di Girolamo de Michele
Andrea Scarabelli, La velocità di Lotta, Agenzia X, Milano 2013, pp. 192, € 12.00
C’è Diego, creativo pubblicitario in un’agenzia di primo, anzi “primissimo piano” – “Siamo le matite colorate del capitale. Produciamo idee” –, sottoposto ai ritmi di lavoro dettati dai committenti e dalla direzione dell’agenzia, “normopagato” eppure pettinato a denti sempre più stretti dalla spada di Damocle della precarietà, della riduzione di personale prossima ventura, è la crisi bellezza, e dunque accelerare i ritmi, intensificare la produzione, ridurre i tempi:
“Siamo creativi. Siamo frenetici. Palpebre che sbattono di continuo, dita che martellano i tasti, una grandinata di click del mouse. Sedie spostate, fruscio di fogli, parole e risate. Interni che trillano e cellulari vibranti, distributori automatici di caffè e cibo posticcio. Il rumore del cucchiaino che cade dalla pancia della macchina nel bicchiere di plastica. Gustati la tua bevanda al sapore di latte. Il crepitio della schiacciatina che atterra. I pugni sulla macchina quando la brioche s’incastra e non vuole farsi mangiare. Ogni suono intessuto nella filodiffusione.
Tutto questo è falso”.
C’è Marianna, lavoratrice dell’informazione in una piccola emittente televisiva “indipendente” – “YourTv, la televisione fatta dagli utenti. Dai giovani. Senza finzioni” –, una progressiva serie di piccoli compromessi, di bugie raccontate a se stessa prima che agli altri, prima che a Diego, la cui relazione viene bruciata sulla strada di una carriera sempre un passo avanti rispetto all’oggi, stritolata negli ingranaggi di ritmi infernali che mordono la sua vita, i suoi rapporti familiari e personali:
«Marianna riceveva ottimi feedback, firmava clausole d’esclusiva. Alcune tra le colleghe restavano a casa, non più rinnovate. Marianna stava male. Stavano tutte male. Si sfogava con me e se ne pentiva, perché coglievo l’occasione per sottolineare quanto i suoi capi fossero degli infami. Lei li difendeva senza averne alcuna voglia. Ci siamo lasciati poco dopo».
E c’è Carlotta, Lotta, una drop-out schizzata dalla tranquilla vita borghese di una famiglia doppio impiego in banca alla distruzione delle fondamenta di una vita “tranquilla” – un trasferimento, un licenziamento, la banca che sminuzza la sua famiglia e la sputa via, i bocconi rivomitati che si allontanano lasciandola nel mezzo, un’adolescenza che in tre anni brucia più esperienze di quante se ne potrebbero leggere in un rassicurante romanzo da premio letterario, tra l’amica Francesca che la introduce alle ordinarie deviazioni giovanili e Ivan, il pusher col motorino tenuto su con giri e giri di nastro da pacchi, l’apparente incarnazione del sogno romanticheggiante dell’angelo della trasgressione.
Come in un Teorema pasoliniano, Lotta s’incastra nella vita di Diego e nelle ambizioni giornalistiche, nel sogno da scoop di Marianna, con la sua storia di una ragazzina la cui vita è stata distrutta dalla Banca, in una Milano che potrebbe essere stata attraversata dal dopobomba. In tre costituiranno una piccola posse precaria, come in Piccoli affari sporchi, con un obiettivo minimale: vendicare quell’ingiustizia che è la vita di Lotta unendo quello che sanno fare – internet, facebook, twitter, l’evento Giorno di Lotta, l’hashtag #Lotta che è subito tra i più usati.
Cosa ci racconta questo esordio romanzesco di Andrea Scarabelli? Scritto ai margini – o forse, meglio: sui limiti – della condizione precaria contemporanea, in primo luogo questo La velocità di Lotta ci mostra la precarizzazione emotiva, sentimentale, esistenziale che quella gigantesca agenzia di produzione di precarietà che è il capitale finanziario del terzo millennio inocula nella nuda vita sussunta all’interno dei ritmi e dei tempi di produzione.
Un creativo, una giornalista, una studentessa: tre precari cognitivi, dunque. La composizione di uno spezzone della classe lavoratrice. Che espongono le stimmate di uno sfruttamento ancora più duro di quello “fordista”, dal quale la rivoluzione cognitiva avrebbe dovuto rappresentare l’affrancamento. I cognitari, i nerds non hanno costituito alcuna classe sociale egemone, né preso la testa di alcuna rivoluzione: si sono dimostrati, al contrario, i più docili esecutori del comando finanziario, i costruttori della rete di controllo e sfruttamento digitale.
È questo l’ambiente in cui si muovono Diego, Mariangela e Lotta.
È in narrazioni come questi che si tocca davvero con mano cos’è il biopotere, cosa sono gli apparati di sfruttamento e controllo contemporanei. Ma anche, l’irriducibilità della nuda vita al controllo, l’insopprimibilità della ribellione sotto le ceneri della finanziarizzazione.
Ma la ribellione inscenata è ribellione tutto sommato individuale, gesto forse estetico, che non intacca le strutture portanti del capitale, non altera né intacca le sue morfologie. Nondimeno, se qualcuno tradirà e qualcun altro si pentirà, altri ancora continueranno a confliggere, prenderanno le distanze dal ritorno all’ordine, cercheranno un proprio equilibrio di dis-integrazione. È questo il limite, il lato interno del margine che non viene oltrepassato: conosciamo i meccanismi di sfruttamento, deduciamo le modalità del comando dalle forme di resistenza che ad esso si oppongono; siamo in grado di descrivere gli stili e gli abiti della nuova borghesia finanziaria e digitale (Scarabelli ce ne mostra gli effetti, lasciandoci intuire lo sfondo). Ma sappiamo ancora troppo poco su come si organizza una rivolta, su come la frammentazione dei soggetti si può rovesciare in organizzazione: avessero Lotta e Diego bruciato la città e rovesciato il comando assaltando il palazzo dell’inverno del nostro scontento, dovremmo parlare – qui si, davvero – di gesto estetizzante, dannunziano, del narratore, che risolve nel romanzesco il rompicapo politico. Non è questo il compito del narratore, oggi: il suo compito è di seguire, intuire, anticipare, narrare le linee di resistenza, di dedurre dalle loro forme le strutture del comando. Di mostrare che la dis-integrazione è possibile.
La quarta di copertina propone il paragone con il primo Palahniuk e la Zazie nel metrò di Queneau. Io azzarderei, come lezione di uno stile di vita, l’Irvine Welsh delle coree edimburghesi e la ripresa di un discorso sulla ribellione emotiva e sul dis-adattamento che fu annunciata da Ti prendo e ti porto via, e poi poco a poco tradita dal suo autore. Scarabelli sembra avere l’ambizione di posizionarsi a questa altezza programmatica: collocarsi sulla linea d’ombra della ribellione esistenziale, delle sue derive, dei suoi incroci e incontri. Attrezzarsi per seguire la crescita delle piccole posse, intuendone le linee di fuga, ma anche i possibili buchi neri. Col complicarsi e moltiplicarsi degli incontri e delle rivolte dovrà forse complicare e moltiplicare i propri linguaggi: scommettiamo sulla sua capacità di farlo. Per il momento, benvenuto sulla scena narrativa italiana: un romanzo così, era atteso.