Note a margine ed eretiche considerazioni in merito a Televisione di Carlo Freccero, Bollati Boringhieri, Torino, 2013, 172 pagine, € 9,00
di As Chianese
Il reale è quello che vede la maggioranza (Jorge Luis Borges)
Il regista Alberto Negrin, nel 1972, girò lo sceneggiato poliziesco Lungo il fiume e sull’acqua cercando di superare alcuni limiti tecnici insiti, eppur tacitamente accettati, nella stessa “confezione classica” della narrazione televisiva del Servizio Pubblico Nazionale. Nessun problema di censura, vulnus politico da (pre)lottizzazione, diktat bulgaro o codice di autoregolamentazione da eludere; si cercava unicamente di frantumare una “forma” ma anche, in maniera criticamente legittima quanto proditoria nella modalità risolutiva poi adottata, un limite puro ma già in odore di spuria giustificazione. Per ottenere certe particolari inquadrature, negli angusti spazi degli studi di registrazione forniti dalla Rai, Negrin chiese ai macchinisti di cooperare con l’arredatore affinché fosse la scenografia – la cartapesta e il compensato – ad adattarsi e “muoversi” a seconda delle esigenze della macchina da presa e non viceversa. È una richiesta assolutamente “cinematografica”, all’epoca quantomeno tacciabile di mera vezzosità autoriale. Un ghiribizzo. Per una televisione italiana che aveva addirittura già adattato Delitto e castigo (1963) e I Buddendrook (1971) facendo propria la volontà di perseguire la nobile utilità sociale di biblia pauperum.
In studio, per quelle che furono anche le raffinate messe in scene di Anton Giulio Majano, tutto invece era già allestito su tre robuste pareti, lasciando uno spazio comodo ma fatalmente distante alle possibili soluzioni di regia da adottare. Così Negrin richiese la costruzione e l’arredamento di una “quarta parete”, piazzando i mezzi tecnici al centro esatto della scena, fin dentro l’azione. Ottenne in questo modo una profondità e un dinamismo mai percepiti prima sul piccolo schermo italiano, optando per l’utilizzo di telecamere imbracate sulle spalle dell’operatore e confidando nell’abile capacità mimetica dei microfonisti.
La coraggiosa rinuncia alla macchina fissa servì, quasi da sola, ad attuare una rivoluzione semi-copernicana della percezione stessa dell’azione in una finzione scenica televisiva di largo consumo; lasciando ad altri l’utilizzo di quelle ingombranti macchine fisse che, per stretta volontà degli ingegneri costruttori, riuscivano a realizzare scarsi movimenti, dai novanta centimetri da terra fino ad un’altezza massima di un metro e settanta. L’escamotage era quindi compiuto, la porta sonoramente spalancata.
La soluzione è, idealmente, la progenitrice tecnica di quelle riprese effettuate oggi su L’isola dei famosi dove, accettando la schizofrenia del reality e della tv che rappresenta e celebra se stessa, va in onda una realtà modificata nella sua “mediatica” percezione, mossa unicamente dallo share. Se, come ha affermato Jean Cocteau, “il cinema è la morte al lavoro”, la televisione italiana degli ultimi quattordici anni potrebbe essere stata una strenua, quanto incompiuta, “prova tecnica di resurrezione”. Sull’Isola non esistono pareti arredate ma grandi scenari naturali, l’habitat stesso è inusuale per la finzione. Ancora telecamere mobili e operatori posti nel centro esatto dell’azione, con concorrenti/interpreti che fingono pedissequamente di ignorare l’apparato tecnico e le maestranze che li circondano ogni giorno. La schizofrenia da indurre allo spettatore non è di quelle da considerarsi blande, giustificabile con la sola e abusata “sospensione dell’incredulità”. La “quarta parete” non è più da annettere, da costruire e arredare, ma è assolutamente la prima da abbattere per provvedere, poi, a eliminare l’intero concetto di teatro di posa o studio di registrazione.
La scenografia è una natura resa ostile e perigliosa solo nella narrazione (si pensi a La fattoria), mentre interpreti ed elementi decorativi del set, nella loro libera intercambiabilità affidata al televoto nazional-popolare, vengono messi sullo stesso e identico piano. L’esagerato seno al silicone, esposto da ogni angolazione dalla concorrente di turno del Grande Fratello, nega di per sé la reale utilità di ogni funzionale scenografia di sorta. La protesi è il significante, la sua assoluta ed essenziale (utilitaria) “plastificazione”.
Arriverà a sostituire anche la trama, il filo logico degli stessi eventi. Se “il medium è il messaggio”, la televisione che rappresenta e giustifica se stessa arriva al punto culminante di esser fruita dai suoi stessi realizzatori e viceversa. Ogni ideale “parete” è stata così abbattuta; telecamere nascoste inquadrano corpi da réclame fingendosi colpevolmente, celatamente, calate in un contesto reale e quindi altamente scabroso. Non c’è il pudore dei b-movie scollacciati di quella che fu la “nuova commedia” nostrana degli anni Ottanta, non si rende necessario neanche il pretesto della doccia o l’infantile gioco del dottore e l’infermiera. La barzelletta da caserma dei militari onanisti. Il “buco della serratura” si nobilita nel formato 16:9 della tv al plasma, rigorosamente comprata a rate e collegata al relativo decoder.
Un recente dossier sulle “nuove forme di dipendenza patologica” ha sottolineato come l’utilizzo di siti Internet pornografici gratuiti, veda oggi un incremento di visioni in streaming e di upload di filmati assolutamente amatoriali, realizzati con cellulari moderni e senza prevedere alcun tipo di intenzione preliminare. Il voyeurismo, premeditato o estemporaneo che esso sia, quindi abbatte la parete della forma, elimina il canone di bellezza, spodesta la drammaturgia e prescinde, diabolicamente, dal concetto stesso di responsabilità (il cyberbullismo). Pensare che questo scenario possa essere scaturito da una lettura in chiave profetica, più che criticamente distopica, del film Videodrome (1983) di David Cronenberg, oggi è quanto mai legittimo.
Quasi utilizzassero il principio del periscopio, le telecamere o gli obbiettivi degli smartphone emergono dalla “finzione” per spiare retroscena di delitti agghiaccianti e a sfondo rigorosamente sessuale, ponendo l’indagine e l’introspezione al grado zero dei codici inquirenti e informativi del reportage. Il fine ultimo potrebbe essere quello dello snuff-movie. Il voyeurismo patologico, applicato ad accadimenti di cronaca nera, come il delitto Scazzi, rischia d’essere inserito nel novero identico delle motivazioni del reality. Ne determina lo schema e la liturgia, facendo del dramma reale una messa in scena dove è il colpevole a essere selezionato per mero decadimento empatico.
Così il piccolo schermo ci costringe all’invito a cena con delitto, a un’interminabile sessione collettiva di Cluedo dove fioccano pruriginose accuse, infamie, più che sensati profili psicologici degli imputati, anamnesi di sorta e ricordi edulcorati delle vittime. Nel caso dell’assassinio di Sara Scazzi l’intrusione della televisione è assimilabile a una sorta di pretestuoso, quanto ovviamente disfunzionale, accanimento terapeutico. È il cugino della vittima a giocare a carte scoperte, fra lauti cachet per ospitate nei salotti pomeridiani e pressanti richieste di partecipazione ad Uomini e Donne. E così che, partendo da un delitto atroce, si arriva infine al sorriso tonto ma rassicurante di Lele Mora, alla narcosi narcisista del danaro cash e dell’esposizione mediatica immediata.
Si giunge così in tv, accantonato e quasi vilipeso il merito, al di là del bene e del male. Gli stessi assassini, d’altronde, a più riprese sono comparsi inizialmente sul Servizio Pubblico per dirsi innocenti e chiedere chiarimenti di sorta, giustizia assoluta al “tribunale catodico” composto da disperati spettatori. È il foro degli ultimi, la corte di ladri e imbroglioni, che giudica il delitto più grande assolvendo il proprio status, legandolo alla necessità del campare e mai al piacere. Come in M – Il mostro di Düsseldorf (1931) di Fritz Lang, s’attende la confessione pietosa, il mostro che si rivela bambino abusato o il ghigno sardonico a reti unificate.
La realtà viene strumentalizzata, posta in modo tale da influenzare coscienze e intimi giudizi; la sua rappresentazione diviene dibattito e crea sterile divisione. Si giunge così alle estreme e irrimediabili conseguenze (il caso di Meredith Kercher), da intendersi fallacemente come fisiologica, processuale, “fine dei giochi”. La “quarta parete” è divenuta indispensabile nel solo e risibile plastico della scena del crimine, esposto durante Porta a Porta come vuoto centro dell’azione. Dove, appena un attimo prima, a ogni suono di campanello gentile, si discuteva simpaticamente di diete per l’estate, situazioni politiche da sbrogliare e suicidi di imprenditori, iniezioni di fiducia e di botox, precariato ed operai disperati.
La (s)drammatizzazione è la pietra filosofale del nostro tempo. Lo share ha vestito i panni vistosi del Re Mida e accettato di buon grado la sua mitica e dorata maledizione. Non è metallo nobile ciò che la dittatura della maggioranza elargisce, né pane per denti sani o panacee assolute.
Negli anni Sessanta e Settanta il ritardo tecnico che accettava di evitare, con difficoltà non imbarazzata, le riprese in esterni era l’inautentica ma possibile discolpa della televisione “da camera”. Quella simile al crepitante “caminetto”, magari col corpo spigoloso in legno, dal riflesso catodico capace di creare familiare aggregazione.
Quelle scene dalla fotografia terribile, accentuate negli sceneggiati da un bianco e nero impietoso, per le quali si ricorreva ad una mini-troupe estranea alle stesse maestranze in studio, erano la summa di un posticcio innegabilmente tangibile. Deposito sul fondo del prodotto. La rappresentazione di un falso possibile ma ben tollerato. La clava di cartapesta brandita minacciosamente dal forzuto Maciste, presente in tanti peplum nostrani.
Eppure questo limite, nel codice genetico dello sceneggiato originale (verrebbe quasi da dire nel format), fungeva già da impianto teatrale della narrazione e permaneva nella recitazione enfatica degli stessi attori, come una necessità travestita da punto assoluto di forza. L’influenza del teatro e, soprattutto, della letteratura richiamavano direttamente alla “cultura alta”. Erano parte attiva di quel capitale intellettuale da investire e non da sperperare, la parete da costruire e giammai da abbattere.
Le lunghe pause riflessive di Gino Cervi nei panni di Maigret, che in realtà servivano all’indimenticato attore per spirare i molti “pizzini” incollati alle pareti con le battute da recitare, travestivano d’arte un chiaro bisogno umano. Mostrare il trucco era il vero peccato, smascherare la truffa necessaria per un intrattenimento non fine a se stesso, quasi didascalico nel suo innocente perpetrarsi.
Il gioco di prestigio per la gioia stupita di ogni invitato alla festa catodica.
Rompere l’incanto non è crimine da poco. Abbatte il desiderio, spingendo allo sconforto del “realismo”, verso lidi mai prima lambiti. Mostra al sospiroso spettatore, dalle ultime fila dei posti seduti, le screpolature sui talloni della ballerina di fila dell’avanspettacolo da strapese. Le calze smagliate, il belletto steso per coprire graffi e imperfezioni. Il resto è perversione. Eppure, novità assoluta, al borghese dalle ultime fila – omarino rigorosamente “ad una dimensione” – quel decadimento svelato ed esibito piace. Diviene forma di abietta, lasciva, soddisfazione. Scoprirla è pruriginoso quanto eccitante, violarla gli è oggi necessario. Riprenderla, conservarla in video, è opera di testimonianza preziosa. È l’archivio digitale, un tempo su Ampex, della condizione umana.
Non è la misura della speranza di Borges, liricamente lenitiva, (l’amabile imperfezione che muove la bellezza naturale). Piuttosto il Mondo nuovo di Huxley, “Comunità, Identità, Stabilità”. Concetti emanati, diktat da attuare. Le ultime righe di George Orwell, quelle rivelatrici e necessarie del 1984 ipotizzato e già passato: “…tutto era a posto, la lotta era finita. Era riuscito a trionfare su se stesso. Ora egli amava il Grande Fratello”.