutturale e mano a sprimacciare il pisello: “Non dimentichiamo che capire cosa cacchio pensi il gentil sesso – se e quando pensa, ah ah – è da millenni la preoccupazione principale dell’uomo maschio di genere maschile, eh!”. Allora interviene il ragioniere: “Cioè di colui che tiene il borsellino e decide cosa si va a vedere al cine”. “Ma non rischiamo di farla sporca?”, chiede il timoroso. “No”, conclude l’ipocrita: “Diamo la regia a una donna!”. “Venduto!”, decide il capo. Taglio di montaggio ed ecco What Women Want nei cinema. La commedia parte un po’ lentamente, ma poi ha una mezz’ora centrale ruffiana quanto si vuole ma decisamente riuscita, col macho Mel Gibson che finalmente capisce cosa vogliono le donne e sfrutta l’indescrivibile vantaggio in affari (anche sentimentali/sessuali). Ovviamente siamo dalle parti di quel maschilismo paternalistico per cui le donne sono magnifiche creature inutilmente complicate, che dicono bianco per intendere nero etc. etc., ma la porcata ricattatoria è organizzata con sapienza criminale, lo ammetto. Però poi si getta la maschera e tutta la parte finale scade in un perbenismo moralista da far accapponare ulteriormente la pelle. Quell’antisemita sanguinario neocoglione di Gibson ha capito la lezione ed è diventato buonissimo, intuitivo, sensibile e rispettoso delle legittime richieste femminili. Trova l’amore di una collega (Helen Hunt) e l’affetto di una figlia che ancora quindici minuti prima voleva darla via con la fionda e adesso diventerà presumibilmente una vergine di ferro, comprensiva anche lei delle ansie paterne. E cosa potevo aspettarmi di meglio? Vabbeh, mi sta bene. (Diretta su Canale5; 19/12/04)
505 – The Making Of Grace dell’amico Fritz, USA 2004
Me lo sono regalato a Natale, pur avendone già una copia (ma vuoi mettere? Questo ha le bonus tracks!) (L’industria discografica prospera sulla stupidità di gente come me, lo so): si tratta di Grace, l’unico clamoroso album di Jeff Buckley, pubblicato finché era vivo. E negli extra di questa Legacy Edition (termini che il marketing deve avere verificato misurando la salivazione di fessi come chi scrive) c’è anche un professionale documentario, firmato da Ernie Fritz che racconta la nascita di un capolavoro, probabilmente uno degli ultimi dischi “importanti” del rock. E il regista, già autore di altri documentari musicali e di videoclip, asseconda il fantastico materiale visivo e sonoro fornitogli dall’angelico Jeff e assembla diligentemente. Non c’è spazio per grandi invenzioni: la musica dice già tutto. Rimane solo il rimpianto per la perdita di un talento cristallino e una voce e una scrittura commoventi. Buckley era un genio multiforme, affamato di scoperte e invenzioni e riusciva a racchiudere in se stesso Dylan, Van Morrison, Edith Piaf, il padre Tim Buckley e Leonard Cohen, mediandoli con una sensibilità, che – a differenza del suo Pantheon di riferimento – capiva la potenza di un accordo amplificato. E dalla sintesi era nata una musica pulsante come il rock dei Pearl Jam, ma sorretta da un’immaginazione, una potenza e un lirismo originali e ineguagliabili. Nella sua semplicità, il documentario fa piangere di rabbia. Il santino è dietro l’angolo e il prodotto discografico non potrebbe certo ragionare in termini critici, ma quel 29 maggio 1997 in cui Jeff Buckley è affogato (mica droghe o altro: un banale e idiota bagno in un affluente del Mississippi) abbiamo veramente perso qualcosa. Rimane solo la musica. Splendida. (Dvd; 29/12/04)
506 – L’imperfetto e necessario Fahrenheit 9/11 di Michael Moore, USA 2004
Un presidente eletto con una frode palese. Menzogne e inadempienze del suo governo inetto che portano a due guerre sanguinose, pagate in contanti da chi consuma la benzina in Occidente e con la vita da chi sta in Medio Oriente. Gli investimenti che ripartono, la rielezione assicurata e guadagni stratosferici per chi commercia in armamenti e petrolio, casualmente in affari con chi risiede alla Casa Bianca. Michael Moore ci racconta con le armi del documentario l’intreccio vertiginoso di affari e politica che parte da Washington e arriva in quel posto a noi e ne viene fuori un film discreto se lo guardiamo da un punto di vista tecnico-narrativo (ha pause, divagazioni, banalità, contorcimenti, compiacimenti e scorciatoie), importantissimo però per il messaggio che porta al pubblico: ci stanno pigliando per il culo in maniera mortale. Non ci sono grandi novità né rivelazioni sconvolgenti, eppure s’è parlato di cinema di propaganda e di faziosità diffuse. Ammesso che sia fazioso far vedere lo sguardo ottuso di Bush (non ha altre espressioni, cosa si può fare?), ciò che viene raccontato è inoppugnabile nella sua basica linearità. Semmai è sconvolgente la palese partigianeria – questa sì – di chi rifiuta di confrontarsi con la materia proposta dal film. In questi giorni tutto il mondo assiste alla catastrofe del sud-est asiatico, sconvolto da uno tsunami che ha provocato (in previsione) oltre duecentomila morti. Pensose riflessioni sulla matrigna Anima Mundi, complessi di colpa, aiuti umanitari per le economie in ginocchio. Tanto bla bla e nessuno che faccia due conti e si renda conto che, dati alla mano, George W. Bush è già responsabile di mezzo tsunami, in Iraq. Le feste di Natale, gli auguri di Capodanno e – qui ci starebbe anche una colorita bestemmia – nessuno che si ricordi che anche noi siamo una nazione in guerra, con un corpo militare in azione in un paese occupato, senza sovranità reale. In Fahrenheit 9/11 Moore rinuncia ad essere in scena dall’inizio alla fine, limita il suo acre umorismo a poche battute e all’uso intelligente del montaggio e prova a realizzare qualcosa che faccia pensare. Che il film sia frutto di un work in progress è evidente dalla disarmonia delle parti, con l’urgenza dell’attualità che inseguiva lo script e non viceversa, ma il risultato – anche se puntualmente discutibile – è potente. Efficace, non so: nonostante gli incassi clamorosi, non è riuscito nel suo intento primario, impedire la rielezione del figlio di puttana. Ma Moore ha fatto quello che un artista dovrebbe fare, mettere la sua competenza al servizio di un’idea, cosa che in Italia sembra non sfiorare minimamente alcun supposto intellettuale. A proposito: lo tsunami ha risparmiato Emilio Fede e Max Ferrari (il gioviale direttore di Telepadania). Non è l’amore a essere cieco. È la Natura, cazzo. (Dvd; 29/12/04)
507 – Emerson Lake & Palmer Master From the Vaults di Valente Cineasta Ignoto, Belgio 1970
Spettacolare esibizione degli ELP, subito dopo la pubblicazione del loro primo disco, registrata per la tivù. Mancando il repertorio, ogni brano è infarcito di improvvisazioni parossistiche e citazioni diffuse: una goduria per chi ama la musica avventurosa e tollera la disposizione circense del supergruppo. Sorretti dall’adrenalina e dall’esuberanza giovanile (e forse qualche stimolante più o meno naturale) i tre si producono in performance agonistiche, divertendosi un mondo. Su tutti spicca lo spaccone Keith Emerson (ma ve lo ricordate nella sigla di Odeon?) che qui trova il modo di montare il suo organo, di accoltellarlo, cavalcarlo, suonarlo al contrario, prenderlo a calci, gomitate e ceffoni, tirandone fuori suoni incredibili. La regia è buona, il montaggio figlio dell’epoca, la fotografia alla carlona: ma che importa? È la musica che conta, ed è eccezionale. Responsabile di cotanta meraviglia la tivù belga: per essere uno dei popoli più noiosi al mondo, c’è da dire che avevano gusti televisivi singolari e apprezzabili. Quest’edizione è abbastanza scrausa (pellicola rigata, scaletta rimontata in maniera opinabile) ma sembra che presto ne uscirà una versione filologica (che non mancherò di procurarmi, figuratevi). Tornando sulla terra: oggi, tale Roberto Dal Bosco, muratore mantovano ventottenne (“un timido”, secondo suo nonno), ha tirato sul collo del premier un treppiede fotografico. Per buona educazione, nessuno a sinistra di Eichman può dire ciò che pensa. Buon anno. (Dvd; 31/12/04)
508 – Il capolavoro The Fog of War di Ellis Morris, USA 2003, e poi Destra di governo e Sinistra televisiva
Premio Oscar 2004, il lacerante ritratto dell’ottantacinquenne Robert McNamara. Segretario della Difesa con Kennedy e Johnson, già presidente della Ford e poi della Banca Mondiale, McNamara è stato anche il cervello dietro i bombardamenti sul Giappone nel 1944 (che, quanto a vittime, altro che Nagasaki e Hiroshima…), era nella stanza dei bottoni durante la crisi dei missili a Cuba e ha avuto un ruolo controverso nell’escalation della guerra in Vietnam. Il vecchiaccio ha carattere da vendere: è lucido, cinico, intelligente e para ogni colpo predisposto dalla regia, umanamente comprensiva ma storicamente e politicamente per nulla accomodante. L’intervista diventa una seduta psicanalitica e si scava nella rimozione interiore, negli alibi, nel senso di colpa e anche nel desiderio di perdono e redenzione. The Fog of War riesce a farci commuovere di fronte a un uomo che ha deciso la vita (e la morte) di molti e ne è consapevole: Morris è bravissimo nell’organizzare il materiale, nell’incalzare il politico, nel sottolineare con immagini perfette ciò che ci viene detto. Un documentario coi controcazzi che parte da un uomo e diventa un trattato sulla natura umana, musicato con classe da Philip Glass. Intanto, qui da noi: La Russa e Gasparri fan cagnara parlamentare per la faccenda del treppiede. È gente che andava all’università con le spranghe, per dire. Calderoli invece teme un colpo di stato (ma l’avete già fatto voi, sveglione!) e – forse dimenticando quella cosina là… credo si chiami separazione dei poteri – ha chiesto al degno compare Castelli di disporre un’inchiesta sul magistrato che ha lasciato libero il blando attentatore. Calderoli ringrazi l’imponderabile Caso che l’ha portato ad essere ministro della Repubblica (!), perché in una società giusta sarebbe in coda ad aspettare un immeritato sussidio di disoccupazione. Dietro a Castelli, Gasparri e La Russa, ovviamente. E per questa bella Destra di governo, c’è sempre anche la Sinistra televisiva a ricordarci che non ne usciremo mai: il primo gennaio RaiTre ha trasmesso il Concerto di Capodanno della Banda Osiris, un programma divertente come un rastrello nelle gengive. Abilità strumentale indiscutibile e qualche invenzione orchestrale al servizio di un umorismo agghiacciante. La regia pare improvvisata ed è spesso fuori tempo e inquadra con allarmante frequenza la platea (semivuota) dove a 78 denti ride come una matta solo Serena Dandini, sponsor di un’operazione che dà la sensazione (sicuramente ingenerosa, ci mancherebbe) che a RaiTre, se fai parte della banda, hai svoltato, perlomeno per un po’. Qualche tempo fa, a Parla con me (egoriferito a partire dal titolo) Michele Santoro, sostenendo che la Sinistra non avesse ancora imparato a fare televisione, ha chiesto provocatoriamente alla Dandini: “Ma quando la Sinistra tornerà al governo, chi la farà la tivù? Tu?!”. E la dentona ha riso, senza comprendere la domanda. E intanto si ramazzano ascolti infinitesimali (in ragione di programmi fatti presuntuosamente male e brutti, non di chissà quali complotti berlusconiani o dell’Auditel), dimenticando che il destinatario finale dei programmi dovrebbe essere il pubblico, cioè la gente. Che in fondo in fondo gli fa schifo, comincio a credere, alla Dandini come ai DS. (Dvd; 2/1/05)
509 – Kitsch e potenza sonora in The Song Remains the Same di Peter Clifton e Joe Massot, USA 1976, e il futuro di Israele e Palestina
Il Dirigibile di Piombo, nonostante abbia fregato i piani di volo ad alcuni musicisti meno fortunati (Willie Dixon, Small Faces, Jeff Beck, Spirit, bluesmen assortiti etc.), è stato innegabilmente il gruppo hard rock più fantasioso, potente ed evocativo che la storia ricordi, mantenendo con augusta spocchia il primato e senza cadere nelle trappole delle reunion celebrative e dei dischi inutili. Adesso, dopo anni di ricerche, masterizzazioni e ritocchi, è uscito un clamoroso doppio supporto chiamato immodestamente Dvd, ma se volete vedervi la sublime e abietta zozzura di questa band titanica durante gli anni d’oro, dovete procurarvi l’inadulterato The Song Remains the Same, controverso rock flick che li riprende in concerto al Madison Square Garden del ’73, lardellando il tutto con immagini di finzione girate in Inghilterra, Scozia e Galles. Queste sublimi vaccate raccontano in maniera obliqua l’estetica del gruppo: Tolkien, la mistica dei fuorilegge, gli ideali hippie, il ritorno alla natura, l’esoterismo… Prima di sentire gli Zepp in concerto passano 12 interminabili minuti in cui subiamo, nell’ordine: il manager Peter Grant che entra in scena sterminando una gang rivale di cui fan parte l’Uomo senza volto e l’Uomo Lupo, giuro; il boccoluto Robert Plant in location rurale con famiglia; John Paul Jones con grottesca acconciatura che racconta fiabe ai figli (spaventandoli a morte, direi); John Bonham che coltiva la terra; il luciferino Jimmy Page che suona la ghironda in un bosco incantato. Poi la musica parte ed è decisamente goduriosa. Ma per coprire i lunghi assoli la regia ci regala ulteriori genialate. In No Quarter c’è una confusa storia con un gruppo di cavalieri mascherati guidati da Jones che, poco prima, suonava un immenso organo da chiesa sembrando Herbert Lom in La Pantera rosa sfida l’ispettore Clouseau. In The Rain Song tocca a Plant, cavaliere pellegrino per lande desolate fino all’assalto di un maniero da cui trae in salvo una vacua biondina. In Dazed and Confused Page scala una montagna per incontrare un vecchio se stesso, con tanto di lanterna come nella busta interna dell’album IV. Infine, durante il monumentale assolo di Moby Dick, vediamo Bonzo dilettarsi con un dragster e addestrare il piccolo Jason. Le riprese live, su un palco minuscolo e spoglio, non sono clamorose, la musica sí: Plant urlacchia, Page incanta con l’archetto, Bonzo squassa la batteria, Jones tiene le fila. Questi hanno scorticato il blues, con incursioni vichinghe in Kashmir, Giamaica, Marocco e Louisiana, e gli si perdona tutto, anche un prodotto cafone come questo film. In serata ho anche visto, su RaiTre, il documentario Promesse di Justine Shapiro e B.Z. Goldberg, ritratto a più voci di bambini israeliani e palestinesi, sovrastati da una realtà di guerra, paura e frustrazione. Tolta qualche ingenuità, si evitano il consolatorio e il piagnisteo e ne risulta un buon lavoro, non clamoroso, ma con momenti di tenerezza e squarci di verità. Ben scelti i protagonisti con Shlomo piccolo studioso della Torah, Moishe colono cazzoso, due gemelli laici, un corridore palestinese protagonista dell’Intifada, le figlie di un dirigente del FLP ancora in attesa di accusa formale e infine Mahmoud, il piccolo dal volto angelico che vuole diventare uno hezbollah e non crede che il regista (cui s’è affezionato, credendolo americano) sia un ebreo come gli altri e fornisce una sua teoria sugli ebrei ebrei, da combattere. Documentario non ideologico, da un lato tragico, ma anche capace di trasmettere la visione fiduciosa che può avere un bimbo. Ah: dopo che il senatore a vita Mario Luzi, ha detto cose di lancinante buon senso, Gasparri ne ha chiesto le dimissioni e Calderoli s’è così espresso: “Disconoscevo che il poeta Luzi esistesse al mondo”. Questi, il conflitto israelo-palestinese ce l’hanno in testa, altroché. (Dvd; 6/1/05)
510 – L’incredibile Con Air, di un autentico cane, USA 1997
Questo film è uno tsunami di merda, così orrendo che, nella categoria dei film pacco, rasenta la perfezione: è tutto talmente fuori misura che diventa quasi bello. Ho detto quasi, eh? Cameron Poe (il tragico Nicholas Cage, calvo coi capelli lunghi) è finito in carcere perché ha ammazzato impulsivamente un ubriacone che importunava sua moglie incinta. Ha pagato il debito con la giustizia facendo flessioni, imparando lo spagnolo e l’arte degli origami (e fin qui siamo già a livello Top Secret). Il giorno in cui ottiene la libertà provvisoria lo imbarcano su un aereo dove c’è la peggio feccia delle carceri statunitensi, tra cui un John Malkovich psicopatico e uno Steve Buscemi maniaco pedofilo. Come è prevedibile (anche se mancano passaggi logici e abbondano voragini di sceneggiatura), l’aereo viene sequestrato e il nostro eroe deve far buon viso a cattiva sorte. Su di lui fa affidamento uno sceriffo che ha la faccia da cretino di John Cusack. Ovviamente finirà benissimo con una conclusione pirotecnica a Las Vegas. Tutto esageratissimo, battute atroci, improvvise manifestazioni di dolore o giubilo come se si recitasse in una filodrammatica del basso Piemonte, facce scolpite nel marmo e montaggio impazzito, senza senso alcuno se non dar l’impressione del movimento. Un filmaccio bestiale commesso da tale Simon West, al cui confronto una porcata immane come Armageddon fa la figura di un Bergman d’annata. Okay: e allora perché l’hai visto? Perché volevo ridere, ragazzi miei: come in tutti periodi di relativa vacanza, sono stordito dalla visione sadomasochistica dei telegiornali e le notizie più importanti di queste due settimane sono risultate: a) se i cadaveri italiani dispersi a causa dello Tsunami fossero o meno bruciati dai locali (impossibile dire se sì o no, ma tant’è ogni giorno il dubbio è stato riproposto per diversi minuti); b) se i bambini orfani ricoverati negli ospedali fossero rapiti (idem c.s.); c) il commento del Papa su qualunque argomento, dallo Tsunami all’arrivo dei saldi; d) i saldi, con inutili interviste ai passanti su cosa avessero comprato o meno e perché; e) varie ed eventuali marchette pubblicitarie. Per cui, credetemi, una schifezza come Con Air, alla fin fine, è quasi un elisir. (Diretta su RaiDue; 7/1/05)
511 – Il deludente Giornata nera per l’ariete di Luigi Bazzoni, Italia 1972 e altre cose, tra cui: sono immortale!
Tanto, son vivo per miracolo: venerdì scorso, andando a Genova al matrimonio di Ferro, ho fatto un testacoda sulla Serravalle, dove cominciano le curve dopo Ronco Scrivia. Andavo neanche forte, ma si stava alzando una nebbia insidiosa e l’asfalto era umido. Barbara mi dice: cautela. Io rispondo da maschio cretino e poi, in curva, vedo davanti a me un banco di nebbia. Do una toccatina allo sterzo e la Ka diventa un toboga. Per fortuna non stacco il piede dalla frizione, perché facciamo qualche decina di metri all’indietro e una macchina ci supera mentre noi siamo contromano (ma marciando per inerzia nella direzione giusta). In quei pochi secondi non ho rivisto il film della mia vita ma ho pensato ai due nazisti dell’Illinois in volo nei Blues Brothers. Poi la macchina – senza mia volontà alcuna – ha attraversato le due corsie e s’è lentamente appoggiata alla massicciata sulla minima corsia di soccorso, graffiando giusto il paraurti. Potevamo schiantarci, essere investiti o semplicemente fermarci in mezzo alla strada e venire travolti, ammazzando qualcuno. Niente di tutto ciò: statisticamente siamo nell’altamente improbabile e ci sarebbero tutti gli estremi per un clamoroso ritorno alla fede cattolica. Dopo due minuti di mutismo agghiacciante, ci raggiunge un carro attrezzi. “Ma chi l’ha avvertita?”, chiedo. E il soccorritore: “Crede di essere il primo, stasera?”. Ci ha fatto fare inversione, il sant’uomo, e siamo ripartiti, in silenzio. Arrivati a Genova, abbiamo tremato tutta la notte. Poi la vita è ripresa come sempre, e così i film. Istigato da una golosa recensione di FilmTv mi son procurato Giornata nera per l’ariete, un giallo argentiano che risulta sconclusionato, lungo, impreziosito solo dalla notevole fotografia di Storaro. Franco Nero, come in fondo il resto del cast, presenta una pettinatura risibile. Belle e originali le location a Roma, mentre delude la partitura di Morricone. Un pacco di film, tutto sommato. In questi giorni abbiamo visto anche altre cose, ma mai col dovuto impegno che richiede una seria trattazione come quella cui vi ho abituato, o miei cari lettori. Per esempio, c’è passato distrattamente Demolition Man, dell’italiano Marco Brambilla in trasferta hollywoodiana, curioso esempio di fantascienza retrò, molto anni Trenta nella semplicità produttiva (registica e scenografica) e nell’approccio brillante. Prodotto ideale per famiglie, con poca violenza esplicita. Stallone e la Bullock sono espressivi come dei comò e Wesley Snipes è inaspettatamente azzeccato e meno litico del solito. La vera trovata è nel rappresentare una società del 2036 assolutamente addormentata, coi sensi uccisi dai divieti: sono vietati fumo, sale e alimentazione grassa e il contatto fisico è fuggito con orrore: ci si dà il cinque senza toccarsi e si fa l’amore solo virtualmente. Verrebbe naturale bestemmiare tutto il tempo, ma il turpiloquio è punito da onnipresenti rivelatori sonori e se si finisce nei criopenitenziari, durante il congelamento t’insegnano a fare la calzetta: Stallone che si lamenta perché sente la prepotente spinta a far la sartina rimane la cosa migliore di un film poverello e moscetto. Troppo raffinato per il grande pubblico, ma anche troppo sfigato per il pubblico colto. Non so che cos’abbia fatto dopo, il Brambilla, ma questo suo Demolition Man m’è simpatico come tutti i brutti anatroccoli. Decisamente odioso, invece, Qualcosa è cambiato con Jack Nicholson gigione nella parte del misantropo monomaniaco, omofobico e razzista. Ovviamente portato sulla retta via da un artista gay sensibilissimo e una cameriera umanissima col figlio malatissimo, Helen Hunt. La pappa intossicante si trascina per due ore e venti minuti in cui non riusciamo a schiacciare Off sul telecomando, totalmente irretiti dal crescendo di minchiate. Resistiamo nella speranza di un colpo di coda, e invece, Qualcosa è cambiato non cambia proprio un cazzo e la storia va a finire nel più prevedibile dei modi. Lacrimevole, falso, edificante e ipocrita – caratteristiche intuibili fin dai primi 5 minuti di visione -, questa stronzata ha fatto vincere due Oscar a Nicholson e alla Hunt ed è pure tenuto in gran conto da diversi critici. Anche se sono immortale, non valeva proprio la pena vederlo. (Vhs registrata da RaiUno; 19/1/05)
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(Continua – 51)