di Marilù Oliva
Rosanna Rubino, Tony Tormenta, Fanucci Editore, 2013, pag. 235, 12.90 euro.
Libro d’esordio di Rosanna Rubino – architetto che vive nel milanese – Tony Tormenta è un thriller riuscito che mi ha ricordato il buon Stephen King, pur mantenendo una spiccata originalità. Il protagonista è un ragazzino atipico, con un potere e un’esistenza che lo relegano nella suggestiva schiera delle persone speciali. Ho ritrovato alcuni dei temi affrontati dallo scrittore di Portland – penso a Carrie, ad esempio, dove la psicocinesi conduce alla vendetta personale, epilogo di tensioni scaturite dai maltrattamenti subiti dalla protagonista, o la questione dell’emarginazione o quella del bullismo. Ma, come prima dicevo, la scrittrice dà prova di una sua peculiare voce: scattante, sciolta, con bei dialoghi snelli e una trama che si dipana onestamente fino alla fine.
La morte qui sembra solo quasi annunciata eppure, per una strana alchimia di atmosfere, i suoi continui rimandi la rendono onnipresente. Anche se compare di rado come trapasso vero e proprio, viene continuamente invocata e non importa se a farlo è il fossile di un mammut con le zanne impresse nella roccia, zanne ancora appuntite come frecce, simbolo imperituro di Mammoth Rock o simulacri di animali che realmente pascolano, come la vacche pazze di paura che strabuzzano gli occhi nell’aria bollente o i cavalli spossati:
I cavalli sono abbandonati.
I cavalli se ne stanno malfermi sulle zampe scheletriche. Si muovono appena. Fiutano la terra alla ricerca di erba. Scuotono le orecchie per scacciare le mosche. Sollevano di poco la testa quando l’auto li supera sfrecciando sulla Interstatale 83, diretta al penitenziario.
Gli allevatori li hanno mollati nei campi l’estate scorsa, quando la siccità ha arrostito le praterie e il costo del fieno è schizzato alle stelle, e ora se ne vedono a branchi disseminati ai margini delle strade.
I personaggi sembrano usciti da un sogno.
Tony Tormenta crea empatia a partire dal primo incontro, che lo vede sottoposto alle angherie di bulletti. Son solo dei numeri – Numero Uno, Numero Due e Numero Tre e, oltre a fare i gradassi, amano sgommare sulla loro Camaro rossa. Tony lo chiamano Merda Secca. Lui tenta di scappare, ma il messaggio di fondo è che i fastidi e i guai prima o poi vanno affrontati.
C’è la sua mamma, tenerissima Caroline, genitrice giudiziosa. Tra i comprimari spicca però Marla, ragazza albina dagli occhi azzurri e dalle labbra rosse, essenza eterea, quasi un fantasma che, in virtù di questa sua sottigliezza fisica, acquisisce un irrinunciabile spessore narrativo:
Il suo corpo ossuto galleggia sotto il lenzuolo. Ho la sensazione che possa sparire da un momento all’altro e sprofondare nel materasso che implode, risucchiato dall’imbottitura tra nuvole di lanugine e piume d’oca.[…]
I capelli legati sulla nuca espongono il viso di Marla alla luce. E la luce graffia la pelle, tesa sugli zigomi sporgenti. Le labbra appaiono più carnose del solito. Il cranio è tutt’uno con la fronte fino alle sopracciglia chiare, quasi invisibili sulla pelle lattiginosa.
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Simone Caltabellota, Sa Reina (La Regina), Ponte alle Grazie, 2013, pag. 176, 13 euro.
Nella regione del Sulcis troneggia un ulivo leggendario. Si chiama Sa Reina – La Regina – e già dal nome, eponimo del titolo, si capisce che non si tratta di un albero qualsiasi: ha attraversato millenni e vanta fama di essere il più antico del Mediterraneo. Chi calpesta le zolle attorno alle sue radici deve fare i conti col luogo e col tempo. Capita a Davide, il protagonista, che si avventura in questo viaggio sardo insieme a due amici: Lucien, un rocker inglese cinquantenne appassionato di civiltà prenuragiche, e Leo, il cuore spezzato da un amore finito.
I posti sono familiari a Davide: qui è cresciuta una parte di lui, nonostante vivesse a Roma, qui tornava con i suoi d’estate. Ecco perché – nel momento del presente narrativo – il passato si fa avanti e spodesta la successione temporale ordinaria, sovrapponendo all’hic ritagli di vita remota, lampi di quotidianità coi cari, di rabbie anche, che si incastreranno, alla fine, alle vicende. Il tutto grazie a un raffinato rimbalzo di dimensioni che costituiscono un percorso significativo nella produzione di Simone Caltabellota (penso anche a Il giardino elettrico, Bompiani, 2010, della cui recensione che trovate qui riporto poche righe: Ragazzi e trentenni, fantasmi e innamorati si muovono in una Roma magica e misteriosa, immobile, palcoscenico onirico delle loro vite, dei loro amori, dei loro suicidi. Il luogo è in realtà un non luogo suggestivo, quello deputato a epicentro in cui si toccano esistenze spirituali e fisiche, energie sottili: lì è, appunto, il giardino elettrico).
Moltissimi gli elementi sciamanici rintracciati nel libro che, anzi, si può catalogare come romanzo di viaggio, di formazione, di iniziazione – molteplici i rimandi: la natura e il suo selvaggio, le piante, la figura del saggio, la metamorfosi (in questo caso taurina) –, ma soprattutto romanzo orfico, anche quando il valico tra il mondo dei vivi e l’oltretomba sembra solo scolpito nel paesaggio:
Le Tombe dei Giganti, spiega, sono formate da due elementi principali sempre presenti: un portale di pietra alla cui base si apre una cavità, a volte poco più che una fessura, orientata verso il punto in cui sorge il sole, e dietro di esso una camera tombale dalla forma allungata, una sorta di bozzolo destinato a custodire i corpi degli eroi, cioè i Giganti, in attesa che si sveglino di nuovo e rinascano.
Poi c’è la musica. Perché se il ciclo di morte e resurrezione viene accostato a quello del rock’ n’ roll, il rimando al genere riprende il tema sciamanico del ritmo dell’universo. E sciamanica è la sostanza allucinogena, l’erba sardonia altrimenti conosciuta come “prezzemolo del diavolo”: piccolissimi frutti che possono rivelarsi letali se presi in dosi sbagliate, ma senza dubbio viatico per esperienze ultrasensoriali. E allora il tempo può davvero compiere balzi e “cadere rovinando”, condurre al precipizio. Ma per compiere un’operazione del genere, occorre la forma giusta. Essendo la sostanza così tellurica e visionaria al contempo, è necessaria una scrittura che si sappia piegare ai flussi onirici pur mantenendo la solidità della materia, soprattutto quando questa è in filo diretto con la natura: vento che si alza, luce che vibra, campi distesi come coperte grinzose. Delle volte è semplicemente una domanda, un ballo o il desiderio di un bacio. È necessario mantenere l’equilibrio, quindi, con una materia letteraria del genere. Ecco, Caltabellota ci riesce con maestria e grazia. Restituisce intatte nelle loro suggestioni queste realtà a metà tra sogno e concretezza, magia e un pizzico di tecnologia: qui si muovono i protagonisti, coi loro cellulari e la loro inesperienza, persi e ritrovati in una terra che tanto tempo fa era abitata da Eroi e Giganti. E l’autore stesso – 44 anni, già direttore editoriale di Fazi, fondatore di Lain e creatore della label musicale Sleeping Star, fa parte del comitato editoriale di Elliot Edizioni – ci conferma questa nostra lettura:
L’idea di un Tempo non solo lineare è qualcosa in cui credo assolutamente. Del resto la saggistica scientifica più recente ne ha fatto ormai un serio argomento di discussione e studiosi e filosofi come Ioan Petru Culianu già oltre venti anni fa hanno iniziato a presentare l’ipotesi che la Storia come la conosciamo sia semplicemente una convenzione, perché in realtà noi la cambiamo ogni volta che la ricostruiamo in modo differente, scegliendo di sottolineare alcuni eventi o passaggi piuttosto che altri.
Ultima cosa e mi perdonino i sardi per questa nota forse per loro ovvia: Sa Reina esiste davvero. Si trova nel Bosco degli Ulivi S’Ortu Mannu, a Villamassargia e ha una circonferenza di 16 metri. Se cercate su google troverete anche la foto, che è poi la stessa dell’albero in copertina.
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Peter Drehmanns, L’accompagnatore, (trad. Laura Pignatti) Meridiano Zero, 2013, pag. 270, 16 euro.
La morte è solo destinazione ultima, in questo prezioso libro di Peter Drehmanns suddiviso in tre momenti, corrispondenti ai tre viaggi che vedono il narratore scortare tre clienti – la signora R., il signor M. e la signora W. – verso la soluzione di pentobarbital che toglierà loro la vita. Protagonista è il “corriere dei cadaveri, il fattorino dei morti, lo spazzino, il deportatore”, colui che scorterà chi le persone che desiderano finire in un’urna o una bara. Si tratta di suicidio assistito, non di eutanasia. É gestito dall’agenzia elvetica Sententia – il suo fondatore, Max Dürmann, la considera un’associazione caritatevole – e garantisce, per chi considera inutile o invivibile la propria vita, un decesso dignitoso e indolore (agenzia che, tra parentesi, esiste davvero sotto diverse spoglie).
Deve mostrarsi affabile, l’accompagnatore, ma nemmeno troppo. Sue mansioni si possono riassumere nella parola svizzera Grabgestaltung: scegliere il contenitore finale del corpo o delle ceneri, i nastri viola, controllare l’abito della salma e i documenti per il trasporto. Oltre alla facciata di questo ruolo, non si dimantichi il fardello che mai appare:
Naturalmente ci sono persone che trovano ributtante il mio lavoro. Che si sono fatte l’idea che io ci guadagni sulla pelle di gente titubante. Mentre ciò che faccio in verità è una prestazione di servizi più o meno nobile. […] Io mi occupo di segnaletica, do una mano a trovare l’uscita più comoda. Non posso dire alla gente come deve vivere, tutt’al più posso fare in modo che non deragli. Accompagno le persone dove vogliono andare. I conflitti con i clienti sono rari. Questo probabilmente è merito della mia equanimità e del mio modo di fare calmo e risoluto. […] A volte io stesso mi disprezzo, quando mi guardo allo specchio e vedo il mio muso imperturbabile. Allora invidio gli indecisi per la loro passione, per la loro follia, che dà un senso alla loro disperazione.
La morte si insinua nel romanzo come discreta attesa, come approdo finale di vite che scorrono sospese e non importa che questo sia l’ultimo tragitto: la non-appartenenza è la loro cifra, la non-esitenza l’unica via di scampo. Ecco perché quest’autore olandese nato nel 1960 – che è anche poeta, critico letterario e traduttore – compie una scelta stilistica doppia: da un lato disegna la concretezza della materia – ed è fatta di cibo, necessità quotidiane, stoffe, carne –, dall’altro l’ipoteca del pensiero, agevolata dalla voce della prima persona.
L’accompagnatore non si intromette, non cerca deviazioni né redenzioni. Con precisione asettica guida la Volvo così come ossequia, quando può, i desideri dei clienti, delle volte li indovina. Perché poche ora prima di esalare l’ultimo respiro, quello che chiede il morituro è quasi un comando:
Di ritorno all’albergo augurai una buona notte alla signora R. Ma come, di già? protestò. Sì, perché domani sarà una… Una giornata lunga? mi interruppe in tono sarcastico. Una giornata stancante, precisai. Una giornata con conseguenze a breve termine che si sarebbero protratte a lungo nel tempo, pensai.
In ascensore si appoggiò contro di me, la carne soda dei suoi seni contro il mio braccio. Aveva paura, disse. Mi stava appiccicata addosso anche con lo sguardo. Io le assicurai che sarebbe andato tutto bene, che domani sarebbe stato il giorno più bello della sua vita.