di Mauro Baldrati
Mentre digitavo nel campo “cerca” di google: “la grande”… è subito apparso La grande abbuffata. Così ho avuto un flash inaspettato: non sarà che tra i numerosi riferimenti attribuiti all’ultimo film di Sorrentino potrebbe esserci anche il film di Ferreri? Entrambi sono produzioni italo-francesi. Non che sia significativo, ma nel Grande Nulla che si sprigiona da La grande Bellezza, viaggio per immagini in territori urbani desertificati, non potremmo iscrivere anche il deserto esistenziale di vite fallite dei quattro amici che decidono di farla finita mangiando?
Vite fallite. La vita di Jeb Gambardella, il nostro navigatore (e anche narratore) non sembra all’insegna del fallimento. E’ diventato “il re dei mondani”, conosce tutti i salotti romani più esclusivi, dove entra trionfalmente, e scrive su un importante giornale. Però anche sì. E’ anche un fallito. Come scrittore. Almeno secondo il loro punto di vista, l’unico che concepiscono, che prevede il successo, e quindi il fallimento. Ha scritto un unico libro, molti anni prima, poi più nulla. Qualcuno gli chiede: perché non ne scrivi un altro? Era grande quel libro. Ovviamente non sappiamo se sono complimenti sinceri, essendo il film sovrappopolato di personaggi bugiardi, costruiti. Però Jeb a un certo punto fornisce una risposta interessante e geniale: “Mah, perché esco troppo la sera”.
E’ una risposta che avrebbe potuto fornire anche Swann, uno dei personaggi più importanti della Recherche, e uno dei più amati dal suo autore, Marcel Proust. Perché Jeb è anche questo: uno Swann moderno, così disincantato, così raffinato, così arguto, amico di principesse e di contesse, e soprattutto così pigro. Swann sta scrivendo un saggio su Vermeer, da anni. Ma non lo conclude mai. Proust ci informa che è soggetto a crisi di accidia, si siede al tavolo ma non combina niente. Così si agghinda e se ne va per salotti. Anche Jeb non combina nulla, a parte sprecare tempo. Perché questo è uno dei grandi segnali della Recherche: non il tempo perduto, inteso come nostalgia, come memoria di ciò che è finito, ma tempo sprecato. Lo spreco di tempo, di vita. Proprio come la vita sprecata di Jeb, della quale è anche cosciente, come appare qua e là, tra una scena e l’altra, tra una performance e l’altra. Attimi di riflessione, forse di crisi esistenziali. Ma sono brevi cenni, perché la crisi, se esiste, non si manifesta compiutamente nella body-narrazione del personaggio. Non è diffusa. Bisogna intuirla. Bisogna volerla vedere.
La grande bellezza è anche un film sulla crisi esistenziali, sul vuoto, sul degrado dei rapporti umani. Ma le infinite sfaccettature, le digressioni narrative sulla pura visionarietà delle scene, dei movimenti di macchina, delle comparsate di attori-icone del cinema non solo italiano (Serena Grandi, più felliniana che mai, Verdone in una delle sue classiche macchiette, Fanny Ardant, Sabrina Ferilli molto sexy, addirittura Venditti nel ruolo di se stesso che mangia da solo in un ristorante), non permettono una sintesi compiuta delle metafore. C’è dentro molto materiale, citazioni cinematografiche e letterarie, la decadenza dell’alta società, della stessa città, con punte di grande cinema, come sempre in Sorrentino. Ma sembra che il regista non voglia sbilanciarsi troppo, non si voglia schierare. Prende qua e là ciò che gli serve, ma lo spoglia per così dire del contesto, delle radici.
Così Jeb prende da Swann, ma solo qualche aspetto. D’altra parte questa era la tecnica di Proust. Prendeva campioni di personaggi reali, e li assemblava. In un ristorante, dove sta cenando con Sabrina Ferilli, con la quale andrà a letto senza fare nulla, perché è la figlia di un vecchio amico (“è stato bello non fare l’amore”, dice, mentre giacciono sul letto seminudi, con l’immancabile sigaretta – la solita ossessione di Sorrentino per il tabagismo estremo), di fronte allo sventurato figlio di un’amica miliardaria che lo invita a concentrarsi su Proust, risponde: “meglio concentrarsi sul menu”. Questo Swann non l’avrebbe mai detto. Non avrebbe mai espresso questo cinismo, così italiano, questo disincanto rassegnato.
Per cui in Jeb c’è anche altro. C’è Marcello, il navigatore de La dolce vita, il film più citato come principale riferimento de La grande bellezza. In effetti molte scene sono ultra dolcevitiane. Lo stesso Fellini, tra l’altro, cambiava spesso registro narrativo, e indugiava sulle scene come ricerca sull’immagine in sé. Cinema del cinema insomma. E la festa della nobiltà nel castello viterbese, così atroce, che fece impazzire Warhol (tra l’altro in queste scene figurava anche la futura Chelsea Girl Nico come attrice), irrompe più volte nel film di Sorrentino. Spreco, vuoto centrale, cicaleccio nel deserto esistenziale, pose, falsità, pazzia, la voce umana che si alza nel silenzio del nulla. Una delle centinaia di frasi sparate nello spazio profondo da Winnie, la donna piantata nella sabbia di Giorni felici di Beckett, potrebbe essere il manifesto de La grande bellezza: “Eh, sì, così poco da dire, così poco da fare, e una tale paura, certi giorni, di trovarsi… con delle ore davanti a sé, prima del campanello del sonno, e più niente da dire, più niente da fare, che i giorni passano, certi giorni passano, passano e vanno, senza che si sia detto niente, o quasi, senza che si sia fatto niente, o quasi”.
Ma Jeb non riesce ad avere quella punta di malinconia sempre incombente di Marcello. Diciamo che contiene una parte di Marcello, ma più moderno, più adeguato al nostro tempo. Per lo più Sorrentino indugia coi primissimi piani sul viso di Toni Servillo (dimostrando di avere recepito gli stilemi hollywoodiani, l’uso intensivo del primissimo piano sulle star), come se noi, spettatori, potessimo – dovessimo? – scoprire stati d’animo o riflessioni non dichiarate nel personaggio-sfinge. Fellini, e Proust, amano i loro personaggi, anche quando li dipingono con un sarcasmo che rasenta il sadismo. Nel film di Sorrentino c’è come un maggiore distacco, che iscrive alcune scene, soprattutto nella prima parte, pure girate con maestria, a un inevitabile, quanto non voluto, virtuosismo.
Questo film ha spaccato la critica. Non accade spesso. C’è chi ha gridato alla “cagata pazzesca”, chi al quasi capolavoro. Chi ha detto che è il nuovo Dolce vita del terzo millennio, chi si è indignato per questo paragone blasfemo. E’ un dato interessante. Smuovere gli ormoni di certi “critici”, sempre così omologati, sempre servizievoli verso le veline della produzione, è un ottimo risultato. Significa che circola l’energia, in qualche modo, e tocca corde sensibili, perfino in chi la sensibilità l’ha sostituita da tempo col mestiere e con la superficialità.
Ma: per concludere: dov’è la grande bellezza? Forse nella vivacità delle immagini, nello stile raffinato e innovativo delle inquadrature, nelle carrellate di personaggi? Nelle scenografie romane? Nelle belle musiche di Lele Marchitelli? Nella ricerca di un senso, di una identità? O forse nel finale, con inquadratura su Jeb-Servillo, che rappresenta una sorta di miniatura del Temps retrouvé, e una svolta nel “positivo”, nella vita? Qui è indispensabile il giudizio, arbitrario e necessario, dello spettatore, che non si preoccupa di doverlo esprimere, ma solo di sentirlo, metabolizzarlo come risposta multipla, o dubitativa. Perché il recensore, per quanto si impegni, una risposta certa non riesce a trovarla.