di Gianmario Leone
[Questo articolo è stato pubblicato sulla testata locale “TarantoOggi” e su quella on line Inchiostro Verde il 15 giugno]
Alla fine anche i sindacati sono costretti ad uscire allo scoperto. Ammettendo che, come scriviamo da tempo immemore, l’Ilva è oramai una fabbrica che è stata abbandonata al suo destino dal gruppo Riva e che è destinata a non essere mai più il maggiore siderurgico europeo. Perché l’allarme lanciato ieri dagli esecutivi di Fim Cisl, Fiom Cgil e Uilm Uil, fa il paio con quello dei mesi scorsi degli operai, che denunciarono come il sistema di sicurezza interno del siderurgico fosse saltato del tutto.
Logica conseguenza gli oltre 15 incidenti, di cui uno mortale, verificatisi dall’inizio dell’anno ad oggi in quasi tutti i reparti dell’Ilva. Tra l’altro, non è dato sapere perché i sindacati parlino soltanto adesso: probabilmente perché la situazione è realmente arrivata al limite. Nella loro nota infatti, i sindacati parlano di una “condizione inverosimile” che si sta protraendo da tempo, con “la mancanza di approvvigionamento di materiali di consumo e ricambi”. La nota è diretta al direttore dello stabilimento siderurgico, Antonio Lupoli, ed al responsabile delle relazioni industriali, Enrico Martino.
Addirittura i sindacati segnalano “la mancanza di ricambi e di strumentazioni impiantistiche all’interno dei reparti di esercizio per la corretta marcia degli stessi”, la “mancanza di ricambi all’interno dei reparti di manutenzione che dovrebbero garantire il corretto funzionamento dei locomobili che assolvono al normale funzionamento degli impianti” e in proposito citano “autocisterne ferme per assenza di ricambi” nonché “il ritardo sul rifornimento del gasolio” e “le difficoltà di reperimento dei dispositivi di protezione individuale”. Una situazione talmente paradossale da far scrivere ai sindacati che “senza alcun intervento urgente da parte della direzione aziendale tale condotta a stretto giro potrebbe determinare la naturale fermata dello stabilimento per le ragioni in primis legate alla mancanza delle norme di sicurezza”. I sindacati hanno anche concluso sottolineando che questa situazione si è già verificata il 12 giugno in alcuni reparti e che quindi sussiste “un’impossibilità di marcia di esercizio impiantistico”.
Certo, appare irreale che all’interno del più grande siderurgico europeo, strategico per l’economia dell’ottavo paese più industrializzato del mondo, si viva alla giornata e manchino addirittura i ricambi. Che la più grande fabbrica italiana, che sostiene la produzione siderurgica e mantiene in vita comparti la gran parte delle piccole e medie imprese del manifatturiero e della meccanica, sembri una grande officina in stato di semi abbandono. Un’azienda per salvare la quale sono stati varati ben due decreti legge, sfidando l’operato della magistratura e creando per la prima volta in Italia un scontro tra poteri (legislativo e giudiziario), sembra stia per crollare da un momento all’altro. In realtà, siamo soltanto di fronte ad un lento ed irreversibile passaggio di consegne e cambi al posto di comando.
Dalla scorsa estate su queste colonne denunciamo come i Riva abbiano abbandonato al suo destino un’azienda che ha permesso loro di costruire un impero economico da tempo al sicuro nelle holding di famiglia nei mercati offshore (e smettiamola una buona volta di dire che gli 8 miliardi sequestrati preventivamente per equivalente dal gip Todisco serviranno per la bonifica e la rinascita di questa città, perché tutti sappiamo che quei soldi non li troveranno mai). Una fabbrica vecchia, irreversibilmente condannata all’estinzione. Talmente vetusta che nessuno sa indicare con esattezza quanti miliardi di euro occorrano per renderla “decente”, non certo eco-compatibile con l’ambiente circostante. Un’azienda che sarà costretta a breve a ridimensionare l’attività produttiva, non certo per problemi tecnici, ma perché costretta dal mercato internazionale. Riduzione della produttività che comporterà inevitabilmente un ridimensionamento delle unità lavorative.
Un compito che non a caso lo stesso gruppo Riva aveva affidato al manager italiano più “competente” e longevo nel campo del risanamento e della liquidazione. E visto l’addio anticipato della famiglia lombarda, lo Stato ha pensato bene di ingaggiarlo per affidargli il compito di portare avanti l’azienda, chiedendogli di garantire la continuità produttiva per i prossimi tre-quattro anni, perché in questo momento la crisi economica non permette di fare altrimenti. Gli utili incamerati dovranno servire per mantenere in piedi la baracca, garantendo il pagamento dei fornitori della materie prime e gli stipendi degli operai. Il resto, servirà da garanzia per le banche e la BEI (Banca Europea degli Investimenti) che finanzieranno parte dei lavori di risanamento per gli impianti dell’area a caldo previsti dall’AIA (il governo ha scelto Bondi anche e soprattutto per la sua figura che per le banche da sempre rappresenta garanzia certa in termini di pagamenti e soldi restituiti).
AIA che sicuramente sarà rivista dal comitato dei “tre esperti” che a breve nominerà il ministero dell’Ambiente (pare che il sub commissario sarà Edoardo Ronchi) ed allungata nei tempi oltre che annacquata nei termini. E che, come abbiamo denunciato da subito, dovrà comunque essere visionata da Bondi e dalla persona che il Cda dell’Ilva nominerà come rappresentante dell’azienda. Eppure, la storia non è ancora finita. Perché quando il presidente di Federacciai sostiene che senza un’azionista di maggioranza l’Ilva a breve si fermerà, non solo non dice il falso, ma lascia intendere ciò che a breve potrebbe avvenire. L’Ilva Spa, infatti, potrebbe presto essere mandata in liquidazione. Perché in molti forse dimenticano che i debiti finanziari totali della società ILVA Spa sono passati da 335 milioni di euro nel 1996 a 2,9 miliardi di euro nel 2011, di cui soltanto 705 milioni con le banche, corrispondenti a circa un quarto del totale.
Il rimanente 75% sono debiti finanziari nei confronti delle altre società del Gruppo ILVA e della controllante Riva FIRE Spa (oramai lontana anni luce dall’Ilva e che ha lasciato nella casse della controllata soltanto i debiti). I debiti finanziari sono aumentati soprattutto nell’ultimo quadriennio (da 1,8 a 2,9 miliardi) a causa della riduzione dei flussi di cassa provocata dai risultati negativi della gestione industriale (-805 milioni di euro). Alla fine del periodo considerato dai vari decreti e dall’AIA (2013-2016), i debiti finanziari della società salirebbero a 4.500 (50% degli investimenti per il risanamento finanziati con prestiti), 6.200 miliardi di euro (100% degli investimenti finanziati con prestiti), mentre il patrimonio diminuirebbe per far fronte alle perdite d’esercizio provocate dal peggioramento dei risultati della gestione industriale e dai maggiori oneri finanziari.
Dunque, in assenza di un consistente aumento di capitale, la società registrerebbe una significativa perdita. La conclusione è intuibile, oltre che ovvia: “senza un intervento dello Stato per alleggerire gli oneri connessi agli investimenti che l’ILVA dovrà sostenere nei prossimi anni e/o un apporto di capitali freschi da parte dei soci attuali o altri che potrebbero entrare nella compagine azionaria, la prosecuzione dell’attività dell’ILVA nel medio periodo appare molto difficile”. Bondi, dunque, quasi certamente dichiarerà il fallimento dell’attuale Ilva Spa, per ricreare una nuova società. Che non è ancora dato sapere da chi sarà composta, fino a quando vivrà e quanti lavoratori prevederà.BMa sia lo Stato che Bondi, come del resto le nostre istituzioni e sindacati, sanno perfettamente che tutto questo gioco è destinato a durare non più di qualche anno. Dopo di che ci si dovrà arrendere all’evidenza di un mercato dell’acciaio che parlerà una lingua molto diversa da quella italiana.
Se Taranto si salverà, avendo impegnato gli anni che restano prima della fine del siderurgico, ad investire in alternative economiche serie (porto con distripark e aeroporto cargo) e sulle risorse che ancora oggi offre il territorio (il mare, il turismo e l’agroalimentare), non è dato sapere. Certo, vedendo l’aria che tira, c’è poco da stare allegri. Non tanto per i personaggi che continuano a gestire la cosa pubblica, quanto per una società civile che pare non avere alcuna voglia di lottare con coerenza e serietà. E i mezzi della lotta (sulla cui liceità solo i cittadini hanno diritto di scelta e parola), non possono certamente più essere riunioni segrete, missioni a Bruxelles, inutili conferenze stampa, vuoti comunicati stampa, marce, fiaccolate, sit-in e presidi di un paio d’ore, concerti e quant’altro. O assurde letterine al Presidente della Repubblica in stile Babbo Natale. Chi ha orecchie per intendere, intenda. Una volta e per tutte.