di Livio Ciappetta
Una volta, la notte, intorno al Colosseo era buio pesto. Non era come oggi, tutto illuminato. Né un fuoco, né una ronda di guardia; le vestigia dell’impero giacevano nelle tenebre, e di fronte alle maestose rovine molti fatti potevano accadere.
Fu in una di queste notti che Benvenuto, da tempo privo di ispirazione, convocò il frate. Aveva ricevuto, in pegno per una sua recente cesellatura, una preziosa copia di un libro piuttosto inquietante; si trattava della Clavicula Salomonis, un testo magico sulle cui tracce si erano messi da tempo gli inquisitori, che descriveva con grande precisione ogni artifizio necessario per evocare i demoni. Benvenuto era uomo avvezzo ad ogni tipo di bravata; più volte imputato per risse ed ubriachezza ed arrestato dalle guardie del Papa, sentiva che presto avrebbe smarrito il suo genio creativo, ed era disposto a tutto pur di non perderlo.
All’appuntamento, ad una certa ora della notte, convennero Benvenuto, il frate, e un amico di nome Agnolo, compagno di molte ribalderie, benché più sprovveduto e dal cuore assai più miserabile e timoroso.
Uno sguardo d’intesa, niente parole, e il rituale ebbe inizio. Con pochi abili gesti, il frate, col libro aperto dinanzi a sé, tracciò il cerchio magico, tutto intorno a loro. Mentre si tenevano per mano, iniziò a pronunciare parole incomprensibili, a denti stretti e a voce bassa. Agnolo, che prima del convivio aveva sostato in più di un’osteria, si guardava intorno con disperata aria assente. Benvenuto invece stringeva le labbra, e ad ogni invocazione del frate ansimava di più. Passarono alcuni minuti, il frate tacque. Il vento fischiava nelle orbite vuote del Colosseo, e i gatti della città sembravano scomparsi nel nulla. E poi accadde. L’aria intorno si fece più densa, le nubi in cielo si tinsero di rosso, e un vortice di demoni si lanciò urlando contro il cerchio, unica protezione che impediva loro di essere ghermiti. Come colpito da una secchiata d’acqua gelida, Agnolo tornò in se, e balbettando e piagnucolando iniziò ad impetrare il Cristo e la Madonna che li proteggessero. Ma Benvenuto era fuori di se, strinse forte le mani dell’amico, e ridendo e gridando gli disse «Acquieta il tuo cuore pusillanime Agnolo, che qua dentro nulla posson farci gli spiriti convenuti, che anzi debbono inchinarsi al nostro volere! E poi senti quest’odor di zaffetica, questo marcio letame che ha portato seco il buon frate, e che scaccia li diavoli lontano, e dunque non temere!» «Ma io» fece eco il frate «non ho portato alcuna zaffetica!» « E dunque da che proviene l’odor di fogna che perfino Belzebù rifugge?» domandò costernato Benvenuto «Perdonatemi amico mio» biascicò Agnolo in un misto di terrore e vergogna «non fu la zaffetica, ma io che poc’anzi mi cacai nelle braghe tanto fu lo spavento».
Forse fu per intervento divino, forse per le impudicizie intestinali del povero Agnolo, o forse ancora per un improvviso scoramento e disillusione pervenuti per le medesime impudicizie, fatto sta che i diavoli com’erano venuti così se ne andarono. Il frate, madido di sudore, raccolse la veste e si allontanò di corsa, ancora incredulo di quel che le sue fino ad allora millantate arti avevano potuto, avendo ben cura di portare via il prezioso libro. Benvenuto, maledicendo i Santi per l’occasione perduta, se ne andò con furore. Rimase li il povero Agnolo, che tanta inconsapevole parte aveva avuto nello scacciare i demoni, futuro ispiratore dei secenteschi manuali per esorcisti, nei quali si prescriveva appunto l’uso di cattivi odori per scacciare il diavolo.
Il giorno successivo, Benvenuto non riusciva a darsi pace. L’ignobile insuccesso della notte appena trascorsa lo aveva profondamente incupito. Fermo di fronte alla fontana delle tartarughe, illuminata dal poco sole che penetra nella stretta piazza, si osservava le mani, convinto che ormai non gli sarebbero servite più a nulla. Il genio che fino ad allora aveva animato il suo lavoro era scomparso assieme ai demoni invocati; i committenti, tra cui come al solito figurava il Papa, stavolta avrebbero atteso invano. Non restava che darsi alla fuga; aveva già conosciuto una volta, seppur per poco tempo, le segrete di Castel Sant’Angelo, e non aveva alcuna intenzioni di visitarle di nuovo. Tirava un’aria pesante in città, e girava voce che il pontefice avesse in animo di riformare l’Inquisizione, e renderla ancora più feroce. Per Benedetto non ci sarebbe stato scampo. Che cosa lo attendeva? Già si vedeva in ceppi alla Minerva, torchiato per ore dagli implacabili difensori della fede. Pochi anni prima, un elefante aveva attraversato la città, dono dei pirati cristiani a Giulio II, il Papa in armatura, come lo aveva chiamato qualcuno. Il pachiderma era passato a miglior vita, e in sua memoria era stato eretto un obelisco, proprio di fronte ai domenicani della Minerva. Sarebbe stato quello il luogo del supplizio? Gli avrebbero fatto l’onore di dargli morte da cavaliere, o lo avrebbero infamato con il cappio, di quelli che non funzionano subito, col tirapiedi che tira e tira finché non sente l’inconfondibile scrocchio del collo? Tormentato dai foschi pensieri, si diresse verso l’isola Tiberina, in cerca di un po’ di ristoro fluviale. Le piogge autunnali avevano fatto alzare il Tevere, e Benvenuto poteva starsene comodamente seduto sulla sponda di marmo dell’isola, con i piedi a mollo, ancora incerto sul da farsi, potendo egli o fuggire, o lanciarsi inerte tra le braccia del biondo fiume; sarebbe annegato presto, perché non sapeva nuotare, e le pantegane (abbondanti allora come oggi) avrebbero fatto il resto.
Si era quasi deciso al gesto fatale, quando sull’altra sponda vide il frate, che lo salutava con un sorriso complice e lo invitava a raggiungerlo. Si incontrarono sul ponte, quello che arriva fino al rione di Trastevere. Benvenuto si avvicinò con circospezione, non riuscendo a comprendere le ragioni del sorriso compiaciuto che il frate sfoggiava. Quando furono uno di fronte l’altro, il frate estrasse un ciocco di legno e un coltellino affilato e li porse a Benvenuto, e gli disse:« Ora mostrami ciò che sai fare». Incredulo e sbigottito, Benvenuto esitò un istante, ma poi afferrò gli oggetti. Si guardò intorno, levò gli occhi al cielo, scorse un gabbiano e una nuvola che si muoveva rapidamente. Allora afferrò saldamente il ciocco, e il coltellino calò sul legno, rapido e preciso. Pochi tagli vigorosi, e l’immagine appena catturata dagli occhi comparve sul ciocco. Un’istantanea di legno, una riproduzione così intensa e verosimile che a Benvenuto scorsero grandi lacrime sulle guance. Ma nel contemplare quell’inaspettata meraviglia, si accorse che il frate era scomparso. Egli rimase sul ponte, attonito e felice; il sortilegio era riuscito, ora si trattava soltanto di custodire gelosamente il segreto del suo successo.
Nei giorni successivi, Benvenuto lavorò alacremente alla medaglia che gli aveva commissionato il Papa. Sul recto doveva comparire il profilo di Pietro Bembo, da poco elevato alla dignità cardinalizia da Paolo III. Ma se si osserva bene la medaglia si notano alcune differenze piuttosto visibili. Il frate raffigurato nella medaglia infatti non è Pietro Bembo, ma quel misterioso frate a cui il Cellini dovette buona parte del suo genio creativo.
Benvenuto morì circa trent’anni dopo questi fatti, che fu egli stesso a raccontare nella sua autobiografia. Se sia vero o meno non è dato saperlo, ma senz’altro si addice al temperamento esuberante e geniale del grande artista fiorentino l’aver tentato un’invocazione demoniaca. Difensore del Papa e della città santa, e al tempo stesso invocatore di demoni, soldato di ventura mancato e molestatore (si dice) delle modelle che posavano per lui; un uomo inquieto in una città che i difensori dell’ortodossia volevano acquietare a tutti i costi. Un uomo che tribunali e timor di Dio non seppero mai domare.
Nota dell’autore: l’autobiografia di Benvenuto Cellini è un testo celebre, di cui si conoscono diverse ristampe. L’edizione consultata per questo racconto è quella fiorentina del 1842, in due volumi. Negli anni della seconda giovinezza racconta l’episodio descritto, datato al 1533; nove anni più tardi, il Papa rifondò l’inquisizione romana, le cui riunioni si svolsero quotidianamente presso il convento di Santa Maria sopra Minerva, a Roma. La Clavicula Salomonis fu un testo magico in circolazione nella prima età moderna, sulla cui fortuna si veda F.Barbierato, Nella stanza dei circoli : Clavicula Salomonis e libri di magia a Venezia nei secoli 17. e 18, Milano, 2002.
A proposito della Zaffetica, i manuali per esorcismi seicenteschi consigliavano effettivamente l’uso di sostanze maleodoranti per scacciare il demonio.
Compare tuttavia un anacronismo nel testo, poiché il Bembo fu elevato alla dignità cardinalizia soltanto nel 1538, dunque 5 anni più tardi rispetto agli eventi descritti, e quindi l’accostamento proposto con la medaglia che lo raffigura (che pure fu realizzata) non è soltanto il frutto della mia immaginazione, ma anche impossibile sul piano cronologico.