di Andrea Borla
La sala era gremita di persone: settanta, cento, non sapeva dire. L’impressione che aveva ricavato gettando un rapido sguardo d’insieme mentre entrava, era che non ci fosse una sedia libera su cui accomodarsi. Anzi, gli era parso di notare un piccolo gruppo accalcato sul fondo, in attesa, che si era dovuto accontentare di restare in piedi pur di garantirsi la possibilità di assistere.
“Mi sento quasi un animale raro che viene mostrato a una folla di curiosi” pensò mentre si avvicinava al palco. “Un animale pericoloso” aggiunse tra sé “visto che devo essere scortato da due guardie e preceduto da un domatore”.
Il quartetto si fermò a pochi passi dal palco. Le guardie carcerarie si guardarono in giro con atteggiamento nervoso, come se da un momento all’altro si aspettassero di trovarsi di fronte a qualche problema. Ma forse il loro stato d’animo aveva un’origine diversa: sembrava che i due stentassero a individuare la loro collocazione in quel contesto estraneo alla loro quotidianità. Si irrigidirono e restarono in attesa di ordini che, per loro fortuna, non tardarono ad arrivare.
Fu sufficiente un cenno dell’uomo che li aveva preceduti per spingerli a prendere posto su due poltroncine lasciate libere di proposito in prima fila. Quel piccolo ma significativo mutamento di posizione contribuì a rendere maggiormente omogenea la loro presenza rispetto al resto del pubblico, come se il colore scuro delle divise ben si sposasse con quello degli abiti da sera degli spettatori.
Solo dopo essersi assicurato che le guardie si fossero sistemate, quello che Scacchi aveva definito il domatore si girò verso di lui. I suoi occhi lanciavano un messaggio inequivocabile: “Non. Combinare. Casini”. Quell’imperativo risuonava nella mente di Piero come se Biasi, il direttore del carcere in cui era rinchiuso da anni, glielo avesse urlato a gran voce nelle orecchie.
“Anche se non ha aperto bocca” disse Scacchi tra sé “si è fatto capire perfettamente. Come ogni domatore che si rispetti non ha bisogno né della frusta né di tante parole per mettere tutti in riga”.
I flash dei fotografi scattarono più volte nel tentativo di rubare un’immagine o un’espressione. Piero Scacchi non sapeva se sentirsi infastidito o gratificato da quelle attenzioni.
“Forse tutte e due” pensò. “È questa una macroscopica differenza rispetto agli animali da circo: se fossero al mio posto sarebbero soltanto irritati”.
Sul palco svettava la figura di un uomo in attesa dietro a un tavolo su cui sembravano concentrarsi tutte le luci dei riflettori. Metà del suo corpo emergeva dal ripiano del tavolo, sormontato da una fila di microfoni e addobbato da una composizione floreale di dubbio gusto.
“Il Maestro di Cerimonie” pensò Scacchi reprimendo un sorriso “alias Francesco Guarneri, famoso critico letterario onnipresente sulla scena torinese. Se parlerà bene di me, tutto filerà liscio, mentre se lascerà trapelare anche solo qualche dubbio, la prossima volta potrò comodamente fare a meno di presentarmi da un qualunque editore”.
Scacchi rivolse al critico uno sguardo interrogativo. Guarneri girò con noncuranza la testa da un’altra parte.
“Perché ho l’impressione di stargli terribilmente sulle palle?” si domandò Scacchi.
Guarneri annunciò al pubblico l’arrivo di Piero Scacchi, come se quell’evento fosse potuto sfuggire a qualcuno. La sua voce risuonò con un’eco metallica e fu seguita dapprima dal gracchiare degli amplificatori e successivamente dagli applausi del pubblico.
“Sono qui con noi anche il direttore del carcere di Torino, il dottor Antonio Biasi” proseguì Guarneri “e Mario Rivoni, proprietario dell’omonima casa editrice”.
Gli applausi si ripeterono con minore intensità, come se il pubblico stesse ottemperando, di malavoglia, agli obblighi dell’etichetta.
Scacchi si accomodò sulla sedia posta al centro del tavolo e volse lo sguardo dapprima verso Biasi e subito dopo verso le guardie accomodate in prima fila. Fissò nella mente quei punti di riferimento, con la stessa tenacia di un naufrago che cerca a tutti i costi di orientarsi evitando di perdere di vista le stelle.
“Cosa ci faccio su questo palco?” si domandò con un misto di incredulità e timore. “Cosa faccio di fronte a tutta questa gente?”
Per diversi anni la sua quotidianità era stata scandita dai ritmi lenti e ossessivi del carcere, le giornate trascorse in ambienti separati dal mondo ma che aveva pian piano imparato a considerare familiari, i suoi pensieri divisi con i due compagni di cella che considerava a tutti gli effetti come amici. Trovandosi improvvisamente di fronte a quella moltitudine di persone accorse appositamente per vederlo e sentirlo parlare, Scacchi dovette ricorrere a tutta la sua determinazione per impedirsi di fuggire il più in fretta possibile.
“Agorafobia?” si chiese. Non ebbe tuttavia il tempo per darsi una risposta.
“Questa sera assisterete a una presentazione letteraria molto particolare” aveva nel frattempo cominciato a spiegare Guarneri dopo aver rivolto un saluto alle personalità presenti in sala. “Forse troppo spesso ci siamo trovati di fronte a dei casi letterari, scrittori che fino al giorno prima appaiono agli occhi del pubblico come perfetti sconosciuti e che si ritrovano, in un batter d’occhio, proiettati in cima alle classifiche di gradimento. Molte volte, dobbiamo ammetterlo, questi fenomeni sono costruiti ad arte e fanno affidamento sui media per influenzare i nostri gusti. Alcune volte, ciò che colpisce il potenziale lettore, che riesce a far breccia nel suo immaginario, non è tanto il contenuto dei libri, ma la capacità dello scrittore di trasformarsi in personaggio. E così l’autore diventa quasi più importante dell’opera, grazie al suo passato, alla simpatia, alla bellezza… oppure perché è un magistrato, un bracconiere, un cantante, un attore e così via. Così il suo successo si costruisce, almeno in parte, a prescindere dai contenuti della sua produzione letteraria. In altre situazioni, al contrario, è il libro a diventare di moda, a catalizzare le attenzioni del pubblico. Bisogna assolutamente averlo letto, quasi per obbligo sociale, in quanto il suo contenuto diventa obbligatorio argomento di conversazione. Ed è pertanto indispensabile averlo letto per avere possibilità di dialogo con i nostri conoscenti”.
Piero Scacchi ascoltò quelle parole sentendo crescere dentro di sé un disagio sempre maggiore. Quella serata rappresentava un importante tassello nella sua consacrazione in campo letterario: i suoi libri erano stati finalmente distribuiti al grande pubblico, soprattutto grazie all’investimento (o alla scommessa) che la casa editrice di Rivoni aveva effettuato su di lui. La sua prima uscita era stata organizzata in pompa magna, con tanto di salone addobbato per l’occasione e inviti distribuiti a personalità di vario livello. L’introduzione avrebbe dovuto mettere l’accento sull’importanza rivestita da un giovane scrittore che aveva abbandonato i panni dell’aspirante e si era trasformato in famoso.
“E allora perché questo panegirico sulle disfunzioni del panorama letterario e del mercato editoriale suona come un atto di accusa nei miei confronti?” pensò. “Sono un assassino condannato a vent’anni di carcere, riesco a far pubblicare i miei libri scritti dietro le sbarre, divento il simbolo delle possibilità di riscatto dei detenuti, scuoto e impietosisco le coscienze… mi sono trasformato in un personaggio, no? In un caso letterario. Il mio libro sta diventando di moda ed è anche per questo che vende migliaia di copie. E allora è il caso… adesso… di puntare il dito contro questi fenomeni?”
Seduto sulla sedia di fianco alla sua, Biasi cominciò a dare segni di impazienza. Piero capì che anche il direttore stava facendo le sue stesse considerazioni. Gli rivolse uno sguardo interrogativo a cui l’uomo rispose aggrottando le sopracciglia. Biasi attese che Guarneri concludesse la frase e si inserì nel discorso, togliendo la parola al critico.
“Ovviamente siamo qui per dimostrare che, nonostante le premesse, il successo di un’opera e di uno scrittore può anche venire dal talento e dall’abnegazione” disse. “Nel caso di Piero Scacchi, infatti, è frutto di un impegno portato avanti giorno dopo giorno e che si è trasformato in un importante mezzo, permettetemi il bisticcio di parole, di evasione dalla realtà del carcere”.
Piero osservò il sorriso comparire sui visi dei presenti. La battuta di Biasi, seppur piuttosto scontata, era riuscita a spezzare la tensione e, almeno così si augurava, a mutare il tono con cui era cominciata quella serata.
Mentre il direttore si lanciava in un elogio delle attività di recupero che potevano essere organizzate nelle carceri italiane, Piero si concesse il lusso di osservare i presenti. Si versò un bicchiere d’acqua e bevve un sorso, con la stessa meticolosità di chi cerca di costruirsi un alibi a regola d’arte. Sentiva infatti il bisogno di nascondersi dietro un gesto o un oggetto, per quanto effimera potesse essere la sua protezione.
A Scacchi bastò un’occhiata per registrare alcune caratteristiche dell’uditorio. L’età media dei presenti pareva piuttosto elevata, come anche la posizione sociale che occupavano: signori ben vestiti, raffinati, la maggior parte dei quali era accompagnata da una donna, quasi sicuramente la moglie o la compagna. In mezzo a loro si distinguevano altre figure, probabilmente gli inviati dei giornali locali, intenti a prendere appunti sui taccuini che affondavano nel palmo delle mani. I loro visi erano illuminati di riflesso dai flash dei fotografi, la cui frequenza era diminuita rispetto al momento dell’ingresso di Scacchi nella sala, senza tuttavia scomparire del tutto. Una telecamera, portata a spalle da un giovane cameraman, volgeva il suo occhio roteante verso il palco e registrava parole e movimenti.
Piero stava quasi per riportare l’attenzione sul foglio di appunti che aveva preparato per guidare il suo intervento, quando incrociò con lo sguardo una figura seduta in prima fila. I due si fissarono a lungo. Piero aveva sperato nella presenza di quell’uomo, considerandola tanto possibile quanto altamente improbabile. Non aveva fatto parola con nessuno di avergli inviato un invito particolare, anche se era certo che il suo nome non fosse passato inosservato agli occhi del personale carcerario incaricato di vagliare la posta dei detenuti.
“Avranno pensato che quella busta fosse soltanto l’ennesima delle mie stranezze” pensò Piero. Poi si rivolse al suo invitato: “E probabilmente nessuno di loro si sarebbe mai immaginato di vederla qui questa sera, vero senatore?”
Il destinatario di quel riverente saluto sembrò ribattere con un cenno del capo. Poi la sua attenzione tornò a spostarsi sul direttore del carcere, che stava terminando l’intervento.
“Strano che il Maestro di Cerimonie non abbia accennato a lui” proseguì Piero nella sua mente. “Ha rivolto un generico saluto alle personalità intervenute, questo sì, ma credevo che la presenza di Giulio Andreotti alla presentazione del libro di un esordiente non potesse passare inosservata”.
Forse era un segnale della perdita di importanza che il senatore a vita doveva patire da quando aveva deciso di non occuparsi più di politica attiva, da quando era stato delegittimato attraverso le accuse dei pentiti, da quando era stato uno dei simboli di quello che molti consideravano l’atto finale del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica.
“Eppure qualcosa mi dice che non sia così semplice escludere Andreotti dalla stanza dei bottoni” si disse Scacchi ricorrendo nuovamente al sostegno di un sorso d’acqua.
“Piero?” si sentì chiamare da una voce proveniente dalla sua destra.
Lo sguardo del direttore del carcere lo riportò alla realtà.
“Vuoi dire due parole sul libro?” lo incitò Biasi.
Piero guardò le persone sedute di fronte e comprese che tutte stavano attendendo che presentasse la sua opera. Avvicinò la testa al microfono e con voce incerta cominciò a parlare.
“Intanto vi ringrazio di essere intervenuti” esordì. “Non sono abituato a rivolgermi a un pubblico così vasto e quindi dovrete perdonare il ritmo stentato delle mie parole. In cella siamo solo in tre, quattro al massimo, e questo non rende necessario fare ricorso a particolari doti di oratoria.”
Piero abbassò lo sguardo sui fogli che aveva di fronte e cercò di mettere ordine nella sua mente. Avrebbe dovuto seguire la traccia che si era preparato. Uscire dal seminato poteva condurlo su terreni pericolosi. Eppure qualcosa dentro di lui lo spingeva a compiere un gesto di rottura, qualcosa di provocatorio e inaspettato. Certamente Biasi non sarebbe stato felice di quel comportamento, anzi, avrebbe punito Piero come fa ogni domatore che si rispetti con gli animali disobbedienti. Tuttavia il carcerato era sicuro che il gusto della sfida l’avrebbe aiutato a sopportare la punizione che lo attendeva.
“Come giustamente diceva il direttore” proseguì Piero “dovrei parlarvi del mio libro. In questo contesto sarebbe sicuramente la cosa giusta da fare. Mentre ascoltavo le parole del signore che ha introdotto questa serata… mi perdoni ma non conosco il suo nome” mentì rivolgendosi al Maestro di Cerimonie.
“Guarneri” sussurrò Biasi. “È un critico letterario” gli ricordò il direttore.
“Ecco” riprese Scacchi. “Le parole del signor Guarneri mi hanno ricordato che il pubblico non è interessato tanto al contenuto dei libri in sé, ma a tutto ciò che gira attorno al mondo della letteratura. Nel mio caso è sicuramente così: chi può essere considerato più personaggio di un assassino condannato dalla giustizia che un bel giorno si trasforma in romanziere? E allora, forse, credo che i presenti sarebbero molto più contenti di sentirmi raccontare qualche aneddoto sulle azioni che mi hanno condotto in carcere, non è forse vero? Perché ho ucciso una persona, come l’ho fatto, come mi sono sentito dopo… e come mi sentivo prima. No? Su, è così per tutti. Però ha ragione il direttore: devo parlare di me e della mia opera. Vogliamo partire dall’inizio? O meglio, partire dalla metà, quando il libro era già scritto e mi sono messo a cercare un editore. Ho qualche aneddoto divertente su questo, sapete? Ed è un argomento più rilassante da ascoltare di una noiosa lezione su cosa ho detto e soprattutto cosa avrei voluto dire con il mio libro”.
Gli occhi delle personalità sedute a fianco di Scacchi si cercarono nervosamente. Una sorta di panico, quasi palpabile, si propagò dal direttore al critico e da questi all’editore. Le sfumature che quel sentimento acquisì passando attraverso le mente e l’anima dei tre uomini non furono captate dalle persone in sala, ma non sfuggirono alla capacità di osservazione di Scacchi.
Biasi tirò fuori un fazzoletto dalla tasca della giacca e si asciugò il sudore dalla fronte. Guarneri si domandò come quel reietto della società potesse anche solo pensare di riallacciarsi alle sue parole, contaminandole con considerazioni fuori luogo. Il direttore del carcere si domandò perché Scacchi volesse infilarsi in quel vespaio.
“Perché è Scacchi” si rispose con arrendevolezza.
Piero non sembrava intenzionato a fare dei passi indietro. Forse a irritarlo, e a condurlo alla conclusione che doveva prendersi gioco dei presenti, era stata l’inopportuna introduzione di Guarneri, che l’aveva additato come nuovo fenomeno da baraccone dell’editoria italiana. O forse era stato il silenzio del suo editore: non avrebbe dovuto essere lui a rispondere per le rime alla gaffe del presentatore, mettendo in luce le doti dell’autore di un best seller che stava riempiendo le casse della sua azienda?
Ma più probabilmente la miscela esplosiva che l’aveva convinto a svelare i retroscena della pubblicazione di Cerchi era composta da altri due elementi: da un lato la presenza di Andreotti e dall’altro il divertimento di indispettire il pubblico delle grandi occasioni, che appariva ai suoi occhi saccente, fastidioso, rigido, artefatto, e ancora una lunga serie di aggettivi che si concatenavano in una giaculatoria senza fine.
“Quando ho terminato la bozza del mio romanzo” spiegò Scacchi “ne ho spedite in giro diverse copie. Sono stato autorizzato dal direttore, e di questo non lo ringrazierò mai abbastanza. I risultati, tuttavia, non sono stati molto incoraggianti. Metà degli editori a cui mi sono rivolto non mi ha nemmeno risposto. Ne prendo atto: non credo di aver scritto la nuova Divina Commedia, ma pensavo di meritarmi almeno un no grazie scritto in belle parole. L’altra metà, invece, si è fatta viva con proposte di diverso tipo, quasi tutte contenenti una richiesta di denaro: chi duemila, chi duemilacinquecento, chi tremila euro per pubblicare il mio libro. Credo che questo completi il discorso iniziale di Guarneri: se il mercato dell’editoria è marcio, la colpa non è soltanto degli autori, ma anche e soprattutto dell’industria dei libri”.
Il pubblico reagì a quella rivelazione con stupore misto a fastidio. Molti cominciarono a vociare e a scambiarsi battute. In pochi secondi la sala fu invasa da un brusio che sembrava crescere costantemente di intensità. Molti si domandavano dove andasse a parare quel discorso, così palesemente polemico e inopportuno, e soprattutto si chiedevano chi credeva di essere quello Scacchi. In fondo, era un assassino, un reietto della società, una persona pericolosa, un poco di buono. Solo un presuntuoso poteva ergersi a giudice e scagliarsi contro i presunti peccati degli editori.
Piero accolse con un sorriso quel rumoreggiare. Le sue parole cominciavano a fare effetto, e questo lo divertiva molto. Si concesse un sorso d’acqua prima di riprendere.
“Vi svelerò un segreto” proseguì. “Visto che siamo tra intimi, ovviamente. Sperando di incrementare le possibilità di pubblicazione, non mi sono limitato a spedire il libro soltanto agli editori. Ne ho mandate molte copie a uomini dello spettacolo, a giornalisti e politici. Se Cerchi fosse piaciuto anche a uno solo di loro, ammesso ovviamente che qualcuno lo leggesse, sarebbe stato questo personaggio famoso a spalancarmi le porte che con le mie forze non sarei mai riuscito ad aprire. Tra tutti coloro che ho contattato c’è anche il senatore Andreotti, che questa sera ci pregia della sua presenza”.
Il vociare riprese di intensità. Andreotti era presente in sala? Come mai? Perché si era scomodato per assistere alla presentazione del libro di Scacchi? Cosa poteva collegare i due? Queste domande risuonarono da un capo all’altro dell’uditorio, accompagnate da una rinvigorita ricomparsa dei flash dei fotografi.
Andreotti, dal canto suo, non si scompose minimamente. Restò seduto sulla sedia, con le mani appoggiate in grembo, l’una sull’altra. Il suo viso non tradì nessuna emozione e lo sguardo non si mosse di un millimetro, fisso in avanti, imperturbabile e al contempo vigile e indagatore.
“Se pensate che, in questo modo, io cercassi qualcuno disposto a raccomandarmi” spiegò Scacchi “pensate bene. A volte il fine giustifica i mezzi. E poi, non credo ci sia molto da scandalizzarsi, no? O meglio, noi italiani abbiamo il vizio di strapparci le vesti quando i raccomandati sono gli altri. Invece con noi stessi siamo molto più indulgenti. Per tornare al mio racconto, dopo aver spedito i pacchi sono arrivate alcune risposte. Una mi ha stupito molto: quella della casa editrice del dottor Rivoni. Dicevano di aver letto il libro e proponevano un incontro per discutere della possibile pubblicazione. A stupirmi non è stato né il contenuto della lettera né l’assenza di una proposta economica, ma l’identità stessa del mittente: la sua casa editrice non era tra quelle contattate direttamente da me”.
Scacchi si girò verso Rivoni e gli lanciò una muta richiesta di intervento. L’editore, tuttavia, si era apparentemente estraniato dal contesto e continuava a fissare con risolutezza un punto di fronte a sé.
“La prima cosa che pensai era che il mio stratagemma avesse funzionato” riprese Scacchi quando capì che non sarebbe stato in grado di penetrare il muro di indifferenza eretto dall’editore. “Qualcuno dei vip a cui avevo scritto mi aveva… segnalato. In quel momento non potevo sapere chi fosse il mio sponsor, ma mi ripromisi di indagare alla prima occasione. E l’occasione si presentò quando Rivoni ottenne il permesso di venirmi a trovare in carcere”.
L’editore abbassò lo sguardo e cominciò a giocherellare con una biro che aveva estratto dalla tasca della giacca gessata. Piero si divertì nel vederlo arrossire e chinare il capo, come se quel gesto, così palesemente insufficiente, potesse celare il suo imbarazzo.
“In verità abbiamo avuto un primo contatto telefonico” proseguì Scacchi “durante il quale ho capito che qualcosa non andava per il verso giusto. Rivoni sembrava stupito di sentirmi di persona. Mi fece ripetere diverse volte chi ero e domandò se veramente il libro l’avessi scritto io. Restai a bocca aperta: era tutta farina del mio sacco… perché aveva motivo di dubitarne? Ribattei con fermezza e, alla fine, sembrai riuscire a convincerlo. Eppure la curiosità di scoprire le motivazioni che l’avevano spinto a tenere questo strano atteggiamento non mi abbandonò per diversi giorni, fino a quando ci trovammo l’uno di fronte all’altro. E fu allora che mi feci spiegare per filo e per segno… Ma forse vuole raccontarlo lei, Rivoni?”.
L’editore gettò a Scacchi uno sguardo rovente. No, non voleva. La cosa era più che evidente. E non avrebbe voluto nemmeno che Piero rivelasse a tutti quell’episodio così imbarazzante. Figuriamoci se si sentiva di parlarne di persona.
“Allora proseguo io” ruppe gli indugi Scacchi. “Quando ci vedemmo, Rivoni mi mostrò il manoscritto che aveva ricevuto. Lo presi in mano: era uno dei miei. Lessi il titolo, Cerchi, aprii la prima pagina e cominciai a sfogliarlo. Notai subito un particolare: vicino al mio nome, qualcuno aveva apposto una firma. Non c’erano parole, inviti, spiegazioni, nulla di tutto ciò: una semplice firma. Alzai gli occhi e fissai Rivoni. Fu in quel momento che capii”.
“Di chi era la firma?” chiese una voce dal pubblico, probabilmente un giornalista che voleva affrettare il momento di una rivelazione che già era stata intuita da molti.
“Giulio Andreotti” rispose Scacchi senza indugi.
Il brusio a cui Piero si era ormai abituato si manifestò nuovamente. La foga con cui il pubblico si scambiava opinioni e commenti, tuttavia, conferì a quel rumore sommesso una forza tale da trasformarlo in vociare alto e fastidioso. Guarneri fu costretto a intervenire per placare gli animi. Con piglio da insegnante di scuola media, cominciò a sbattere manate sul tavolo e a richiamare all’ordine il pubblico.
“Forse non mi sono spiegato correttamente” disse Scacchi una volta ottenuto il silenzio “e qualcuno avrà frainteso. Ma è colpa mia. Sono sicuro che avrete pensato che Rivoni mi ha contattato per via della raccomandazione di Andreotti, vero? No, no, non è andata così. La firma del senatore non era stata interpretata come il segno di un interessamento nei miei confronti. Semplicemente, quella traccia lasciata sul manoscritto aveva indotto l’editore ad attribuire ad altri la paternità del romanzo. Capite? Non era Andreotti a raccomandare Piero Scacchi: era Piero Scacchi a essere lo pseudonimo di Andreotti. Rivoni aveva pensato che il senatore avesse scritto il romanzo e, per qualche motivo ancora da spiegare, volesse celarsi dietro uno pseudonimo”.
Per quanto strampalata potesse sembrare quella storia, molti dei presenti annuirono in segno di approvazione. Il fatto che Andreotti non volesse comparire sulla copertina di un romanzo poteva essere considerato coerente con il ruolo di eminenza grigia che esercitava da decenni. O forse il contenuto del libro non si sposava con l’immagine che si era costruito in tutto quel tempo. O ancora, si trattava soltanto del vezzo di un uomo così potente da potersi permettere di decidere a suo piacimento le regole del gioco. C’erano decine di possibili spiegazioni. E poi, trattandosi di Andreotti, chi poteva davvero indagare e comprendere le ragioni profonde di quel gesto?
“Naturalmente l’equivoco fu subito chiarito” riprese Scacchi. “E, come vedete, il libro è stato pubblicato lo stesso. Tutto è bene quel che finisce bene, o almeno così si dice. Ma allora perché ho voluto raccontare tutta questa manfrina? Vede, Guarneri, il fatto che gli scrittori di oggi si siano trasformati in personaggi è sicuramente un fatto negativo: ragionando al contrario potrei dire che se un autore non è abbastanza personaggio non potrà mai pubblicare un libro. E questo è grave, lo comprendo persino io che, con il mio passato, il titolo di personaggio me lo sono meritato appieno. Eppure, credo, che non sia corretto porre il problema in questi termini: quello che dovrebbe indignare è che, senza uno sponsor, un esordiente non possa pubblicare un libro, anzi, non possa nemmeno farlo arrivare sulla scrivania di un editore importante con la speranza che venga letto e non gettato immediatamente nella carta da riciclo. Ma di questo non si parla, anzi, si stimolano i giovani a impegnarsi per raggiungere i loro obiettivi, per fare sempre meglio, e si tace sul dettaglio che meglio non è di per sé sufficiente se non va di pari passo con segnalato da qualcuno di importante. Il mio caso, anche se decisamente emblematico, è però del tutto particolare. Io non sono diventato un personaggio e non ho nemmeno dovuto ricorrere a una raccomandazione: per pubblicare il mio libro sono stato costretto a trasformarmi nello pseudonimo di Giulio Andreotti. E ringrazio che sia finita così: indubbiamente poteva andarmi molto peggio”.
Questa volta Guarneri ebbe notevoli difficoltà a far ritornare il silenzio in sala e a proseguire con gli interventi. Mentre sul palco i diversi oratori si scambiavano commenti sull’intervento dell’autore e cominciavano, finalmente, a parlare del contenuto dell’opera, Scacchi si sistemò sulla sedia, cercando di assumere una posizione più comoda. Da quel suo punto di osservazione si godette con aria soddisfatta e al contempo distratta il resto della presentazione. Aveva avuto il suo momento di trionfo, ma sapeva che avrebbe dovuto anche pagarne le conseguenze. Fu per quel motivo che si sforzò di non voltare mai la testa verso il direttore del carcere e fece di tutto per non incrociarne lo sguardo.
Fortunatamente nessuno ebbe l’idea di chiamare Andreotti sul palco o di chiedergli di intervenire. Il senatore continuò a restare attento e impassibile, come se stesse registrando nella memoria ogni accadimento, per quanto irrilevante, di quell’incontro. Soltanto quando sentì Scacchi rispondere a una domanda sul suo prossimo libro, Andreotti cambiò espressione, limitandosi a sollevare lo sguardo e a fissare l’autore in viso.
“Il titolo è Di cose giuste e di cose ingiuste” sentì spiegare da Scacchi. “Tratta i temi della famiglia, delle scelte che influenzano la vita degli altri, del modo in cui le persone affrontano la sofferenza e la diversità”.
Guarneri decise che quell’anticipazione sul futuro editoriale del giovane autore fosse il modo migliore per concludere la serata e si affrettò a congedare i presenti. Scacchi scese dal palco seguito da Biasi e fu accolto dalle due guardie carcerarie che gli andarono immediatamente incontro. Il quartetto si stava apprestando a incamminarsi verso l’uscita, quando una voce attirò l’attenzione di Scacchi.
“Le faccio i miei complimenti” disse Andreotti rivolgendosi allo scrittore.
Scacchi gli si avvicinò colmando i pochi passi che li dividevano e si affrettò a stringergli la mano.
“Se sono arrivato qui lo devo principalmente a lei” rispose.
“Non ha nulla di cui ringraziarmi” ribatté Andreotti con ironia. “Tutti vorrebbero vedere il proprio pseudonimo ottenere un così grande successo di pubblico”.
“Lo immagino” scherzò Scacchi.
“Le chiederei però un favore” aggiunse il senatore a vita.
“Quale?”
“Quando parla del suo prossimo libro, non dica che si chiamerà Di cose giuste e di cose ingiuste”.
“Come mai?” chiese Scacchi incuriosito. “Potrei rovinare la sorpresa a qualcuno?”
“No” rispose Andreotti sornione. “È solo che non ho ancora deciso se lasciare quello lì o se sceglierne un altro”.
In preda a uno stato tra il confuso e il frastornato, Piero Scacchi sorrise mentre stringeva nuovamente la mano al senatore. Quel sorriso plastificato non lo abbandonò nemmeno mentre osservava la schiena curva di Andreotti dirigersi verso l’uscita. Quando le guardie gli fecero cenno di muoversi, Scacchi stava continuando a domandarsi quanto quell’espressione avrebbe potuto permanere sul suo viso.