di Mauro Baldrati
Nessuno che non l’abbia provato può immaginare cosa significasse una domenica pomeriggio di dicembre a Mezzaluna, “il paese più infelice del mondo”. Le strade, pulite, ordinate, erano vuote, abbandonate. Le rare auto che transitavano a velocità ridotta non facevano che aumentare la sensazione di assenza di traffico. I palazzi, tutti di 3-4 piani, arretrati dagli ampi marciapiedi con cortili pavimentati, vuoti come le strade sulle quali si affacciavano, avevano le finestre chiuse, con le tapparelle abbassate. Qualche tapparella a metà lasciava filtrare una debole luce gialla, proveniente dai salotti coi divani ricoperti di plastica o cucine di legno scuro e i pianali di fòrmica.
Almeno avesse soffiato un po’ di vento. Si sarebbe sentita una traccia di vita. Invece niente. Bonaccia completa. Toni grigi, aria ferma, cielo basso, una leggera nebbia. Non era neanche freddo, solo umido. Qualche donna intabarrata che passava in bicicletta sembrava un’apparizione, un essere generato da quelle pietre e da quell’asfalto induriti dagli inverni che calavano su Mezzaluna come epidemie. Anche le panchine, dove passavamo le serate, in inverno e in estate, erano deserte, come scheletri sul fossile di una creatura immobile, caduta in trappola.Mezzaluna. Il paese deserto. Il paese morto. Se qualcuno avesse letto Io sono leggenda, uscito dieci anni prima, avrebbe creduto di vivere nelle pagine di quel romanzo.
Quel deserto grigio annientava anche gli odori, i sapori, i rumori. Se avevo mangiato passatelli, o cappelletti, il loro gusto delizioso era vanificato dalla cappa che tutto soffocava. Cibo morto, come i pranzi solitari, con mio padre che mangiava prestissimo per andare al bar, e mia madre che si spostava da una camera all’altra, lasciando la cucina vuota come Mezzaluna. Odori spenti, nell’aria immobile. Rumori lontani, irreali, le auto sulla statale che viaggiavano per i deserti di asfalto e capannoni chiusi come scatole ermetiche. Nient’altro. Gli uccelli, se esistevano, tacevano. Ammesso che fosse giorno, la sera incombeva oscurando la luce già in agonia.
Poi, d’un tratto, dalla prospettiva stradale che convergeva verso la piazza quadrata, un puntino grigio scuro prendeva forma. Si avvicinava lentamente, aumentava di volume. Conoscevo quella forma un po’ contorta, quel tono grigiastro, quell’andamento monotono, il suo leggero dondolìo, i suoi piccoli sobbalzi. Sapevo che si sarebbe avvicinato ancora, e ancora, fino a sfiorarmi, fino a comprimere il mio stomaco già stretto nella morsa.
Era lui.
Lui, l’uomo anziano col cappello . L’uomo solo.
Tutto rigorosamente in grigio, senza scale cromatiche, il cappotto, i pantaloni e le scarpe. Il suono flebile, metallico, lo seguiva come se traspirasse dalla sua persona, come un vapore invisibile: l’audio della radiolina a transistor, che lui teneva in mano all’altezza del petto. Raramente lo appoggiava all’orecchio. Sarebbe stata una mossa in qualche modo troppo intensa, in contrasto col paesaggio del paese morto. Dalla radiolina usciva la voce sommessa eppure veloce, gracchiante, la voce universale del radiocronista di calcio. Uno specialista. Parlava a mitraglia senza mai alzare il tono, come se inseguisse a volo radente i calciatori in corsa sul campo. Pronunciava i loro nomi, descriveva i gesti, anticipava le intenzioni. Non si impappinava, non esitava, non aveva paura. Era una voce disumana, solitaria come il suo trasportatore, l’uomo anziano col cappello, che passava oltre senza guardarmi.
Quel puntino, quella sagoma grigia, quella voce rotolante erano il nucleo protonico del paese più infelice del mondo, la sua energia compressa, rinchiusa in una crisalide indistruttibile. Il suo passaggio bruciava tutto l’ossigeno nella sua scia, lasciandomi boccheggiante. Si portava via anche la luce residua, la luce morente che a malapena rischiarava l’asfalto e i profili dei palazzi sbarrati. Diventavo cieco, e sordo, perché quella voce mi riempiva le orecchie come polvere di cemento.
E’ rimasta, quella voce metallica. Si deve essere impigliata da qualche parte in una protuberanza della mia persona, e non mi ha mai più lasciato. Ogni tanto si rifa viva, portandomi via l’aria, la luce e i suoni, perché mi fa di nuovo sprofondare nel deserto grigio del paese più infelice del mondo.
Il paese morto che ritorna, evocato dalla magia nera di quella voce senza tempo.
La voce del radiocronista che raccontava di uomini invisibili, di fantasmi che inseguivano un pallone.
E’ da allora che non ho mai più smesso di odiare il calcio.