di Mauro Baldrati
Storia esemplare quella di Sixto Rodriguez, raccontata nel pluripremiato Searching for Sugar Man (premio Award al Sundance Film Festival e soprattutto l’Oscar come miglior documentario). Una storia che lascia una domanda senza risposta, che si potrebbe definite LA domanda: se la pongono i due produttori che, nel 1968, lo notarono in un bar fumoso sulla riva del fiume a Detroit, mentre suonava la chitarra e cantava: “era fantastico (raffica di great!, da americani doc), solo Bob Dylan sapeva scrivere così”. E subito, con facce perplesse, e anche dolenti: “Perché non ha avuto successo? Come è potuto accadere che i suoi dischi non abbiano venduto? Non so davvero spiegarmelo”.
Già. Non se lo spiegano loro, che erano parte attiva del sistema. Eppure dovrebbero esserne coscienti. Il mondo dello spettacolo, dell’arte, e del suo commercio, è pieno di artisti che non ce l’hanno fatta. Artisti bravi. Artisti incompresi. Artisti dimenticati. Ma procediamo con ordine. Partiamo dall’inizio.
La storia
Rodriguez, una bella faccia da apache, era figlio di messicani, immigrati a Detroit per lavorare nell’industria dell’auto. Città pesante, con quartieri dormitorio, case fatiscenti, miseria, abbandono. Era uno street-artist purosangue. Forse senza fissa dimora, passava da un bar all’altro suonando le sue canzoni, che parlavano di tipi come lui, storie di strada, di ribellione, di amori traditi, di amicizia, di droga, di sesso. Finché i due produttori lo notarono, in un locale che, proprio come vuole la mitologia americana, sembrava una sorta di cloaca infernale: rumore di battelli da carico, sirene, nebbia fitta, un fumo impenetrabile, birra a fiumi, tipacci, puttane e chissà che altro. Lo mettono sotto contratto e nel 1970 gli fanno incidere un disco, Cold Fact. Non vende niente. “Sette copie” dicono, forse senza scherzare. Eppure credono in lui. Le sue canzoni sono “great”, la voce secca, perentoria, fa pensare a Dylan. Così ci riprovano, nel 1971, con Coming From Reality. Di nuovo riscontro zero. L’etichetta è la Sussex, di Clarence Avant, che diventerà presidente della Motown. Rodriguez viene espulso dal catalogo, per rendimento zero. Nessuno ha comprato i suoi dischi. Nessuno lo dimentica, perché nessuno sa che è esistito come artista. Rodriguez si ritira, mette su famiglia e lavora come muratore nelle ristrutturazioni delle catapecchie di Detroit, tutto il giorno, nella precarietà che contraddistingue da sempre il “sogno” americano. Si impegna anche in politica, in lista per il sindaco, come attivista delle classi povere, operai, disoccupati, senza essere mai eletto. Qui la domanda perché? ha una risposta più semplice: perché non c’era spazio per quelli come lui. Al potere salivano i padroni, gli avvocati maneggioni, i lobbisti, non certo i muratori precari portavoce di altri precari.
Intanto gli anni passano. Però qualcosa sta accadendo, a insaputa di Rodriguez. Alcune copie di Cold Fact finiscono in Sud Africa, a Cape Town. Non è solo il paese dell’apartheid, è uno stato nazista. E’ retto da un regime totalitario, la censura è militare, non esiste neanche la televisione, perché è “comunista”. Cold Fact diventa un superclassico nell’ambiente dei ribelli afrikaans, giovani bianchi che si oppongono al regime, e manifestano nelle piazze, finendo spesso arrestati, incarcerati e uccisi. Le storie di strada, le storie politiche di Rodriguez sono la colonna sonora del movimento. “Un giorno il regime crollerà, per una canzone melodica” canta Rodriguez. “Una musica giovane e arrabbiata, e questo è un cold fact”. Circolano le cassette, i bootleg, dischi che il regime sequestra e sfregia con un punteruolo, per renderli inascoltabili. Poi un’etichetta sudafricana decide di pubblicare il disco, che vende qualcosa come mezzo milione di copie. Intorno a Rodriguez iniziano a circolare delle leggende: artista maledetto, si è cosparso di benzina e dato fuoco sul palco. Ma ne circola un’altra: contestato durante un concerto si è sparato una rivoltellata in testa in diretta. E un’altra: è morto di overdose, in carcere. Lo scrivono anche i giornali sudafricani. Rodriguez è un mito, avvolto nel mistero. E’ sicuramente morto. E’ un eroe della lotta al sistema. E’ una voce collettiva. Lui è all’oscuro di tutto. Continua a riparare tetti, a raschiare intonaci, rifare pavimenti. Mantiene la famiglia, le figlie.
L’indagine
Arriviamo alla metà dei Novanta, quando due suoi fan, il gestore di un negozio di dischi e un giornalista musicale, decidono di approfondire. Possibile che non si conosca nulla del loro idolo, a parte l’unica foto sulla copertina di Cold Fact? Possibile che sia morto? E come? Così iniziano una ricerca serrata, dati, testimonianze, ma non trovano nulla. Rodriguez sembra scomparso. Ma sarà mai esistito? In una canzone c’è un verso su Amsterdam, volano in quella città, ma senza esito. Vanno a Londra, in America, dove Rodriguez è totalmente sconosciuto. Finché irrompe internet. I siti, le mail. Così aprono un blog. E un giorno arriva un commento, o una mail: sono la figlia di Sixto Rodriguez. Giuro che è la verità! Non riescono a crederci. Finalmente l’hanno trovato. Dunque Rodriguez è vivo. Ha quasi sessant’anni. Nell’81 si è laureato in filosofia. Fa sempre il muratore, ma continua a canticchiare nei locali, come una volta.
Si scopre anche che alcuni dischi erano finiti in Australia, dove di nuovo hanno venduto molte copie, e dove ha tenuto alcuni concerti, dal 1979 al 1981. E qui sorge un’altra domanda, ripetuta nel film: dove sono finiti i soldi? Chi ha incassato i proventi delle vendite? I discografici sudafricani affermano di avere spedito le royality alla Sussex, in America. Ma Clarence Avant glissa, ambiguo e aggressivo. Un dato comunque è certo: non un solo dollaro è finito nelle tasche di Sixto Rodriguez.
Il film
Di questa vicenda si è appassionato il regista svedese Malik Bendjelloul, durante un viaggio a Cape Town. Decide di farne un programma di dieci minuti per la televisione, ma la storia decanta, si sviluppa, e diventa un documentario. Si alternano le interviste ai personaggi dell’epoca, i produttori, i due fans-investigatori, critici musicali, esponenti di gruppi sudafricani che suonavano contro il sistema, tutti grandi ammiratori di Rodriguez, colleghi muratori, le tre figlie. Il tutto sullo sfondo di riprese di Detroit e Cape Town, di oggi e dell’epoca. Detroit coi suoi slum, le sue strade sporche, abbandonate, in un inverno polare. Cape Town con le manifestazioni, la polizia che picchia e spara sulla folla, i gerarchi razzisti che inveiscono, le folle di neri che marciano, e la giovane intellighenzia bianca al loro fianco. La colonna sonora, composta dai pezzi di Rodriguez, rende le immagini epiche, struggenti. Crea un mondo blues, un mondo di strada, di nomadismo, di ideali, di rabbia e di speranze, di droga e di sesso selvaggio.
Poi, arriva lui. Si affaccia alla finestra della sua vecchia casa di sempre, vecchia, malandata, in un quartiere desolato. Ha circa settant’anni. Il fisico è un po’ piegato dal lavoro di muratore, che non scherza. Forse è mezzo cieco. Non sappiamo se sono immagini di oggi, o se risalgono all’epoca del suo ritrovamento. Più probabile la seconda ipotesi. Perché oggi Rodriguez, sulla scia del successo in Sudafrica, dove è stato invitato dai due fans per un tour trionfale, ha ricominciato a tenere concerti, e forse ha cambiato casa. Oppure no. Forse è rimasto fedele alla sua natura, la sua natura di…
Storicizzazione di un insuccesso
E qui torniamo alla domanda iniziale: perché?
La risposta, se davvero esiste, non può essere che multipla. Il mercato dell’arte nella società capitalista ha delle esigenze e delle regole. Ha dei tempi. Il prodotto artistico è un insieme di marketing, packaging, immagine, intrattenimento. Moltissime le variabili. Non basta essere bravi. Bisogna essere di sfondamento. Bisogna possedere un personaggio che “buca”. Un personaggio che permetta la creazione del mito, e che sia in grado di sostenerlo. E se qualcuno non è in grado, a un certo punto cade, per questo è importante spremerlo finché è in vita. Vedi Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin. Dal documentario sembra che Rodriguez non possedesse questi requisiti. Era un tipo umile, non aveva quel demone del successo, quella spinta messianica. Bob Dylan aveva un unico obiettivo, tutto il resto era ininfluente. Dalle immagini finali, quando si ritrova nel turbine del successo improvviso, di fronte a pubblici entusiasti in teatri gremiti, sembra intontito, fuori posto. Fuori tempo. Fuori tutto. E quando è nella suite, a Cape Town: c’è un che di patetico, come chi ha vinto una vacanza premio in un albergo di lusso. Sembra sollevato di peso dal suo ambiente e trasportato in un mondo parallelo. A tratti è imbarazzante. Mette a disagio. E poi era messicano. Un chico. Per di più solitario. Senza glamour. Per quanto fosse bravo, e giovane, e arrabbiato, non aveva i numeri per sfondare tra i wasp. In fondo restava un apache.
Ma per cercare di scendere ancora più in profondità nella risposta multipla, è utile cercare dei precedenti. Come si diceva, il mercato dell’arte è pieno di artisti ignorati, emarginati. Alcuni sono esplosi dopo, ma è una prerogativa quella di riciclare prodotti che all’epoca non erano adeguati, per gettarli nel mercato globale. Vang Gogh non ha mai venduto un quadro. E’ stato mantenuto dal fratello Theo, per tutta la vita. I mercanti e i critici gli ripetevano che era un fallito e un incapace. Gliel’hanno rinfacciato fino alla pazzia, fino alla morte. Rimbaud era un altro, le opere sono state pubblicate a sua insaputa, mentre si ammalava e moriva in Abissinia.
L’artista nello spazio e nel tempo
Van Gogh e Rimbaud erano artisti fuori dal mercato, perché erano comunisti. Artisti comunisti. Non importa se ancora non esisteva il partito. Non importa se loro non si ponevano il problema. Van Gogh progettava la fondazione di un collettivo di pittori che lavorasse per il popolo, artisti-operai, proprio come Majakovskij. Voleva crearlo in Provenza con Gaughin, che fuggì a gambe levate alla sola idea. Rimbaud era un comunista-anarchico, le sue poesie erano dei manifesti della Comune. Erano fuori dall’ottica stessa del mercato. Fuori dal meccanismo del successo. Non erano dei falliti, perché non era nella loro concezione il trionfo, ma solo la creazione artistica. Anche Kafka non pensava al successo. Era un funzionario delle assicurazioni. Un altro lavoratore. Un impiegato.
Si possono certamente fare delle valutazioni sulla scala delle qualità, in ogni caso l’impressione è che anche Rodriguez non appartenesse a quel mondo. Nelle interviste è timido, modesto, privo di mistero. Esente da peccato. Immune da aggressività. L’enfasi con la quale il film cerca di pompare il mito ritrovato non sembra adeguata al personaggio. Se il progetto di Vang Gogh trovasse un’applicazione, nella società del futuro gli artisti sarebbero anche degli artigiani, degli insegnanti, degli operai. Cambierebbe la concezione stessa di creazione artistica. D’altra parte è già cambiata. L’artista oggi è più omologato rispetto al passato. E’ un intrattenitore, un professionista multimediale. Anche per questo si guarda affascinati a quei tempi, quando c’era ancora la furia creativa, che costituiva la materia prima, come il petrolio che iniziava a sgorgare dai primi pozzi.
Forse Sixto Rodriguez era semplicemente inadeguato perché proiettato nel futuro. In un futuro non certo distopico, ma ideale: l’arte di base, l’arte come lavoro, fuori dalla mitologia dello star system. L’arte come lotta. L’insuccesso americano ha come lato B il successo sudafricano: un tempo e un luogo dove il conflitto è creativo, dove l’arte sostiene la battaglia per rovesciare un regime fascista.
Domani i Rodriguez sarebbero dei cittadini artisti, mentre ieri, e oggi, sono dei precari che lavorano il doppio, che soffrono il doppio, che ingoiano dosi doppie di frustrazione e di solitudine, senza riscontri, senza ricavi né godimento, perché vivere in un altro tempo non è remunerativo; mentre altri, i produttori, i mercanti, e gli “artisti” intrattenitori multimediali, incassano anche i loro profitti senza fare un emerito nulla.
[Searching for Sugar Man ha avuto una distribuzione limitata al circuito Space, nel contesto del Biografilm Festival di Bologna (dal 7 al 17 giugno), per circa una settimana con 1-2 proiezioni quotidiane. Attualmente non risulta presente nelle principali città.]