La prima parte è stata pubblicata qui
…la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo,
fino a dire che un nano è una carogna di sicuro,
perché ha il cuore troppo troppo vicino al buco del culo.
F. De André, Un giudice
4. Tentiamo di applicare quanto fin qui detto al caso del Mezzogiorno italiano. Occorre anzitutto superare la boa di quei “discorsi biologico-razzisti” incarnati negli ultimi decenni dell’Ottocento nelle teorie dell’antropologia criminale di Cesare Lombroso e del suo allievo Alfredo Niceforo. Entrambi situavano la differenza psicologica tra i caratteri delle popolazioni italiane in “due razze”: una del Nord e una del Sud, gli “arii” e i “mediterranei”. La “decadenza” dell’Italia era causata da questa differenza razziale. Dunque la società meridionale non poteva che essere “atavica”, incline al “delitto passionale”, al brigantaggio, alla mafia, alla camorra, ovvero quelle tipiche forme di “delinquenza selvaggia e primitiva”. Invece il carattere antropologico faceva loro buon gioco per la spiegazione del perché nel Sud non esistesse “un’organizzazione del partito socialista”: i mediterranei erano profondamente individualisti, mentre nell’Italia settentrionale, il senso civico e il “sentimento di organizzazione sociale” della “razza degli arii” consentivano il radicamento socialista (Petraccone 2000, pp. 166-173).
A fondamento dei “discorsi biologico-razzisti” vi è una logica dicotomica e binaria dell’orientalismo, che potrebbe essere archiviata dentro una stagione specifica della storia italiana: l’Ottocento delle nazioni e dei nazionalismi, l’Ottocento del “razzismo teorico” che nei crani dei sardi scoprì un “enorme numero di anomalie” e nel teschio del lucano Giovanni Passannante, la ragione della sua anarchia e le cause dell’attentato a Umberto I. Eppure la scorciatoia dell’orientalismo e delle letture pregiudiziali se non apertamente razzistiche è un’opportunità sempre facile da percorrere, fatta di interpretazioni lineari, dicotomiche rappresentazioni dove alla devianza si frappone la normalità, al passatismo la modernità, al sottosviluppo lo sviluppo, dove la bilancia pende su uno dei due termini o a causa del contesto storico e geografico che condiziona la psicologia, comportamenti e condotte di coloro che lo vivono oppure è lo stigma di stratificazioni storiche tradotte in un pot-pourri di osservazioni scontate, di descrizioni paesaggistiche vecchie addirittura di secoli, di luoghi comuni più volte lavorati. «Gli abitanti dell’Italia settentrionale sarebbero profondamente diversi da quelli dell’Italia meridionale» non è l’affermazione di Giuseppe Sergi, antropologo e autore, nel 1900, de La decadenza delle nazioni latine, bensì del filosofo Gianfranco Miglio, anche noto come l’“ideologo della Lega”: «I primi avrebbero il senso della società, della collettività, dell’interesse pubblico; i secondi, come le altre popolazioni del Mediterraneo, sarebbero individualisti, privi di senso civico, tenderebbero all’ozio. Convinto di tali diversità – osserva Vito Teti – già segnalate dai positivisti, Miglio, come dichiara a molti giornalisti […] è impegnato in un’opera di preparazione e scrittura della Costituzione delle popolazioni dell’Italia meridionale, adatta al loro temperamento e alle loro caratteristiche culturali» (Teti 2011, p. 14). “El profesùr” lombardo esternava queste idee senza alcuna distanza dai positivisti di fine Ottocento, peraltro trovando attento riscontro in molti giornalisti e opinionisti che hanno diffuso il suo credo senza alcun commento critico. Insomma siamo di fronte a un “passato che non passa”? Oppure, con più disincanto, abbiamo a che fare con quell’intreccio di saperi e poteri di cui è composto l’orientalismo come strumento sempre pronto per il controllo e il dominio delle popolazioni.
Qui non c’è alcuna difesa d’ufficio verso una causa meridionalistica, quanto piuttosto l’indagine di cosa si nasconda dietro questo archivio di rappresentazioni corroborate da studi pluridecorati quando non prodotti di inchieste o scoop di noti giornalisti. Se volgiamo lo sguardo agli anni Cinquanta del secolo scorso, possiamo incrociare alcune ricerche finanziate dall’Università di Harvard sull’arretratezza del Sud d’Italia. Una strana attenzione verso una regione d’Europa che desta non pochi sospetti sulle ragioni che muovono gli allievi del sociologo Talcott Parsons a condurre lunghi periodi di ricerca in sperduti paesini dell’entroterra contadino del Mezzogiorno. Lo struttural-funzionalismo fu l’approccio metodologico: vale a dire, l’individuazione della struttura di fondo della società, mostrando le funzioni assolte dalle sue parti. Nel 1958 Edward Banfield diede alle stampe The Moral Basic of a Backward Society, una ricerca condotta a Chiaromonte, un paesino della Basilicata, in cui propose l’ipotesi di una diretta connessione tra il sottosviluppo economico (secondo misure relative all’incapacità industriale, alla produttività lavorativa e agli standard di vita) e la propensione degli abitanti all’associazione, alla cooperazione e all’azione coordinata per il bene comune. Da questa miscela di dati formulò il celebre concetto del “familismo amorale”, ovvero l’assenza di un etica pubblica in luogo di una difesa di interessi particolaristici o prosaicamente familistici, per «massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo» (Banfield 1958, p. 83). La ricezione di questo studio nella classe dirigente americana fu dirompente: in piena guerra fredda, regioni sottosviluppate, dove la riforma del latifondo aveva sì dato la terra ai contadini, ma senza il necessario capitale fisso per lavorarla, significava lasciare una prateria nelle mani del Partito comunista. La visione meccanica del rapporto tra campi di enunciazione e pratiche di potere riproduce quindi quella retorica paternalistica quando non dicotomica dell’Occidente che per costruire un impero e per realizzarlo, necessita «dell’idea di avere un impero» (Said 1993, p. 36), convinta di essere la parte “buona”, il nord, che protegge la parte debole, “cattiva”, il sud, invadendola della propria idea di sviluppo e civiltà. La compenetrazione del sapere scientifico – infarcito di abbondanti stereotipi e luoghi comuni – con il potere suscita gli effetti desiderati: «La morale di base di una società arretrata di Banfield ha contribuito a convincere i circoli politici nell’America della guerra fredda dell’urgenza di sviluppare e così trasformare l’Italia meridionale» (Schneider 1998, p. 6).
Quindici anni dopo, nel 1993, un altro scienziato politico americano sempre dell’Università di Harvard, Robert D. Putman, produce una nuova ricerca per interpretare l’arretratezza del Sud d’Italia, Making Democracy Work; Civic Traditions in Modern Italy. Le fonti dello studio sono le osservazioni delle “performance” di sei amministrazioni regionali distribuite su tutta la penisola. Indubbiamente il lavoro di Putman è molto più poderoso, sistematico e comprensivo del suo predecessore; muove da una sostanziale opposizione tra Nord e Sud della penisola; nei governi regionali del Nord riscontra una considerevole abilità all’esecutività e all’implementazione politica rispetto ai governi del Sud, localizzando l’efficienza dei primi in una “tradizione civica” risalente alla storia dei comuni che “da Roma alle Alpi” ne ha segnato il Medio Evo, mentre l’arretratezza dei secondi alligna sempre in quell’epoca e dai secoli successivi contraddistinti da regimi feudali e assolutistici (Putman 1993, p. 123). Il drastico contrasto e la genesi del dualismo fanno leva proprio sul dispositivo binario: un set di suggestioni dove il concetto di “collaborazione orizzontale” collima con quello di “verticalismo gerarchico”. Alla pari della stessa lettura storica, polarizzata su una struttura essenzialista: «dall’inizio del XIV secolo, l’Italia ha prodotto due» (e solo due!) differenti «modelli di governo», due differenti «stili di vita». Con schema adamantino, Putman fa piazza pulita di sette secoli: «Nel Nord, il popolo erano cittadini; nel Sud erano sudditi […] nel Nord la determinante sociale, politica e perfino la lealtà religiosa e le relazioni erano orizzontali, mentre quelle nel Sud erano verticali. Collaborazione, mutua assistenza, obbligazioni civiche […] erano distinguibili caratteristiche nel Nord. La principale virtù nel Sud, per contrasto, era l’imposizione della gerarchia e dell’ordine su una latente anarchia» (Ivi, p. 130). Vale la pena seguire Putman poiché è un sano esercizio di osservazione non tanto dell’assemblaggio quanto della cristallizzazione storica di uno stereotipo, della «stessa modalità con cui il capitale costruisce la sua Storia» (Mezzadra 2008, p. 37): «essa mobilita la massa dei fatti per riempire il tempo omogeneo e vuoto» (Benjamin 1997, p. 80). Qualche secolo dopo, al collasso delle repubbliche comunali e la loro rifeudalizzazione, il Nord anche soccombe al cattivo governo. «Nondimeno, nel Nord erede della tradizione comunale, i regnanti non governavano con autorità ma accettando le responsabilità civiche», invece nel Sud, gli spagnoli, gli Asburgo e i Borbone, «sistematicamente promossero il conflitto tra i loro sudditi, distruggendo le reti di solidarietà con lo scopo di mantenere il verticalismo monarchico, la dipendenza e lo sfruttamento». Alla prova dell’unificazione italiana, il Nord avrebbe giovato di questo lascito, a conferma delle tesi di Putman, la sua industrializzazione è stata il prodotto delle “pratiche di reciprocità”, del “pragmatismo”, della “cooperazione”, della “mutua assistenza”, dell’«associazionismo nel rafforzamento della loro cultura civica». Insomma di tutto quel serbatoio civico custodito per secoli e che al momento giusto aveva dato le proprie fortune. Al contrario, al Sud, dove le “reti di patronato e di clientela” persistevano “come primarie strutture di potere” perfino dopo “la comparsa dei partiti di massa”, i cittadini vivono «l’antica cultura della diffidenza e l’assenza di pratiche di mutua assistenza contrastano i progetti di sviluppo economico, malgrado questi vengano finanziati» (Putman 1993, pp. 135-6).
Dinanzi al linguaggio dicotomico ed essenzialista è buona regola scavare più a fondo indagando il contesto da cui proviene. In questo caso l’orientalismo non lascia attenuanti se non la continuazione di un contesto egemonico e dominante. D’altronde, negli anni di Making Democracy Work; Civic Traditions in Modern Italy, l’attività regionale era oggetto di attenzione per l’introduzione di misure finanziarie internazioni, così che lo studio di Putman diviene sapere a disposizione di “policy-making circles” di vari governi, tanto italiani ed europei quanto americani, e probabilmente anche di agenzie finanziarie internazionali (Tarrow 1996, p. 389; Schneider 1998, p. 7). Senza dubbio, in questa ricerca sociologica va intravista la situazione presente in Italia, il peso politico dell’Italia nel rapporto con gli altri paesi europei, in anni cruciali per l’integrazione monetaria, e innanzitutto le relazioni Europa – Stati Uniti dinanzi alla prova dell’euro contro il dollaro. Il libro di Putman s’inscrive appunto in questo quadro internazionale tanto articolato quanto difforme negli equilibri economici e politici. I ministri delle finanze dei paesi del Nord d’Europa, diffidenti verso l’area mediterranea, dubitavano della stabilità del governo italiano e della sua capacità di abbassare il debito pubblico. Il refrain di tale pessimismo veniva segnalato proprio dal “New York Times” nel 1996: La divisione Nord-Sud in Italia, un problema anche per l’Europa, titolava un articolo del 1996. La corrispondente Celestine Bolen faceva riferimento alla divisione tra il ricco Nord e il passivo e dipendente Sud, come “conseguenza dell’unità italiana”, mettendo in guardia che la rottura era nell’aria “per l’Italia intera”, nel momento in cui quest’ultima avesse tentato “di mettere in ordine i suoi bilanci finanziari” e di entrare a far parte dell’unione monetaria europea (Ivi, p. 8).
Si badi che l’orientalismo è una scorciatoia imboccata con estrema facilità anche da ricercatori e giornalisti navigati. Anche in Italia ci sono degli esempi celebri. Giorgio Bocca, già nel 1990, non esitò a partire lancia in resta contro le regioni meridionali infestate dalle mafie: la divaricazione tra Nord e Sud dei risultati elettorali, spinse il giornalista dell’Espresso a ricondurre le cause alla classe politica trasformista e corrotta, con radici ben solide nella società meridionale, incapace di comprendere il senso della modernità, ma pronta a concedere tutto al proprio pessimo elettorato in cambio di sostegno. Soltanto il titolo del libro, L’Inferno, è saturo di allusioni storiche, rinviando al più famoso adagio, ripreso da Benedetto Croce nel 1923, che ricordava come il Mezzogiorno fosse sì un paradiso, ma popolato da diavoli. A suo dire, Bocca non ha alcuna intenzione di mostrare un atteggiamento antimeridionale o addirittura razzista, anche se la sua inchiesta sul Mezzogiorno è pregna di descrizioni scontate, di cliché, di descrizioni paesaggistiche vecchie di secoli. Insomma tutti stereotipi per sostenere la tesi che la tradizionale classe politica, delegittimata al Nord, al Sud invece aveva ancora acqua in cui nuotare e riprodurre il proprio consenso; e allo stesso tempo, il giornalista navigato voleva riscuotere un senso di indipendenza nel suo giudizio, nonché essere leva morale per risvegliare la società meridionale e “scardinare un sistema politico foriero di tante nequizie” (De Francesco 2012, p. 225). Ritorna nuovamente quella dimensione dicotomica e binaria già osservata in Putman e Banfield: da una parte, gli onesti, i buoni, i capaci, coloro che sono proiettati verso la modernità; dall’altra, le nequizie, la cattiveria, l’inettitudine; e in questa dialettica, la funzione responsabile dei primi, gli unici in grado di traghettare i diavoli verso il paradiso.
Nondimeno, nell’auspicio che da Nord giungesse a Sud una nuova resistenza, che il secessionismo nordista alleato di una politica del rinascimento meridionale scardinasse la corruzione, la criminalità e le condotte “putrescenti”, Bocca intravedeva un rischio: in questi meccanismi interattivi, come vasi comunicanti, il Mezzogiorno avrebbe potuto infettare il resto dello “stivale” con l’illegalità e l’immoralità. Nel 2006, in Napoli siamo noi, «la sua lettura del Mezzogiorno si faceva ancor più sconfortata, perché l’infezione dell’illegalità gli sembrava avere ormai risalito la penisola e il degrado meridionale, anziché eccezione nel panorama nazionale, gli pareva la mostruosa raffigurazione di una linea di tendenza ormai generalizzata» (Ivi, p. 226).
5. Quelli in cui scriveva Bocca erano gli anni delle rivolte campane contro la gestione commissariale dei rifiuti (la costruzione dell’inceneritore e l’apertura di nuove discariche). Parecchie decine di migliaia di persone, si calcola, in tempi e luoghi diversi, si sollevarono, puntellando di comitati popolari la geografia politica della regione, ove la democrazia autoritaria dell’emergenza divenne variabile radicalmente capovolta per una decisionalità che muoveva dal basso verso l’alto.
In quegli anni, le ragioni della protesta (la questione rifiuti) non avevano molto senso rispetto alla profondità della natura dei manifestanti. I nemici dello stato, da trattare come problema criminogeno e con rimedi militari, divennero i comitati spontanei di cittadini sorti per contestare le scelte del Commissariato straordinario per l’emergenza rifiuti. I comitati spontanei che erano contro l’“interesse generale”. D’altro canto, una volta attivato il dispositivo morale, tramite una prepotente comunicazione (“senso di responsabilità”, “senso dello Stato”, “rispetto delle istituzioni”), il passaggio fu subito fatto verso la riesumazione di stereotipi e modelli inferiorizzanti. Con Antonello Petrillo e il suo gruppo di ricerca, autori di Biopolitica di un rifiuto, rileviamo come l’orientalismo abbia funzionato con una simmetria e un tempismo impeccabili: alle ragioni della protesta vengono contrapposte la naturalizzazione e l’essenzializzazione dei manifestanti mentre alla modernità delle soluzioni l’arretratezza culturale, il passatismo e il localismo. «I fini appaiono anch’essi del tutto differenti da quelli dichiarati (rifiuto della contaminazione, rivendicazione del diritto al controllo del territorio e di ciò che – in forma legale o illegale – viene sversato in esso), ma sono da ricercarsi, piuttosto, nell’oscuro intrico di connivenze e relazioni con interessi speculativi e criminali (i manifestanti occulterebbero le ‘vere’ finalità dell’opposizione, per esempio le mire speculative sulle aree in questione da parte di palazzinari e camorristi)» (Petrillo 2009, p. 19).
Il particolarismo del tipo NIMBY (Not In My Back Yard), stigma attaccato plasticamente dalla stampa ufficiale ai movimenti in difesa dei territori e dei beni comuni esemplarmente incarnati nel No-Tav, viene rapidamente recuperato dentro un ordine discorsivo distinto. Stampa ufficiale e larghe intese destra-sinistra convengono tutti con i caratteri più squisitamente antimeridionali, cui lo stesso Bocca fa da sponda, a conferma che le rivolte sono la prova di una differenza, di una dicotomia presente in Italia: sensatezza/insensatezza, moderno/pre-moderni – ma, più spesso, anti-moderni – trovano spiegazione in «quello sterile ribellismo capace ogni volta di opporsi alla più benevola e autoevidente delle ragioni».
La “delegittimazione politica” delle rivolte campane si è avvalsa di un serbatoio di cliché straordinariamente ricco, consolidatosi sui piani lunghi della storia intorno alle “plebi” meridionali. «La ricerca di spiegazioni non economiche, non sociologiche e non politiche delle vicende del Sud Italia costituisce una pratica tanto antica quanto viva presso una parte significativa dell’opinione pubblica nazionale (ivi inclusa quella meridionale), dalla quale non sono affatto esclusi economisti, sociologi e politologi» (Ivi, p. 20). Modelli di fine Ottocento, riemersi e rinnovati in nuove forme di razzismo (il meridionale “inferiore”, “delinquente”, inabile al “self government”), viene affiancata la figura del riottoso, dell’“individualista” e del “fuorilegge”. Essenzializzazione e naturalizzazione senza limite che foraggia l’ordine discorsivo di stampa e alleanze senza colore politico per contrastare a quanto pare l’autolesionismo dei rivoltosi: nella narrazione ufficiale, il “pericolo diossina” sembra provenire essenzialmente dai cumuli d’immondizia dati alle fiamme, non dalla gestione in-controllata dello smaltimento di rifiuti tossici.
Militarizzazione di paesi e di quartieri metropolitani, gestione securitaria della popolazione, tecnologie di controllo del territorio insieme alla aggressiva comunicazione, alla campagna diffamatoria e delegittimante l’azione dei comitati, una sovrapposizione di dispositivi adoperati dalla politica, volti esclusivamente alla difesa dell’interesse generale, alla modernità contro l’arretratezza, all’affermazione della ragion di stato contro lo stato di natura, incarnato da gruppi di cittadini «eterodiretti dalla criminalità organizzata, ignoranti, egoisti, retrogradi, primitivi». Al binomio e alla dicotonomia dell’orientalismo, quei gruppi di cittadini operano un esercizio di reversibilità proprio dei dispositivi dell’ordine discorsivo dominante. Vale a dire che alla modernità e all’“interesse generale” rappresentati dall’inceneritore o dalle discariche si oppongono attraverso una mossa di sottrazione, non solo di resistenza, individuando cioè una o più vie di fuga: un’altra modernità e un altro modello di sviluppo tradotti in un altro tipo di gestione della raccolta dei rifiuti; l’esodo dalla gestione commissariale tramite forme non convenzionali, atti radicali, la resistenza dei corpi, che al contempo diviene produzione di comune: «nel senso di singolarità che si legano in termini biopolitici e danno vita a nuovi legami organizzativi, fondati sulla prossimità e sul fare comunità» (Caruso 2008, pp. 134-149).
Non c’è una scelta della governance straordinaria di localizzazione di un qualsivoglia tipo di impianto per lo smaltimento dei rifiuti che non abbia incontrato le proteste delle popolazioni locali. In ogni paese e quartiere individuato è sorto spontaneamente un comitato popolare che si è opposto all’irrazionalità del governo d’emergenza. La reversibilità dell’orientalismo è stata proprio quella di smontare il dispositivo di rappresentazione, curvandone il senso e segnalando altre scelte di gestione di interessi comuni e di organizzazione dello spazio pubblico. La partecipazione diretta è stata il metodo dell’autorganizzazione e della cooperazione nel “fare comunità” come «tradizione dello spirito pubblico meridionale» (Piperno 1997). Il “divenire-comunità” nel corso delle rivolte (occupazione del Comune, assemblee cittadine, presidi territoriali, blocchi stradali, occupazione dei terreni per la discarica) ha prodotto un senso di appartenenza, di nuova comunità, che non ha nulla a che vedere con il localismo o con l’identità nei termini nazionalistici o razzistici. Mentre la stampa ufficiale, la classe politica, il Commissariato straordinario evocavano l’“effetto NIMBY” per licenziare le istanze dei comitati all’interno della cornice dell’egoismo e dell’individualismo, i comitati si trovavano un passo in avanti, giungendo alla critica complessiva della governance dei rifiuti, del commissariato straordinario, e della politica delle discariche. Il punto teorico e programmatico cui sono giunti i comitati è “Basta discarica. Né qui né altrove”.
Sono micro e macro modelli di sottrazione all’orientalismo, tanto individuali quanto comunitari. Laddove le autorità locali o nazionali decidano sulla vita delle popolazioni con “poteri centralizzati” e “normalizzatori”, tali modelli acquistano forza, in una narrazione che affrancatasi dall’immagine di jacquerie o insorgenza improduttiva assume la dimensione di un’altra politica, di un “fare comunità” sgrossato dai frame del antimeridionalismo (ad es.: il movimento contro la costruzione della centrale biogas nell’alto casertano; i comitati di cittadini per un altro modello di sviluppo per Taranto; il movimento No Mous in Sicilia). Non vi è dubbio che oltre a un esercizio contro-discorsivo è indispensabile la produzione di una proposta politica nei termini di soggettivazione all’altezza dei dispositivi di assoggettamento e di dominio. Quanto avvenuto nella stagione delle rivolte contro la governance autoritaria dei rifiuti è stata una resistenza ferma alle misure militari e alla decretazione speciale, ma allo stesso tempo sono stati attivati anche processi di soggettivazione e di inversione degli stessi dispositivi di dominio, tramite l’individuazione di proposte alternative di soluzione all’emergenza rifiuti e soprattutto tramite la partecipazione e la cooperazione dei comitati popolari e dei singoli cittadini. La classe politica, l’autorità commissariale e la stampa ufficiale, una volta disarmati dell’orientalismo, hanno visto sgonfiarsi il potere deliberativo e le competenze dell’“autoevidenza”. Mentre il potere costituente delle popolazioni insorte si è dispiegato sul piano dell’immanenza, costituendo altre forme di governo del territorio e dei corpi, altri modi di vivere il Sud, producendo spazi di autonomia, partecipazione e cooperazione, con buona pace di Putman e Banfield
Le immagini di questo testo sono di due artisti di strada napoletani, Cyop e Kaf, impegnati nelle lotte ambientali e attivi nelle periferie metropolitane. Il loro sito è www.cyopekaf.org
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